giovedì 22 luglio 2021

Il viaggio del 2011, steppa a Novo Georgiewskij

Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... la steppa fra Novo Georgiewskij e Krawzowka.



Palù, la Bigia e tutti gli altri, parte 4

Palù, la Bigia e tutti gli altri... quarta ed ultima parte.

Palù, dal canto suo, ha calmato in parte la fame; sente freddo agli arti inferiori ma non gli dà eccessivo fastidio, e poi in quella posizione accosciata sente che riposa. Pensa che in tutta la sua carriera di rado ha dormito sdraiato a terra; sempre in piedi, ora su due zampe ora sulle altre due. È da quando è cominciata questa lunga marcia, che ha conosciuto il benefico riposo a terra. Sente il corpo del suo conducente adagiato sul suo fianco destro, appoggiato alla Bigia, e non muove un muscolo per non svegliarlo; sa che deve proteggerlo perché il conducente protegge lui. Ha notato che, prima di ogni altra cosa, appena lo ha fatto accasciare a terra, gli ha dato da mangiare, lo ha coperto con quel telone che ora comincia a pesare per la gran neve che il vento vi deposita sopra e prova un senso di riconoscenza per quell'uomo con il quale ha diviso la sorte per tanti anni. Ha un cuore grande, Palù, e dentro vi è posto per solo per il suo conducente.

Il mulo agita la testa mentre le sue robuste zampe affondano nella neve e procedono sicure. Il passo della Bigia è invece stanco, si direbbe che si lasci trascinare dal maschio e Scotto se ne accorge perché la testa della mula è sempre un mezzo metro indietro, rispetto a quella di Palù. "Forza Bigia", la incoraggia, e passa dalla sua parte lasciando la briglia del maschio e afferrando con la mano sinistra quella della mula. Camminando sente il respiro affannoso della bestia, quasi un rantolo che le gorgoglia nel lungo collo mentre la pelle delle zampe trema, come se i muscoli che sono sotto abbiano delle contrazioni dolorose. Il conducente pensa con raccapriccio che la mula sia ammalata, o esausta, e non abbia più la forza per farcela. Ma proseguono, passo dopo passo, forse più lenti del ritmo normale di marcia, ma con decisione, gli occhi fissi alle tracce lasciate dalle altre slitte e dagli zoccoli dei muli. Devono raggiungerla via della salvezza, ad ogni costo.

Quando comincia ad albeggiare è un pallido sole sorge a oriente, fanno una sosta e la Bigia crolla nella neve. Subito liberata dai finimenti, viene massaggiata dal conducente con del fieno, sulla pancia, sui fianchi, sul collo, sulle zampe. Ma il su occhio annebbiato, sbatte le palpebre dalle lunghe ciglia e respira a fatica; le orecchie hanno dei movimenti in avanti e indietro, come a cercare di percepire rumori che solo lei sente. "Bigia, anima mia, coraggio!", le sussurra il conducente e cerca di versarle delle gocce di grappa fra le labbra, ma quella le sputa. Palù irrequieto, si muove avanti e indietro, attaccato alle tirelle, gira di continuo la grande testa verso la sua compagna di fatiche e a tratti di sbuffa dalle dalle grandi narici, oppure emette un suono, con un richiamo inarticolato ma doloroso. Sente che la Bigia sta morendo: come tutti gli animali, al sentore della morte prima degli uomini e ne ha paura. Ad un tratto si rizza sulle zampe posteriori e agita le anteriori nell'aria, una, due volte. In quel momento la mula fa un lungo sospiro e la sua testa cadde nella neve, affondandovi a metà, un occhio fuori e l'altro sepolto nella coltre bianca; le sue zampe si irrigidiscono, sembrano più sottili e più lunghe. La sua coda si confonde col bianco della neve.

Scotto e lì immobile, una mano posata sulla testa dell'animale, lo sguardo fisso quel l'occhio ancora aperto ma senza più luce nella pupilla; si sente come svuotato, ha perduto la forza e la sua mente vaga come in un mare in tempesta; rivede in pochi attimi tutte le scene di guerre e di morte... E mentre l'ufficiale esegue l'operazione, il conducente sposta la slitta per lasciare la mula fuori dalle tirelle, poi prendo il badile e comincia a coprire la Bigia con tanta neve. Nessuno deve ridurre a bistecche la Bigia, dice a sé stesso, e in quel momento comincia a piangere. Le lacrime scendono nel passamontagna e si mescolano al ghiaccio rappreso davanti alla bocca, al sudiciume; scendono nei peli della barba dove sono andati i pidocchi. Ha gli occhi annebbiati il povero conducente, e lavora, lavora di badile, creando una montagnetta di neve sul corpo della bestia. Ultima a coprire è la testa, distesa e smagrita, con l'occhio sempre aperto, come se guardasse davanti a sé, la pista e le tracce delle slitte che sono passate di lì indicano a loro la via della salvezza.

La marea degli sbandati si muove come una valanga, precipita giù per il vallone, risale la china, si accalca verso il sottopassaggio; alcuni salgono sul terrapieno e dilagano nella città seguendo i combattenti. Anche le slitte dei feriti si muovono e scivolano per il pendio; i conducenti trattengono i muli e frenano le slitte con forza per non travolgere i quadrupedi. Il fondo della vallata è coperto di cadaveri e i conducenti guidano i muli onde evitare quei miseri resti raggomitolati o distesi nella neve, quasi irriconoscibili con il passamontagna ricoperto di sangue o con chiazze sul petto, sul dorso, mentre la neve è rossa ovunque.

Introdursi nel sottopassaggio è impresa ardua, con le slitte, perché la gran massa che vi si accalca dentro, vociante in diverse lingue e in tutti di dialetti d'Italia, resa cattiva e feroce da giorni e giorni di lotta, di privazioni e di fame; protesa verso l'uscita del sottopassaggio che in quel momento rappresenta la via della salvezza. E gli uomini calpestano i feriti, si fanno largo a spallate, a spintoni, bestemmiando, urlando, minacciando con le più diverse armi, dalle baionette alle pistole, che intralcia il passo. Qualcuno spara contro un commilitone e quello si accascia, subito travolto e calpestato dagli altri. Scotto ferma la sua slitta e aspetta con pazienza che la marea sia passata, non vuole rischiare la vita sua e del suo mulo in quella calca infernale. La fiumana di sbandati si assottiglia; adesso gli uomini passano là sotto con più facilità, c'è un po' di spazio fra uno e l'altro.

Ma in quel momento il destino ha segnato l'ora fatale per il mulo Palù. Procedendo cauto, appoggia lo zoccolo destro su uno strato di neve che sembra consistente e gelata, ma cede, la zampa affonda, con un rumore sinistro, fino al ginocchio; il conducente avverte il sordo rumore e nello stesso tempo il suo braccio, che tiene la briglia, subisce uno strappo in avanti; la testa del mulo picchia a terra, la zampa sinistra si piega sotto il corpo dell'animale e Palù lancia una specie di urlo di dolore. Gli altri non hanno udito e stanno proseguendo lungo il terrapieno ma Scotto chiama, urla: "Aiuto, aiutatemi!". La slitta che lo precede si arresta, poi si arrestano le altre e i conducenti accorrono. Scotto ha già staccato le tirelle, ha liberato la bestia dei finimenti e continua a ripetere: "Bono Palù, bono, non ti muovere".

Il mulo obbedisce, paziente, appoggiato il muso nella neve e gira i suoi grandi occhi attorno, come un cerca di aiuto. Il suo conducente scava con le unghie la neve, attorno alla zampa sepolta dell'animale, penetra nella cavità, sente che una buca di pochi decimetri di diametro; lo zoccolo appoggio sul fondo, ma sente anche che lo stinco di Palù è spezzato, le ossa premono contro la pelle puntute, come coltelli. È come se il sangue si fosse ghiacciato nelle vene del povero conducente; alza gli occhi sui compagni che stanno lì ad osservare, pronti ad aiutarlo, poi dice sotto voce, quasi non volesse far sentire al mulo: "Ha uno stinco spezzato!". Gli uomini si prodigano, afferrano l'animale sotto la pancia e, facendo forza tutti insieme, lentamente lo sollevano. La zampa lesionata viene alla luce e il mulo nitrisce di dolore. Lo fanno coricare sul fianco sinistro e Scotto è lì con lo sguardo allucinato; non ha più forza e il suo cervello è come paralizzato. Sa cosa significa una zampa spezzata, è la morte, inesorabile, sicura. Si avvicina la testa di Palù, accarezza la grande fronte, dove spicca la stella bianca, le froge calde e fumanti; sente il respiro ansimante della bestia, ma non ha il coraggio di guardarla negli occhi.

