giovedì 5 gennaio 2023

Ritorno sul Don, parte 9

Mia moglie forse capisce qualcosa perché mi stringe il braccio. - Ho freddo, - dice poi. Ma se dovessi dire a Boris di chiudere il finestrino certo si addormenterebbe perché sono undici ore che guida, e così copro Anna con la mia cacciatora di velluto e lana. Il paese che si dovrebbe raggiungere è Alessjevka (anche allora, in un primo tempo, fu una meta: dicevano che c'era un caposaldo tedesco, invece era già stato occupato); da Alessjevka prenderemo la strada asfaltata per Bielgorod e Charkov. Ma questo paese sembra irraggiungibile, e quando Boris si accorge di aver perso la pista buona, chissà dove diavolo siamo.

Seguendo la carreggiata di un trattore arriviamo nelle vicinanze di un grande recinto fiancheggiato da due stalle. I fari illuminano un branco di cavalli e i puledri spaventati corrono in tondo con le criniere e le code al vento; e mi viene davanti un'altra immagine, quando la mia compagnia una notte era in colonna accerchiata: c'era tormenta e sbucarono dal buio due autoblinde che nel turbinio della neve ci spararono sopra la testa raffiche di traccianti. Poi sparirono nuovamente nel buio; come questi puledri, dopo che Boris ha spento i fari. Non c'è nessuno qui, a custodire i cavalli, nessuno risponde al nostro richiamo. Risaliamo in macchina e ci inoltriamo cautamente verso il fondo di una balca; incontriamo delle isbe, Boris suona il clacson e scende. Dei cani abbaiano, qualche porta si apre e nel riquadro della luce compaiono delle figure di donne. I ragazzi saranno tutti a letto perché è tardi.

Chiediamo la strada per Alessjevka e rispondono tutte insieme, dicendo cose differenti. Dal gran ciacolare che fanno riesco a capire che grosso modo siamo in quella zona poco abitata che è tra Varvarocka e Ostrogorsk. Anche degli uomini sono usciti dal loro sonno, fanno stare zitte le donne e poi parlano con calma. Ci offrono anche ospitalità e dico a Larissa e Boris di fermarci: potremo riprendere domattina. Noi è possibile, dicono: dobbiamo ritornare nel nostro albergo anche a costo di viaggiare sino a giorno. A questo riguardo, forse, avranno ricevuto una consegna. Allora un giovanotto si offre di accompagnarci verso la strada buona e lo facciamo salire dietro, con me e mia moglie. Ripartiamo ringraziando e salutando la gente di questo paese sconosciuto: - Bolsciòi spasiba! - Dasvidània, - ci dicono loro. Dopo un'ora il ragazzo scende, dice che in questo villaggio che stiamo attraversando c'è una donna che l'attende e che domani, con la fortuna di qualche trattore kolcosiano, ritornerà a casa per far pascolare i cavalli. Ci indica la strada buona e ci augura buon viaggio fino in Italia.

La macchina corre nel buio, il vento gelido della steppa entra dal finestrino tutto aperto, nessuno dice parole. Boris ogni tanto rallenta la corsa e china la testa sul volante; anche se andiamo fuori strada, penso, non succederà niente: è tutto piano! Prima un tasso, poi una volpe, un'altra volpe ancora e delle lepri attraversano nella luce dei fari dove sempre le foglie dell'autunno sembrano farfalle rosse. In queste distese infinte dormono i miei compagni, e questa la Russia che sono venuto a cercare.

Altre due volte abbiamo perso la strada in quella notte che avrei voluto ancora più lunga. In un villaggio, dove Borìs cercava qualcuno per chiedere dell'acqua, due giovani ci rispondono buffamente, ciondolando: anche qui ci sono gli ubriachi del sabato. Larissa e Boris sono seccati per questo incidente davanti agli ospiti stranieri, ma io sorrido al loro imbarazzo. Più avanti una gomma si sgonfia, lontano abbaiano i cani, delle gocce miste a neve ci sferzano mentre cambiamo la ruota. Dopo altre due ore di viaggio e di silenzio dico a Borìs, che sento teso per la stanchezza e il dispetto di aver smarrito la strada: - Non prendertela! Se non arriveremo a Charkov arriveremo a Voronez o a Mosca. E'lo stesso! - Finalmente lo sento ridere, e finisco: - Nicevò, Boris, nièt voinà! - Non prendertela, non siamo in guerra.