"Palù, amico mio", gli mormora con dolcezza, "non aver paura, sono qua io!", e gli accarezza ed orecchie che vibrano a percepire tutti i suoni e i rumori. Il dolore della ferita deve essere lancinante. La zampa si è gonfiata in maniera orrenda, dal ginocchio allo zoccolo che quasi scompare, ora, sotto il gonfiore. Arriva il capitano medico che esamina subito la zampa lesionata, ma al tocco delle sue mani la bestia ha come un sobbalzo per il dolore; il medico si rialza e si avvicina al conducente, appoggiandogli il braccio ancora valido sulle spalle. "Coraggio, amico mio. Questa nobile bestia che ci ha portato in salvo, sta per finire di soffrire".

"Come sarebbe a dire?", salta su Scotto con atteggiamento quasi aggressivo. "Tu te ne intendi più di me", dice il capitano medico, "se fossimo al reggimento, con un'infermeria, un veterinario e tutti gli aiuti necessari, forse si potrebbe anche tentare di ridurre la frattura, ingessare la zampa e lasciare il mulo sdraiato per un mese o due; ma sarebbe comunque un mulo invalido per sempre, anche se potesse riprendere a camminare. Ma qui..." e si interrompe con un sospiro. "Allora vuol dire che dobbiamo abbatterlo?". Il capitano fa cenno di sì con la testa e non dice altro. Egli sa quale sia l'affetto che mulo e conducente hanno uno per l'altro; ha ammirato la forza, l'intelligenza, il coraggio di entrambi e sente un vero struggimento di fronte alla triste realtà e alla decisione che con Scotto deve prendere.

Il conducente, stretto nelle spalle, rimpicciolito dal dolore che lo stringe come una morsa, non piange, guarda tutti i morti che sono seminati lì attorno e per quelli non prova né pietà né dolore, ma per Palù sente il cuore che il cuore batte a ritmo accelerato, con colpi sordi, come se volesse scoppiarli un petto. Non sa cosa fare, non sa pensare, non sa ragionare e torna ad inginocchiarsi vicino alla grande testa nera, l'accarezza e gli occhi di Palù sembra chiedano cosa gli è successo, cosa vogliono fargli, perché è crollato mentre sente ancora tanta forza nei suoi muscoli poderosi. "Signor capitano", dice piano Scotto all'ufficiale che è lì ad attendere, "faccia lei, ma mi raccomando, che non soffra. Poi lo faccia coprire con il telone della slitta, lì ci sono delle traversine, le faccia mettere sul telo, che nessuno veda il cadavere del più bel mulo degli alpini". Accarezza un'ultima volta la grande testa di Palù, il collo in cui guizzano nervosi muscoli e tendini; le lacrime gli offuscano la vista e scendono copiose nella barba incolta. "Ciao, vecchio mio, fratello mio", mormora singhiozzando, poi si alza procedendo a tentoni, come se fosse ubriaco, e si allontana, dirigendosi verso le altre slitte.

Ma Scotto si sente solo, sperduto, come un forestiero che capiti in una città sconosciuta, dove la gente parla un'altra lingua, ed è allegra, ride, schiamazza, si diverte e lui non capisce una parola, non sa a chi rivolgersi, dove dirigere i propri passi; è preso dalla disperazione, dalla nostalgia per il paese lontano, dove parlano la sua lingua, sono come lui; puoi entrare in un bar per ordinare un bicchiere di vino, e subito trovi un amico. Ha sulle spalle il suo zaino e il "sacco comune" del mulo, nel quale verrà deposto lo zoccolo anteriore sinistro, quello col numero di matricola. Ma non lo consegnerà ad un comando militare per far scaricare dalla "forza" del reggimento il mulo Palù. Lo terrà con sé, per tutta la vita, lo metterà in camera sua, nella casetta lassù sulla collina di Pegli, accanto alla fotografia di Palù, quella che il tenente Morena mi ha fatto tanti anni addietro a tenda.

Si sente lontano uno sparo, dietro a loro. Ecco, Palù è morto, adesso lo copriranno, il capitano staccherà lo zoccolo e lo porterà lui, magari avvolto in un panno, o in un sacco. L'idea passa come un lampo accecante nella mente del conducente che si arresta, vorrebbe correre indietro, rivedere suo Palù, ma la morte dell'amico mulo lo ha inchiodato lì, avvolto dalla notte buia, mentre la neve ricomincia a cadere, dapprima sottile e soffice, poi sempre più fitta e fa velo sugli occhi, imbianca i pastrani sporchi e laceri, lo zaino che tiene appeso a una spalla. Palù ha compiuto l'ultimo miracolo, per loro: li ha portati fino alla meta che si erano prefissi di raggiungere e rimane qui, col suo possente corpo dal manto nero con la stella bianca in fronte, forse a proteggere gli altri innumerevoli passi che questi superstiti dovranno compiere prima di salire su un treno che le riporterà a casa.

Ecco... qui finisce la storia di Palù, della Bigia e di tutti gli altri, anche loro non tornati dalla Russia. Ora so che il prossimo 26 gennaio che passerò in Russia, arrivato a Nikolajewka e superato il vero sottopassaggio che loro attraversarono, mi dirigerò a sinistra, lungo la massicciata, esattamente come hanno fatto loro e dopo qualche metro lascerò nella neve un fiore per Palù, per la Bigia e per tutti gli altri...

domenica 11 luglio 2021

Il processo D'Onofrio, parte 12

Il processo D'Onofrio, dodicesima parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.

LA VENTESIMA UDIENZA.

21 giugno 1949 - Con gli ultimi quattro testi d’accusa escussi, l’istruttoria orale del processo D'Onofrio - Reduci si è chiusa per riprendere fra quindici giorni quando comincerà il torneo oratorio degli avvocati. Fino a quel giorno riposo.

Il serg. Corrado Cicognani è stato il primo ad essere ascoltato. Egli ha esordito dicendo di non essere venuto per difendere la Russia ma gli italiani. E infatti ha mantenuto fede alla premessa in quanto la sua deposizione è stata tutto un elogio al comportamento dei fuorusciti e all'interessamento dimostrato verso i prigionieri italiani. E per non essere disturbato ha voluto gentilmente pregare il Presidente di non interromperlo perché aveva cose molto importanti da dire: cose vissute. La signora Torre fu 'una vera madre' della quale il teste ha enumerato i meriti e le virtù eccezionali che andavano dalle benefiche parole di esortazione alle più vive preoccupazioni per le condizioni di salute degli internati; dall’interessamento presso le autorità sovietiche per un miglioramento del vitto alla ottenuta sostituzione dei rumeni nel servizio sanitario con medici italiani. E tutti gli altri emigrati ebbero più o meno gli stessi meriti.

Presidente: 'Ci parli della scuola di antifascismo'.

Cicognani: 'Se lei mi lascia parlare vedrà che piano piano dirò tutto. Molti frequentarono i corsi di antifascismo perché si diceva che il vitto là era migliore. Io ci andai per curiosità di sapere che cosa vi si insegnasse e così fui assegnato alla scuola numero 165 dove conobbi come istruttori Rizzoli e Robotti. Ero molto contento quando loro parlavano del Risorgimento Italiano, di Mazzini (io sono repubblicano, iscritto al partito) e di Garibaldi. Ma non ne volevo sapere di sentire parlare di Marx perché era un tedesco. Però anche se Marx non mi piaceva gli istruttori mi volevano bene lo stesso. Alla fine del corso c'era da prestare un giuramento di fedeltà al popolo italiano ma non era affatto obbligatorio. Chi non voleva, non giurava. Dopo il corso tornai in Italia'.

Dopo una breve deposizione del soldato Fiorenzo Lancellotti, il quale ha dichiarato di non poter dire che bene dei fuorusciti italiani in genere e di D'Onofrio in particolare, perché sollevava il morale dei prigionieri, è salito sulla pedana il sottotenente Francesco Serio. Egli ha ammesso che le razioni di viveri a Krinovaia erano assolutamente insufficienti ma, ha aggiunto, che ciò dipendeva dal gran numero dei prigionieri presenti, per cui malgrado le cucine fossero in funzione giorno e notte ininterrottamente, non riuscivano a soddisfare le esigenze della enorme massa degli internati. Le preoccupazioni alimentari però finirono con il trasferimento ad Oranki dove si mangiava discretamente. Del D'Onofrio ha detto che egli non propagandò mai idee comuniste ma soltanto antifasciste.

Il teste ha poi ricordato che prima di rimpatriare, ad Odessa, alcuni prigionieri presero l'iniziativa di scrivere una lettera di ringraziamento al popolo sovietico per il trattamento usato ai prigionieri e soltanto pochi ufficiali si rifiutarono di sottoscrivere.

A questo punto l'imputato Emett si è alzato e, chiesta la parola al Tribunale, ha voluto chiarire che egli fu uno di quelli che si rifiutarono di firmare la dichiarazione di ringraziamento.

Emett: 'Ritenevo che cosi facendo mi sarei acquistato il disprezzo di tutte le madri italiane. Per questo rifiuto, io e numerosi altri, fummo trattenuti ancora per qualche tempo in Russia. Il signor Serio quando eravamo ad Oranki mi vendette, per tre razioni di pane, una gavetta tedesca. Per poco non finii in galera perché il Serio la gavetta l’aveva rubata ad un prigioniero tedesco'.

Serio: 'È falso, lo in quel periodo ero nel lazzaretto'.

Ultimo teste, il ten. Nando Bellotti, il quale ha narrato delle epidemie che scoppiarono nei campi. Una infermiera russa, che aveva il fratello morto sul fronte italiano, donò il proprio sangue per la vita di un nostro prigioniero. Di D'Onofrio ha ricordato l'opera benefica svolta a favore dei prigionieri ed ha aggiunto che il ten. Ioli si meravigliò moltissimo quando seppe che era un operaio e affermò che se tutti i fuorusciti italiani fossero stati come il D'Onofrio, i prigionieri in Russia sarebbero stati molto meglio. Quanto alla tolleranza religiosa dei sovietici il teste ha affermato che era tale che le autorità russe consentirono in occasione della Pasqua del 1943 che il cappellano Aleggiani celebrasse una messa. I russi stessi procurarono gli arredi sacri e le ostie per la comunione dei prigionieri.

Avv. Mastino Del Rio: 'Il cappellano Aleggiani ha fatto ritorno in Patria?'.

Bellotti: 'Non mi risulta'.

Presidente: 'Il teste ebbe un incidente al ritorno in Italia?'.

Bellotti: 'Sì. Io ed altri colleghi fummo aggrediti alla frontiera italiana da alcuni ufficiali i quali volevano che sottoscrivessimo una dichiarazione ma che ci rifiutammo di firmare perché conteneva tutte menzogne. Ecco perché fummo aggrediti e bastonati'.

Avv. Taddei: 'Quanti furono coloro che il teste definisce 'aggressori'?'.

Bellotti: 'Una ventina'.

Avv. Taddei: 'E gli aggrediti?...'.

Bellotti: 'Più di cinquecento...'.

Con la risposta del teste Bellotti, che ha suscitato uno scoppio fragoroso di ilarità, si è concluso l'esame testimoniale e l'udienza è stata rinviata al giorno 7 luglio per ragioni di procedura.

LA VENTUNESIMA UDIENZA.

8 luglio 1949. - Certamente il sen. D'Onofrio non s'aspettava che proprio uno dei testi indotti dalla Parte Civile gli giuocasse un così brutto tiro. Eppure è stato così. Il ten. col. Guido Zingales, uno dei reduci che avrebbe dovuto presentarsi al tribunale a sostegno delle affermazioni del querelante, non solo non si è mai presentato a deporre, ma ora si è saputo che ha rilasciato una dichiarazione oltremodo interessante che suona tutt’altro che gradita alle orecchie del signor D'Onofrio. Nella dichiarazione, il tenente colonnello, dopo aver ricordato che, prigioniero nel campo di Oranki, vide arrivare il D'Onofrio accompagnato da un maggiore russo che dicevano essere della N.K.V.D. e che si faceva chiamare Orloff, racconta:

Zingales: 'Fui uno dei primi ad essere interrogato. Il colloquio, come veniva chiamato, durò circa una mezz’ora. Mi fu chiesto, fra l'altro, quali erano le mie idee politiche e che cosa ne pensavo della guerra. Non mi furono fatte minacce, ma non posso escludere che ne fossero fatte agli altri, e ciò per diversi motivi. Le minacce erano purtroppo all'ordine del giorno, sia da parte dei russi sia da parte dei commissari politici. Ho assistito a minacce fatte in pubblico dal commissario Fiammenghi durante le sue conferenze ai ten. Resinato e Ioli, tuttora detenuti in Russia. In seguito ne vennero fatte collettivamente a tutti gli ufficiali, specie ad opera di certi Robotti e Ossola.

Particolare sensazione causarono nel campo gli interrogatori dei ten. Reginato e Ioli per la loro durata e per la loro frequenza. Il cap. Magnani e il ten. Ioli furono allontanati dal campo di Oranki (dove il Magnani era frattanto rientrato) subito dopo la partenza di D'Onofrio: era opinione generale dei prigionieri che tale allontanamento fosse opera del D'Onofrio'.

Zingales: 'Cito un solo caso per tutti: l'uccisione di un tenente (di cui sventuratamente non ricordo il nome) ad opera di una sentinella russa nel 1943 (e cioè quando già da un po’ ci eravamo sistemati nei campi di concentramento). Il tenente, tornando dal lavoro, nonostante l'ordine della sentinella, si era chinato, spinto dalla fame, a raccogliere una piantina di cicoria che cresceva sull'orlo del sentiero!

Devo infine dire, per quanto riguarda i metodi russi di propaganda che essi non rifuggivano neppure dal falso. Cito un fatto personale: al mio rientro in Patria ho appreso di aver parlato più volte alla radio, cosa che mi sono sempre guardato dal fare e che, del resto, non mi venne neanche proposta. Mi rifiutai anche di inviare i miei saluti alla famiglia quando appositi incaricati nel Natale 1945 vennero per fare incidere dai prigionieri dei dischi di saluti che avrebbero dovuto essere trasmessi da Radio Mosca'.

Alla ripresa del processo, malgrado gli undici giorni di sospensione, l'interesse non è minimamente attenuato, anzi si potrebbe dire accresciuto con l'approssimarsi della sentenza del Tribunale. Lo spazio riservato al pubblico è letteralmente gremito di reduci, di donne, forse madri, forse spose di chi non è più tornato. Su molte persone, fra il pubblico, si vedono i nastrini azzurri delle decorazioni.

Il torneo oratorio che conclude l'importante processo è cominciato alle 9,30 con una lunghissima arringa del primo avvocato di Parte Civile, l'avv. Mario Paone, il quale ha parlato, con grande enfasi e calore, per ben quattro ore (e ne avrà ancora per un paio d'ore dell’udienza di domani) sottolineando le proprie affermazioni con violenti pugni sul tavolo, rosso in viso e sudato per la fatica oratoria.

Avv. Paone: 'Intorno a questa causa è fiorita tutta una letteratura che impegna la civiltà occidentale contro quella orientale, una letteratura che impegna i valori dello spirito contro quelli della materia. Ma trovo molto strano che molti giornali abbiano pubblicato che gli emigrati politici italiani in Russia influirono sulla condotta della guerra. Cosa c’entra la Russia Sovietica, cosa c'entrano i comunisti italiani in Russia con la disfatta dell'ARMIR?

La guerra dell'ARMIR nella sacca del Don era finita. È inutile discutere su questo. Gli emigrati italiani nulla poterono fare mentre un maresciallo d'Italia di ritorno in Patria inasprì la polemica. Ma, signori, qui non è messo in ballo l'onore d'Italia, ma solo la preparazione con cui il defunto regime mandò a combattere i soldati in Russia'.

L'avv. Paone ha preso l'argomento molto alla lontana. Dopo aver parlato a lungo della tradizione italiana del Risorgimento, ha toccato questioni politiche, ha sfiorato problemi filosofici, rievocato le grandi figure militari della Roma repubblicana, accennato alle condizioni italiane prima e durante il fascismo. Ha ricordato la funzione nel mondo della Russia Sovietica, ha parlato di Mussolini, di Hitler, di Franco, della Spagna falangista, della campagna razziale, del contributo dell’Unione Sovietica alla affermazione dei valori fondamentali della libertà umana. Ha affermato che gli ordinamenti politico-giuridici internazionali sono infelici ed ingiusti. Ma ciò non dispensava evidentemente il governo bolscevico dall’usare un trattamento umano verso i prigionieri di guerra.

Avv. Paone: 'Qui si è tentato di fare una speculazione politica: tutto il resto non è che diffamazione o meglio calunnia. Edoardo D'Onofrio si presenta dinanzi a voi, o giudici del popolo, sotto l'usbergo della sua tranquilla coscienza, a rivendicare l’opera da lui svolta quale esule politico nei campi di concentramento sovietici a favore dei suoi connazionali prigionieri'.