Se ci fossero le stelle, la troverei la strada per Charkov. Ma quanti nostri compagni allora, in quella bufera di fuoco e di neve come in un inferno, non hanno trovato la strada di casa? Camminavano, giravano in tondo, si trascinavano sulle ginocchia e si perdevano. Quando ritornavano le stelle o il sole, un piccolo rialzo sulla neve indicava che li sotto c'era un uomo. Finalmente troviamo una tabella che indica Koroça. Ci eravamo portati troppo a nord, ma tra centoquaranta chilometri di buona strada saremo a Charkov, nell'albero dell'Inturist dove sarà fin troppo caldo. Ci arriveremo per la prima colazione; è da Rossoch, dal mezzogiorno di ieri, che non mangiamo; e come cena abbiamo succhiato le grosse caramelle di crema, comperate dalla donna che mi ha detto «arrivederci».

Per due giorni mia moglie stette quasi sempre a letto con la febbre e io verso sera uscivo un paio d'ore a passeggiare per la città. Mi piaceva andare lungo una vecchia strada, forse la più vecchia e intatta e paesana via di questa Charkov rifatta nuova dopo tante battaglie. Su questa mia cara strada, dei gradini scendono verso le porte illuminate delle botteghe seminterrate: li sotto è caldo, è intimo. Entro in tutte: vendono libri, stampe, tabacco, tè, ciambelle, bottoni. Sono riuscito a trovare un pacchetto di makorka, il vecchio e rustico tabacco ucraino che noi e i nostri paesani russi riuscivamo a fumare nei Lager. - Mario, davài gazieta, - mi diceva Piotr Ivanovic. E con un pezzo di giornale propagandistico tedesco faceva delle grosse sigarette che quando aspirava si incendiavano. Ora questo ritrovato makorka mi sembra il tabacco più prezioso e più buono del mondo. La vecchia che l'ha spolverato dal più riposto angolo della bottega me lo porge scrollando la testa e non vuole nemmeno le copeke del prezzo segnato sulla carta gialla; forse ha capito cosa cercavo.

Queste botteghe sotto il livello della strada piena del traffico serale mi ricordano la vecchia Russia di Gogol e Chagall; solo che una volta entrato non trovo vecchi mercanti, ma studenti. Ragazzi e ragazze che sfogliano libri, bevono il tè, discutono, si scambiano francobolli e distintivi, si fanno i fatti loro, insomma; e io vecchio sergente maggiore degli alpini che ho combattuto contro i loro padri prima di essere stato a questi fratello, mi sembra d'essere dell'era neolitica. O forse no, perché in una bottega color cannella dove mi sono fermato a bere tè e mangiare frittelle, quando stavo per uscire un paio del gruppo mi hanno detto «ciao». Proprio ciao!

Anche verso la periferia della città, dove stanno costruendo dei nuovi rioni, sono andato un paio di volte camminando tranquillo. Le costruzioni sono grandi moderne, con centinaia di appartamenti, ma attorno vi sono ancora case a un piano con gli orti e le galline. Una profonda balca divide la città vecchia dalla nuova e un largo ponte la scavalca. Mi sono fermato sul ponte a vedere la gente che ritornava a sera con le borse della spesa; venivano anche dalla campagna in bicicletta e con ceste di funghi. Un cacciatore teneva al guinzaglio un magnifico bracco unicolore: passando mi annusò e mosse la coda. Certo avrà sentito sui pantaloni l'odore del mio Cimbro. Io lo grattai dietro le orecchie.

Ritornammo a Kiev e il giorno dopo riprendemmo il treno che da Togliattigrad va a Torino. Compagno di viaggio era un chiassoso italo-americano, nato da genitori trentini, che dal tempo della guerra di Corea vive a Tokyo. Aveva preso la transiberiana a Vladivostok e portava con sé un armamento di macchine fotografiche e cineprese; ma anche bottiglie di whisky e tanti dollari. Appena varcata la frontiera dell'Urss si mise a imprecare contro i doganieri sovietici che gli avevano messo a soqquadro la cabina. Io volevo stare in pace, e in silenzio guardare dal treno la campagna dove i trattori rivoltavano la terra e gli uccelli volavano sopra gli arati. Anche allora, nel 1943, quando noi pochi rimasti prendemmo il treno per ritornare, avevo portato via una immagine simile che per anni mi aiutò a vivere: dopo un villaggio distrutto, su una collina nera contro l'orizzonte del cielo rosso un contadino arava solitario, un cavallo bianco e magro tirava l'aratro e la lunga frusta che il contadino teneva diritta pareva sostenere il cielo.

Ecco, sono ritornato a casa ancora una volta; ma ora so che laggiù, quello tra il Donetz e il Don, è diventato il posto più tranquillo del mondo. C'è una grande pace, un grande silenzio, un'infinita dolcezza. La finestra della mia stanza inquadra boschi e montagne, ma lontano, oltre le Alpi, le pianure, i grandi fiumi, vedo sempre quei villaggi e quelle pianure dove dormono nella loro pace i nostri compagni che non sono tornati a baita.

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