Due ore precise è durato il preambolo dell’oratore e ben meritato è stato il breve riposo che si è concesso prima di affrontare il vivo della questione. Quando ha ripreso a parlare, il patrono della Parte Civile, ha detto che la guerra alla Russia non si sarebbe fatta se questi militari (e puntava un dito accusatore sugli imputati) fossero andati a raccontare a Mussolini le condizioni di impreparazione del nostro esercito, se gli fossero andati a dire che gli italiani non volevano andare a combattere contro la Russia. Ma non spiega perché non ci sia andato lui! Doveva o no, il senatore D'Onofrio sporgere querela contro i suoi diffamatori? L'oratore scioglie subito il suo dilemma affermando che quando si lede l'onore di un uomo che è stato l'apostolo della classe operaia romana, allora egli non solo ha il diritto, ma il dovere di difendersi!

Chiedere che cosa D’Onofrio abbia fatto in Russia significa offendere tutti gli emigrati italiani da Nitti a Sforza. L’avv. Paone dimentica che la statura morale di costoro è però ben diversa da quella del suo patrocinato. Ed eccoci finalmente all’esame del materiale diffamatorio.

Avv. Paone: 'Le accuse rivolte al senatore comunista hanno offeso tutto il movimento della resistenza e del resto le risultanze processuali autorizzano ad affermare che le accuse non hanno trovato il benché minimo conforto della prova. S’è detto che D’Onofrio avrebbe interrogato i prigionieri mentre il magg. Orloff avrebbe messo a verbale le risposte fornite dagli interrogati. E s'è detto che il magg. Orloff appartenesse alla polizia segreta sovietica. Ma nessuna dimostrazione è stata data di ciò. I querelati sostengono questo, ma noi lo neghiamo e voi, signori giudici, dovete stabilirlo perché vi abbiamo concesso la più ampia facoltà di prova.

Il magg. Orloff aveva soggiornato in Italia prima della guerra e scriveva sul settimanale 'L'Alba' quando ancora D'Onofrio non era comparso nei campi di concentramento. I suoi articoli erano tutti ispirati alla maggiore tolleranza verso gli stessi ufficiali fascisti che egli divideva in tre grandi categorie: quelli che nel fascismo avevano coltivato i loro interessi, quelli che vi avevano aderito in buona fede, e gli incerti verso i quali rivolgeva in modo particolare la sua opera di persuasione.

Quindi, mai accuse furono più false, perché, fra l'altro, il magg. Orloff, che era un semplice ufficiale di amministrazione, compiva nei campi 'solo inchieste a scopo culturale'.

Ormai l'avv. Paone si è addentrato nella difesa della Russia e non può fare a meno di scagionare l'Unione Sovietica anche dalla accusa di intolleranza religiosa. E lo fa sulla scorta di un libro scritto dal gen. Nobile, uno dei tanti volumi che ingombrano, a pile, il tavolo inondato di appunti dell’avvocato.

Avv. Paone: 'I testimoni in questo processo hanno dichiarato che nei campi di concentramento non veniva permessa la celebrazione della messa. Hanno mentito. Il gen. Nobile, quando era ancora colonnello, scrisse pagine in cui illustrò il sentimento religioso del popolo russo. Dunque, non è vero che in Russia sia proibito il culto esterno ed è facile argomentare che se i cappellani militari italiani non celebrarono mai la messa nei campi di concentramento non fu perché fosse loro proibito, ma con il segreto scopo di poter un giorno gridare allo scandalo perché in Russia non sono concesse manifestazioni di culto esterno, e ancora, se gli imputati mentono su questa circostanza, è lecito supporre che altrettanto facciano quando dichiarano che gli italiani in Russia si mangiavano l'uno con l'altro. Perché questo masochismo nazionale unicamente per poter criticare le autorità russe?'.

Le mappe dello CSIR e dell'ARMIR 13

Le mappe delle operazioni del CSIR e dell'ARMIR dal giugno 1941 all'ottobre 1942 - L'offensiva sovietica del primo inverno (1941-42).

La guerra sul fronte orientale, parte 8

Senza altra finalità se non quella della condivisione storica e militare, pubblico questo ottavo video sugli orrori della guerra in generale e sul fronte orientale in particolare.

Palù, la Bigia e tutti gli altri, parte 3

Palù, la Bigia e tutti gli altri... terza parte.

Prima ripulisce la bestia dalla tanta neve ghiacciata che aveva attaccata alle zampe, sulla testa e sulla coda, che sembrava una scopa fuori uso, rigida e dura. Rubacchia del fieno dal deposito, trova del mangime, versa nel sacco alcune gocce di grappa che aveva tenuto in serbo, e dà il tutto al mulo. Palù lo ringrazia leccandogli la mano che lo accarezza, è stanco, lo si vede, ma sta bello rito sulle zampe; tiene la testa alta ad osservare gli altri quadrupedi e il personale addetto ad essi; osserva la Bigia che gli sta a fianco e che sembra più provata da quella sgropponata di dodici ore di marcia. Anche ad essa Scotto dedica le sue cure, la ripulisce e le dà fieno e mangime, con gocce di grappa. La mula scuote la testa, all'odore dell'alcool, ma poi infila il muso nel sacco e comincia a masticare l'Energon. "Cara mia", dice Scotto, "ti devi abituare, abbiamo giorni tristi davanti a noi e tu devi seguire Palù. Vedrai che ce la faremo".

Pensa che è la prima volta ad essere lasciato all'aperto, per tante ore, mentre fa un freddo boia che gli congela gli arti, rendere rigide le zampe e le articolazioni, gli penetra nelle orecchie. Pensa anche alla Bigia, che gli sta a fianco e si appoggia a lui, con la schiena, perché anch'essa ha freddo, tanto freddo, in quel clima glaciale. Quando il conducente rientra nell'isba, il mulo forse parla con la sua compagna e misura le sue forze con quelle di lei, pensando che non ce la farà, se quella corvée dovesse durare tanti giorni. La Bigia è buona, remissiva, sopporta fatiche e privazioni, ma non ha la struttura del suo compagno di tiro. Fissa Palù con i suoi occhi intelligenti, scuote la testa, sfrega il suo fianco destro contro il sinistro del maschio e muove le zampe e sente fredde e intirizzite. Fra i due, in quel momento, si è stabilita un'intesa: gli uomini hanno bisogno di loro e devono fare tutto il possibile per sostenerli.

Scotto, con due secchi di acqua scaldata, raggiunge Palù e la Bigia e da loro da bere. I quadrupedi sembrano gradire quell'acqua non troppo pulita in cui il conducente ha versato un po' di grappa, tanto per dare sapore e riscaldare le bestie. Poi preleva fieno dalla slitta del foraggio e lo da abbondante ai due muli che sono affamati. Dopo il fieno un sacchetto di Energon e infine, dal fondo della sua slitta, tira fuori una scatola di zucchero e prende alcune zollette. Palù annusa subito lo zucchero e allunga le labbra prendendo con delicatezza le zollette. Anche la Bigia, che di rado in passato aveva avuto tante attenzioni dal suo Visca, gradisce lo zucchero. "E ora, bestioni", dice Scotto, "se volete potete sdraiarvi a terra, su questa poca paglia, così riposate le zampe". Fa cenno a Palù di accosciarsi è quello obbedisce, stende il collo e appoggia la testa a terra, con un profondo sospiro. E' soddisfatto.

Scotto salta in piedi, infila i valenki, che sono induriti per l'umidità penetrata nel feltro, poi si avvicina ad una delle finestrelle dell'isba. Fuori il giorno sta declinando, il cielo è grigio plumbeo e, attraverso i vetri gelati, si vedono delle ombre che corrono verso l'improvvisata scuderia. Indossa il pastrano, ne chiude i lembi, e metti in testa di colbacco, uscendo quindi nel gelo della sera incombente. Il freddo taglia la faccia, come una lama seghettata, trasportando cristalli di neve ghiacciata. La scuderia è vicina e il conducente la raggiunge in breve. Come prima cosa osserva Palù e la Bigia che sono in piedi, uno accostato all'altra; tira un respiro di sollievo. Ma in fondo al magazzino gli alpini sono attorno a un mulo steso a terra. E la Tuta e il capitano medico la sta palpando sulla pancia che è gonfia. Gli occhi della bestia sono opachi, e girano da uno all'altro come per chiedere: "Cos'ho?". Il suo conducente le accarezza la testa e il collo, ha il volto contratto che esprime ansietà. "Temo che sia una colica", dice il capitano, "ma io non sono veterinario, non saprei cosa fare".

Scotto avanza, scostando due uomini che sono vicini alla bestia e si china sull'animale; gli palpa la schiena, la pancia, le cosce e nota che queste non rispondono al tocco. "E' spacciata, signor capitano", dice rialzandosi e al conducente del mulo, che lo osserva interdetto, spiega, "è cominciato con la colica, ma ormai è paralizzata, non c'è più niente da fare". Anche il capitano medico si è rialzato e osservo il quadrupede che sta soffrendo molto, ha la lingua che penzola sul lato sinistro del labbro, l'occhio quasi vitreo. "Dobbiamo abbatterla", conclude l'ufficiale con un triste sospiro. "Ma non possiamo fare niente per salvarla?", chiede il conducente della Mula. "No, Martino, non possiamo fare proprio niente", sentenzia Scotto. "Vai, lascia fare a noi, credi mi dispiace, come se fosse il mio Palù; da anni la Tuta ci ha seguito dappertutto, povera bestia!". Il conducente si allontana, seguito da due commilitoni. Quando lo sparo risuona nel grande locale, rompe in pianto e un compagno gli mette le mani sulle spalle, come a proteggerlo.

Frattanto un fatto increscioso si è verificato là fuori e nelle isbe. I superstiti del "Tolmezzo", affamati, non possono essere saziati con le poche scorte di viveri della colonna ambulanza. Hanno saputo che un mulo è stato abbattuto ed è cominciata una vera lotta. Il conducente della Tuta difende la carogna della sua mula, guai a chi si azzarda a toccarla. Ma quelli sono affamati, estenuati dalla fatica e dal digiuno. I colleghi del conducente, a fatica, cercano di calmarlo, gli dicono che ormai la Tuta è morta, può salvare questi poveri cristi da una fine atroce per fame. E alla fine l'evento si compie. Gli alpini scavano la neve, trovano la carcassa della mula e con le baionette, con il loro coltelli, con qualsiasi oggetto tagliente, ne aggrediscono le carni.

È uno spettacolo orrendo, quasi di cannibalismo. Quegli uomini portano alla bocca la carne sanguinolenta del mulo, la masticano a fatica, ne succhiano il sangue e sembra che ritrovino le forze. Alcuni hanno portato pezzi di carne nelle isbe e li fanno cuocere sul fuoco dei camini. Per l'aria si sente odore di carne arrostita, di corno bruciato e il conducente della Tuta se ne sta seduto, in quella che la temporanea scuderia, la testa fra le mani. Gli viene da piangere, non ha voluto assistere allo scempio delle carni della sua mula e ascolta le voci degli uomini che si stanno sfamando a spese di quel nobile animale. Perché per un conducente il mulo è più nobile del cavallo. Di quello ha l'intelligenza, dell'asino la forza; e paziente, obbediente, gli puoi chiedere qualsiasi sacrificio e lui risponde sempre; cammina per giorni e notti, non chiede altro che un po' di fieno, qualche ora di riposo, un po' di pulizia al pelame una volta ogni tanto e poi va, va sempre. È una cosa sola con il suo conducente e il povero alpino pensa che stanno distruggendo una parte di lui.

Palù e la Bigia vengono staccati dalla slitta e condotti nel locale della stazione. Scotto taglia grosse fette di fieno dalla slitta secondaria e si accorge che due balle sono esaurite. I muli ruminano con gran lena il foraggio mentre il conducente acceso un fuocherello e cerca di far sciogliere la neve in un secchio per dar loro da bere. Frattanto li massaggia con la brusca, sulle zampe incrostate di neve e ghiaccio, sul ventre e sul collo, le parti che il telone impermeabile e la coperta non possono proteggere durante la marcia. Palù volge la testa ad osservarlo e nel suo sguardo Scotto legge un grande interrogativo. La bestia capisce che questa è un'avventura fuori dal normale, che questo freddo mi paralizza gli arti, che lo stomaco gli si contorce per la fame, che ha difficoltà ad urinare e a liberare l'intestino. È preoccupato, Palù, e il conducente lo intuisce; è in allarme anche per la Bigia, la vede dimagrire giorno dopo giorno, tira con minor vigore del solito, mangia quasi con poca voglia. Per lei preleva dalla slitta mezzo sacchetto di avena e le annoda le cinghie del sacco sul collo. La mula mangia ora con più appetito; l'avena è un buon stimolante per un quadrupede. Massaggia la bestia, le sfrega la pancia e le zampe con mangiate di pieno, dopo aver passato la brusca.

"Bigia, ho promesso ad Arturo di tenerti bene, di portarti a casa, cerca di tenere duro. Voi muli non lo sapete ma siamo imbarcati in un'impresa pazza, centinaia di chilometri da percorrere in queste condizioni; nessuna possibilità di rifornimento; fame per tutti", e così dicendo addenta un pezzo di cioccolata che ha tenuto nelle tasche dei pantaloni perché non gelasse; tira fuori anche una galletta e ne rompe la crosta dura con i denti. Fa fatica a masticare e la cioccolata gli si incolla in bocca, ma deve mandarla giù; anche lui non deve cedere; ha quattro feriti sulla slitta e deve portarli a casa. Mette un po' di galletta davanti al muso di Palù che subito la afferra e la mastica. "Beato te che hai i denti forti".

Poi giungono sul campo di battaglia. Hanno notato, da diversi segni nella neve, che di lì sono passate formazioni di carri armati e di uomini. Le piste si infittiscono e, oltrepassato un boschetto di larici, l'orrore della lotta appare ai l'orologio. Scotto, che conduce la slitta di testa e ha al fianco il capitano medico, vede come prima cosa un carro armato sventrato; la torretta col suo cannone è stata lanciata ad una decina di metri di distanza, i cingoli sono distesi sulla neve, allineati, spezzati in una giuntura. Il corpo di un carrista è afflosciato sulla parte superiore del carro, là dove ruotava la torretta; a terra altri corpi carbonizzati, neri, nella grande massa bianca di neve. Poi cadaveri, rattrappiti, contorti, semisepolti. Russi nelle loro tute bianche, alpini nei loro pastrani scuri, laceri, insanguinati. Armi individuali e mitragliatrici, in buono stato o a pezzi, sparse ovunque. Una fila di cadaveri schiacciati dai cingoli dei carri armati, tutti in fila, ridotti allo spessore di pochi centimetri, con le budella fuori uscite dalla bocca o sparpagliate nella neve, i volti irriconoscibili, nerastri per il sangue raggrumato. Centinaia di corpi, inerti, nella bianca distesa di neve; nessun segno di vita fra tanta desolazione.

martedì 6 luglio 2021

Il processo D'Onofrio, parte 11

Il processo D'Onofrio, undicesima parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.

LA DICIOTTESIMA UDIENZA.

18 giugno 1949 - Una lettera - che ha costituito un piccolo colpo di scena - e la deposizione di un altro cappellano militare, Padre Turla, sono stati i fatti che hanno caratterizzato questa udienza, e devono avere contrariato non poco il sen. D'Onofrio. Si è presentato per primo il tenente dei bersaglieri Umberto Puce.

Puce: 'La mia prima destinazione, come prigioniero di guerra, fu un bosco nei pressi di Minciulinskin: 'il bosco della morte', come lo chiamarono subito i prigionieri. Qui gli italiani furono sistemati in alcune buche seminterrate, senza porta e malamente coperte; non c'era paglia per terra e il cibo era costituito da una zuppa di brodaglia con dentro nove chicchi, contati, di lenticchia, pane nero immangiabile e per bevanda un liquido indefinibile. Arrivammo nel bosco in settemila, ripartimmo tre mesi dopo che eravamo ridotti in cinquecento. Ma già prima di giungere nel bosco i prigionieri erano stati decimati per la lunga marcia, per la debolezza, per la spietatezza delle guardie russe di scorta alle colonne'.

Il teste ha raccontato che per impadronirsi delle tute mimetiche che due soldati indossavano, quei disgraziati furono fatti uscire dalle file e fucilati; quelli che per una ragione qualsiasi non riuscivano a tenersi nella colonna venivano passati per le armi; abbattuto con due colpi di pistola alla nuca fu un poveretto, che, durante il viaggio in treno, sfondato un finestrino, si era gettato dal convoglio sulla neve per placare la sete.

'Al campo di Viliba la situazione subì un leggero miglioramento: c'era acqua in abbondanza e si mangiava un po’ meglio, ma il tifo petecchiale e le altre epidemie continuarono a mietere vittime. Dei 500 arrivati ripartimmo, dopo meno di due mesi, in 300. Nuova destinazione, il campo di Baskaia e poi Susdal'.

Puce: 'Qui conobbi il fuoruscito Roncato il quale vestiva la uniforme russa. Egli profferì volgari insulti contro i prigionieri italiani, vantandosi di aver combattuto sul Don contro le nostre truppe. 'Non lo sapevate che avreste fatto questa fine, quando veniste a combattere contro i russi? - disse - dovevate ribellarvi prima!'. E quando gli dissi che ero volontario di guerra, mi schernì e additandomi ad un ufficiale russo esclamò ridendo: 'Eccolo, il conquistatore'.

Seppi poi da alcuni colleghi che venivano dal campo di Oranki che laggiù la vita era durissima e che il trasferimento di lì in un campo di punizione del cap. Magnani e di altri ufficiali italiani era da attribuirsi a D'Onofrio. All'ufficio politico del campo mi fu proposto di riferire sull'atteggiamento e sulle idee politiche dei colleghi e quando si accorsero che le informazioni da me fornite non corrispondevano ad altre che i russi avevano e che anzi mettevano in ottima luce proprio coloro che erano stati segnalati alla polizia sovietica, mi minacciarono puntandomi alle tempie le pistole. Mi fu proposto pure di spedire dei messaggi radio ai familiari, ma opposi un netto rifiuto, perché si pretendeva che si sottolineasse nel testo come la prigionia in Russia fosse un paradiso, mentre ci sfamavamo con le ortiche'.

Padre Turla non ha esitato ad attaccare direttamente il querelante del quale fece la conoscenza poco prima del 25 luglio 1943. Lo conobbe al convalescenziario di Skit dove era stato ricoverato una volta guarito da una violenta forma di tifo petecchiale e da una otite purulenta, malattie che lo avevano ridotto al peso di 35 chili e gli avevano lasciato una amnesia tale che fino alla fine del 1944 non ricordava neppure il nome della madre. Ed ecco il colloquio avvenuto fra il cappellano e D'Onofrio.

P. Turla: 'L'attuale querelante mi parlò prima di politica e poi mi presentò il famoso appello al popolo italiano, istigandomi ad entrare a far parte del gruppo degli attivisti. 'Sono un sacerdote e come tale non posso appartenere a gruppi politici', risposi.

D'Onofrio interruppe: 'Allora lei è un fascista!'. Ribattei che io non mi ero mai interessato di cose politiche. Avevo appena dodici anni quando ero entrato in seminario... D'Onofrio disse ancora: 'Lei sta male ed ha bisogno di cure, di mangiare bene per rimettersi e soprattutto ha bisogno di tornarsene a casa sua. Lei firmi qui su questo foglio e vedrà che noi lo aiuteremo'. Poi si allontanò non senza aver ancora insistito a lungo. Ma il giorno successivo tornò alla carica. 'Beh, ci ha pensato bene? Pensi, le ripeto, che con una firma a questo foglio e con la sua adesione al gruppo antifascista lei starà molto meglio. Il gruppo antifascista ha discreti vantaggi: lei avrà più libertà, perché quello è un gruppo ricreativo ed anche di cultura'. Al mio rifiuto D'Onofrio assicurò: 'Se ne pentirà! Lo riferirò alle autorità sovietiche. Si ricordi bene che lei è un prete e non è detto che i russi abbiano intenzione di continuare per un pezzo a rispettare il suo saio'.

Le conseguenze di questo drammatico colloquio non tardarono a farsi sentire e che il D'Onofrio avesse messo in atto la minaccia non c'è dubbio se appena dopo due giorni fui dimesso dal convalescenziario e rispedito al campo, sebbene fossi ancora malato. Fui rimesso a vitto comune e per non morire dovetti cibarmi di ghiande e di cicoria che trovavo nei campi'.

Ma Padre Turla non si è limitato a parlare dei suoi rapporti con l'attuale querelante. Ha voluto anche raccontare al Tribunale come si vivesse nei campi di concentramento.

P. Turla: 'Gli italiani non dimenticheranno mai il nome terribile di Krinovaia ed ha aggiunto che in quel campo 27 mila prigionieri italiani morirono di fame e di fatiche. Tanta era la disperazione che per tre volte di seguito chiedemmo alle autorità militari sovietiche di essere fucilati. Non voglio scendere in particolari per non dare altri dolori a tante mamme d'Italia, ma non posso non confermare gli episodi di cannibalismo, le scene sanguinarie che si ripetevano giorno per giorno, gli stenti delle lunghe marce di trasferimento'.

Avv. Taddei: 'È vero che nei campi si poteva celebrare la Messa e che fu perfino organizzato un Presepe nella ricorrenza del Natale?'.

P. Turla: 'Per quanto mi riguarda, ho potuto celebrare la Messa soltanto una volta, durante tutta la prigionia. Fu nel campo di Susdal il 1° gennaio del 1944. Il Presepe, poi, è vero, fu fatto, ma dovemmo fare una domanda al comando russo mascherandolo sotto la definizione di 'mostra artistica'. È vero anche che i sovietici vennero a visitare il Presepe. Essi si rallegrarono con noi e, indicando il panorama nel quale si vedevano palmizi, capanne e grotte, ci chiesero se raffigurava Roma'.

A questo punto, esaurita la deposizione di Padre Turla - che già aveva notevolmente turbato il querelante - c'è stato il colpo di scena.

L'Avv. Taddei ha tirato fuori una lettera scritta da uno dei testi d’accusa, precisamente Alessandro D'Alessandro, il quale si era dilungato in una precedente udienza, nell’esaltazione del regime sovietico, dell’ottimo trattamento usato ai prigionieri, e non aveva lesinato i ringraziamenti a tutti i fuorusciti italiani che gli 'avevano aperto gli occhi'. La lettera in questione fu spedita dal fronte russo il 25 ottobre del 1942, un anno prima di essere catturato, e indirizzata ad una zia residente a Rocca di Papa, nei pressi di Roma. Nello scritto il D’Alessandro si scagliava contro il regime sovietico e l'organizzazione interna della Russia esprimendosi in questi precisi termini: 'Ho parlato ai mugiki della zona nella quale siamo fortificati. Le deplorevolissime condizioni fisiche e morali in cui abbiamo trovato quelle popolazioni dimostrano chiaramente che il paradiso sovietico non è quello che la propaganda di Mosca vuol far credere'.

E non sono impressioni personali, vuol precisare lo scrivente, perché, insiste, si tratta di confidenze fattegli da qualche vecchio mugik. E ancora: 'Solo una cosa i contadini russi conoscono, e molto bene: il commissario politico e la sua frusta'. E più oltre: 'Quale è il premio della loro fatica? Nulla. I contadini ricevono, alla fine della giornata, mezzo chilo di pane e nient’altro. Se protestano, il crepitio dei fucili si fa sentire senza pietà'. Per concludere poi: 'Il popolo russo ha conosciuto il suo calvario'.

La lettura della lettera è stato un po’ come un fulmine a ciel sereno: gli avvocati hanno cominciato a guardarsi, pronti a dare il via al battibecco; D'Onofrio era visibilmente contrariato e il D’Alessandro era addirittura violaceo, non sapeva più dove guardare quando è stato chiamato nuovamente alla pedana per riconoscere la lettera come sua, cosa della quale, naturalmente, non ha potuto fare a meno. Ma tutto si è risolto in un brevissimo scambio di botte e risposte fra le parti, cui ha dato inizio proprio il querelante.

D'Onofrio: 'Io vorrei proprio sapere come ha fatto la difesa a venire in possesso di quella lettera'.

Avv. Taddei: 'L'ho avuta dalla posta, naturalmente'.

Avv. Sotgiu: 'Chiedo che venga citato come testimone la destinataria della lettera'.

Avv. Taddei: 'Non riesco a comprendere la ragione per cui vi agitate tanto. Del resto l’episodio non fa che confermare quanto efficace sia stata la propaganda del D'Onofrio, il quale ha trasformato, con un colpo di bacchetta magica, un denigratore della Russia in un attivista modello, come è oggi il D'Alessandro'.

D'Alessandro: 'Ma io allora credevo che quella fosse la realtà. Così infatti ci dicevano sempre i consoli della milizia che venivano per fare la propaganda. E del resto il capomanipolo Taddei può testimoniare...'.

Avv. Taddei: 'Signor Presidente è già la seconda o la terza volta che i testi parlano di me in questo modo. Credo che sia il caso di intervenire energicamente...'.

Prima che l'udienza venga tolta il tribunale si riserva di decidere se citare o meno la signora Ester Bersaretti, destinatario della lettera, giacché, alla richiesta dell'avv. Sotgiu, si associano anche i difensori e il P.M.

LA DICIANNOVESIMA UDIENZA.

20 giugno 1949 - Siamo ormai agli ultimi testimoni. Il giorno della sentenza si avvicina e l'interesse suscitato da questo processo, che dura già da un mese, è sempre vivissimo. Ancora due testi a discarico e poi sarà la volta degli ultimi cinque addotti dalla Parte civile.

Il primo a deporre è stato il tenente di artiglieria Orazio Mangone della divisione Pasubio il quale ha fatto un lungo e particolareggiato racconto del viaggio dal luogo della cattura al primo campo di concentramento, quello di Tamboff. È stata la storia, già narrata dagli altri reduci, di patimenti, di fatiche, di minacce, di morte. Al campo di Tamboff i prigionieri furono accolti dalla signora Torre. Faceva molto freddo e gli uomini battevano i piedi in terra nel tentativo di scaldarsi o almeno di far circolare il sangue. Chiesero aiuto all’emigrata, ma questa rispose loro beffardamente 'Avete battuto tanto le mani a Piazza Venezia, ora potete anche battere i piedi'.

Il teste conobbe D'Onofrio al campo di Oranki e fu da lui interrogato all'indomani della presentazione dell’appello al popolo italiano. Poiché il Mangone rifiutò di sottoscrivere, l'attuale querelante gli disse: 'Lei deve rivedere le sue idee se vuol tornare in Patria. Lei lo sa che in Siberia fa molto freddo?'. 'Sono un prigioniero - rispose l'ufficiale - e desidero seguitare a fare il prigioniero'.

Presidente: 'Quali furono le conseguenze del suo rifiuto?'.

Mangone: 'Fui immediatamente dimesso dal convalescenziario e rispedito ad Oranki dove mi assegnarono al lavoro malgrado non pesassi 40 chili. Fu ad Oranki che il cap. Magnani mi espresse le sue preoccupazioni per quello che lo aspettava dopo l'ostilità che aveva dimostrata nei riguardi del D'Onofrio. Come temeva, il capitano fu trasferito infatti in un campo di punizione.

Al campo di Susdal in ogni baracca c’era un ufficiale appartenente al gruppo antifascista il quale svolgeva propaganda politica. In proposito nella mia baracca questa funzione era espletata dal ten. Tommaso Barone, il quale rientrò in Italia due anni prima degli altri'.

Del viaggio di ritorno, il teste ha raccontalo poi al tribunale le difficoltà incontrate. Partì dal campo nell’aprile del 1946 ma gli ufficiali superiori furono trattenuti e fra essi il gen. Ricagno. Il Mangone ed altri cinquanta colleghi, giunti in Romania, furono fermati prima alla frontiera austriaca, a Sighet. I russi dicevano che non era possibile farli partire per mancanza di vagoni e soltanto quando i prigionieri cominciarono lo sciopero della fame furono portati a Vienna e di lì rimpatriati per l'intervento della Croce Rossa Internazionale. Cosicché il loro rientro fu ritardato di oltre un mese.

È stata poi la volta del comandante dell’8° reggimento Alpini, col. Luigi Zacchi. Subì il primo interrogatorio, dopo la cattura, dal fuoruscito Vera a Rostov e poi, successivamente, ad Oranki parlò con Fiammenghi. Costui cercò di sapere quale fosse la sua idea politica e gli prospettò un ottimo avvenire in Italia qualora l'avesse mutata. 'Non mi sono mai interessato di politica - rispose il colonnello - e perciò non ho idee da cambiare'. 'Si ricordi - lo ammonì allora Fiammenghi - che in Italia troverà il comunismo padrone della situazione. È bene che si regoli'. 'So perfettamente quale sia il mio dovere - ribatté il colonnello - e non ho paura'. 'Ma lei è sicuro di ritornare in Italia?' chiese allora il commissario.

'Certamente. A meno che non vada all’altro mondo per una malattia'.

Presidente: 'Lei sentì mai parlare di una legione garibaldina?'.

Zacchi: 'Sì. Questo gruppo fu formato dopo la dichiarazione di guerra alla Germania. Aveva lo scopo apparente di riunire tutti gli italiani, ma in effetti mirava a conoscere quali fossero le tendenze politiche dei prigionieri'.

Presidente: 'Il teste conobbe il cap. Magnani?'.

Zacchi: 'Sì, era l'aiutante maggiore del mio reggimento'.

Presidente: 'E seppe dell’interrogatorio subito dal cap. Magnani?'.

Zacchi: 'Sì. Egli mi riferì del colloquio avuto con il D’Onofrio il quale lo aveva minacciato di non farlo ritornare più in Italia. Era un ottimo ufficiale, il cap. Magnani. Quando lo consigliai a moderarsi e a restare tranquillo mi rispose: 'Non m’importa niente. Preferisco non tornare ma lasciare a mia figlia un nome del quale non debba vergognarsi'.

Avv. Taddei: 'Perché avvenivano i trasferimenti in campo di punizione?'.

Zacchi: 'Perché i prigionieri si opponevano alla propaganda comunista'.

Avv. Taddei: 'Le consta che ci sia stato qualche caso di spionaggio a Susdal?'.

Zacchi: 'Molti erano quelli sospetti di spionaggio ma in genere tutti mantenevano l'incognito. Qualcuno però, come un certo Mario Pugnetti di Mestre, confermò apertamente di essere stato incaricato dal commissario del campo di riferire i discorsi che i compagni di baracca facevano quando si trovavano insieme. Costui si faceva chiamare Napir Suratovo e si spacciava per indiano e per ufficiale. Invece era un caporale'.

Avv. Taddei: 'Questo Pugnetti era iscritto al gruppo antifascista?'.

Zacchi: 'Sì'.

Avv. Taddei: 'Lei sa se i commissari politici erano considerati alla stregua di funzionari sovietici?'.

Zacchi: 'Ce lo disse ufficialmente il comandante russo del campo, il colonnello Krastin. 'I commissari politici italiani - disse esattamente - sono dei funzionari sovietici e pertanto si deve loro obbedienza'.

Avv. Sotgiu: 'È vero che quando gli fu proposto di sottoscrivere un messaggio di plauso al Governo di Parri, lei si rifiutò e anzi per protesta si strappò le mostrine d’alpino?'.

Zacchi: 'Fandonie! Non ho idea di chi abbia messo in giro una menzogna del genere. Io porto le mostrine d’alpino onoratamente dal 1915. E non mi sono mai sognato di togliermele!'.

Avv. Taddei: 'Dato che lei era l'ufficiale più elevato in grado cosa può dirci degli attuali imputati che si trovavano nello stesso campo con lei?'.

Zacchi: 'Erano ufficiali molto retti e di elevati sentimenti. Ho conosciuto molto bene gli attuali imputati nel periodo della prigionia'.

Con il ten. Franco Bellofiore è poi cominciala la sfilata degli ultimi cinque testimoni d'accusa. Egli ha affermato che a Tamboff la razione viveri era abbondante, ma che i rumeni che dominavano nelle cucine facevano 'camorra' e perciò il più delle volte il rancio arrivava dimezzato. I fuorusciti si comportarono bene con i prigionieri; i trasferimenti avvenivano in treno; coloro che lavoravano venivano compensati con supplementi viveri.

Avv. Taddei: 'Lei ricorda di aver firmato un appello con il quale si invitavano i soldati a ribellarsi agli ufficiali?'.

Bellofiore: 'Non mi sembra'.

È stato poi chiesto al signor Bellofiore quanti furono i prigionieri che morirono durante la prigionia.

Bellofiore: 'Ma io non facevo mica le statistiche...'.

La deposizione, che nulla di nuovo apporta ai già numerosi clementi di giudizio, sarebbe esaurita. Prima però che il teste venga congedato, è richiamato sulla pedana il ten. Mangone il quale su esplicita domanda della difesa dichiara che il Bellofiore era sospettato di denunciare ai sovietici coloro che preferivano non assistere alle conferenze politiche tenute dagli emigrati italiani. Ma si trattava soltanto di sospetti, seppure gravi. Forse per questo il Bellofiore non ha creduto opportuno reagire e l'udienza si è chiusa nella calma più assoluta. Il vecchio adagio ammoniste: chi tace, conferma.

Palù, la Bigia e tutti gli altri, parte 2

Palù, la Bigia e tutti gli altri... seconda parte.

Ha nostalgia delle sue montagne, da quelle dell'Argentina dove ha formato le zampe, alle Alpi, dove l'aria era pura, i boschi di abete odoravano di resina, l'erba era fragrante, deliziosa da masticare, fresca. Da quanto tempo non gusta più erba fresca? Ne sente la voglia ma il suo amico conducente non ne ha trovata per lui ed egli rumina il fieno, sempre pieno, non sempre fresco, spesso bagnato, integrato dall'Energon che gli piace, ma l'erba fresca è tutta un'altra cosa! Poi è venuta la neve, e continua a nevicare, il cielo è plumbeo, il vento solleva turbini di fiocchi cristallini che lo pungono sulla pelle, sugli occhi, gli si appiccicano al pelame nero e gli danno brividi di freddo. Ma si deve andare, andare sempre, con la pioggia, col vento, con la neve e con la tormenta, perché il suo amico conducente va e lui, mulo degli alpini, deve seguirlo, docile. Se il suo conducente, che è un uomo, resiste a tutto questo travaglio, può ben resistere un mulo della sua taglia. Ma sono gli avvenimenti degli ultimi giorni che lo tengono in apprensione. I muli sono tutti allineati in scuderia, ma gli uomini, tanti uomini, sono andati via. Eppure non ha sentito il suono della tromba con le note dei congedanti. Anche il conducente della Bigia, che gli è vicina, è andato via e Scotto è triste, non canta più; la sera i conducenti non si radunano nel centro della scuderia, in cerchio, al calduccio della stalla, per cantare le loro canzoni in coro, come facevano fino a poche sere prima.

E Palù prova un po' di gelosia verso la Bigia. Prima il suo conducente era tutto per lui, tutte le attenzioni erano rivolte a lui. Non che lo trascuri, perché ogni mattina gli fa "governo", lustra il suo pelo, dà il grasso agli zoccoli, gli prepara la lettiera, gli dà il fieno e l'Energon. Ma poi si dedica anche alla Bigia, anche a lei fa governo, le lustre gli zoccoli, cosa che l'altro conducente non faceva quasi mai, la fa mangiare e, fatto che lo infastidisce, in passato le zollette di zucchero erano tutte per lui, mentre adesso, se Scotto ha quattro zollette, due le dà a lui e due alla Bigia. Quando va a fare la spesa e racimola qualche carota o dell'insalata nella cucina dell'ospedale, prima la dava tutta a lui, adesso ne mette un po' sulla carretta e la tiene per la Bigia, quando torna in scuderia.

Adesso non lo attaccano più alla carretta, c'è un nuovo mezzo, strano e mai visto prima, la slitta. Non gli viene più posto il basto sulla schiena ma un collare dal quale partono le tirelle che vengono attaccate al timone della slitta. Questa è meno pesante e ingombrante della carretta, è più facile da tirare perché scivola sulla neve e non fa il rumore che facevano le ruote della carretta sulla acciottolato delle vie di Rossosch. Gli piace, questo sistema di traino che lo lascia più libero nei movimenti perché non più costretto fra le stanghe; e poi quando la neve è farinosa oppure solida sulla strada, può trottare, invece di camminare. Il conducente siede sulla slitta, lo governa con le lunghe redini e ha imparato ad obbedire a quel comando, tanto diverso dal continuo tirare della briglia corta, infilata nel polso del conducente, che lo obbligava ad un passo lento, continuo, ma mai a trottare.

Decisamente le cose sono molto cambiate, colpa di quell'ambiente, del paesaggio, della neve e del vento di questa terra tanto diversa da tutte le altre dove è stato. Non che Palù sappia il nome di quelle terre, ma le rammenta tutte per alcuni particolari: la Pampa argentina, i serpenti, le fresche acque delle Ande, il primo incontro con il treno, che aveva scambiato per un serpentone nero e giallo; la calura feroce dell'Africa, le lunghe marce sotto un sole cocente, con una perenne sete che gli bruciava la gola e poteva dissetarsi solo in rare pozzanghere gialle, che sapevano di terra, ma che era meglio di niente. E poi quella tremenda frustata sulla coscia sinistra, che lo aveva atterrato dandogli un forte dolore, che anche ora, ogni tanto, gli fa fremere la pelle al solo pensarci.

Rivede le corvée in quell'altra terra che egli non sa come si chiama, ma è l'Albania, la salita su per le mulattiere viscide di fango e pioggia e rivede anche i suoi compagni muli nel burrone. E quel giorno che il suo amico conducente è scivolato rimanendo attaccato alla briglia, e lo guardava con occhi dilatati dallo spavento e diceva "tira Palù, va in drè" ed egli, con un tremendo mal alla bocca perché tutto il peso del conducente era attaccato al suo morso, punta le zampe anteriori per non scivolare nel fango, fino a trovare un punto solido contro una roccia e poi facendo forza sui garretti posteriori alza la testa, e il male che diventa sempre più lancinante, ma sa che deve salvare il suo amico e tira, tira fino a trascinarlo di nuovo sulla mulattiera.

Nelle lunghe ore, legato alla mangiatoia, mentre rumina il fieno un po' umido, nella sua testa tutti i ricordi affiorano e popolano i suoi sogni. Perché anche i muli sognano, non importa quello che dicono gli uomini. Essi hanno un'intelligenza che gli uomini vedono solo nel passo deciso e sicuro, nella forza che mettono per superare un ostacolo o evitare un pericolo; ma l'intelligenza del mulo è un'altra cosa ed è fatta di affetto per l'amico conducente, non perché lo fa mangiare e lo governa tenendolo pulito e col pelo lucido, bensì perché sa che lui e il conducente sono una cosa sola, accoppiata, ma con gli stessi intenti e con la stessa volontà. Sarà amico per sempre del suo conducente, non si lasceranno più, qualunque cosa accada, e questo è segno di intelligenza. È anche spirito di solidarietà, ma questa è una parola difficile che di certo il mulo non conosce, ma se il suo amico si troverà in pericolo lo aiuterà, fino a morire se necessario.

Palù tira gagliardo i quintali della sua slitta; è abituato ai grossi carichi della carretta è quel traino che scivola sulla piana ghiacciata gli suona più dolce del cigolio e dello sferragliare delle grosse ruote della carretta sulla acciottolato delle strade di montagna. Sente nostalgia di un bel prato verde; da quanto tempo non ha più gustato il sapore dell'erba fresca. Sempre fino ed Energon, buoni anche quelli, ma l'erba di un bel prato di montagna è sempre un'altra cosa.

"Palù, si torna a casa", ma Scotto non ha il tono allegro di chi sà di dirigere i propri passi verso la patria lontana. Cammina tenendo la briglia del suo mulo che, paziente e docile come sempre, pesta neve ghiacciata, sferzato dal vento gelido che gli scompigliava il pelame sulla fronte, gli congela la neve sulle ciglia, sulle froge; ma a tutto il mulo è abituato e osserva il suo conducente, avvolto nel pesante pastrano imbottito, con un colbacco in testa, sul quale, chissà come, è riuscita a cucire l'aquila del cappello alpino; calza pesanti guanti impermeabili e pesta la neve con i suoi valenki. Il quadrupede si rende conto che qualcosa è cambiato, non è la solita aria, lo sente; non marciano più verso il nord-est, ma verso il tramonto del sole, la pista è ingombra non più di carri armati sferraglianti e anche gli autocarri militari che transitano sono pochi, tutti diretti a nord-ovest.

Racconti di Russia, la mitragliatrice

Un'altra testimonianza tratta dal libro "Nikolajewka: c'ero anche io" a cura di Giulio Bedeschi. Questa volta per ricordare gli atti di coraggio di cui furono capaci i soldati italiani, che nonostante la tragicità di quegli avvenimenti, furono disposti a sacrificarsi pur di salvare i compagni feriti e in ritirata.

Alpino Albino Porro, 114a Compagnia, Battaglione Tolmezzo, 8° Reggimento Alpini.

La sera del 21 gennaio 1943 la colonna di cui anch'io facevo parte sostava nel paese di Novo Georgiewka, io e altri pochi alpini occupammo un'isba all'imbocco del paese lato nord; verso le prime ore del mattino il paese venne attaccato da reparti russi, di soprassalto ci portammo fuori per accertarci di quanto succedeva; infatti a circa duecento metri notammo alcuni camion con soldati russi in parte a bordo degli automezzi, in parte a terra che avanzando lentamente e con prudenza alternavano raffiche su di noi; un alpino (conosciuto in quel episodio e non più rivisto, ma che spero fortemente si trovi anche lui vivente) ancora in possesso di un fucile mitragliatore mi grida "Le munizioni! prendi le munizioni!"; saltai nell'isba e mi impossessai di una cassa fortunatamente piena di caricatori, ma poiché si doveva sparare su un costone sopraelevato che circondava il paese, e cioè verso l'alto il bipede non serviva pur abbassandosi verso terra; a questo punto lo gridai al mio compagno "Appoggia l'arma su una mia spalla e spara!".

Infatti fu così, avvolsi la canna con una coperta per poterla tenere ferma e abbassai la testa verso terra... Resistemmo in quella condizione credo una mezz'ora circa, nel frattempo un'altra mitragliatrice cantava all'interno di un'isba; erano anche loro alpini che sparavano nella nostra direzione.

La colonna si era messa in marcia, finite le munizioni ci guardammo in faccia e con un veloce sguardo attorno alle isbe, si capì che eravamo rimasti soli, non potrò mai dimenticare la corsa tra un'isba e l'altra per raggiungere la colonna ormai lontana. Cammin facendo in coda alla colonna sfinito dalla fatica, ma con grande contentezza in cuore pensavo, che col nostro sacrificio anche a rischio della propria vita, avevamo dato la possibilità a tanti nostri compagni feriti e congelati di sopravvivere per quella giornata.

RICCARDO