venerdì 30 dicembre 2022

Ricordi, parte 18

La Russia quella della neve, quella del freddo, quella del passo dopo passo senza mai arrivare, quella dove entri un villaggio e le persone ti aprono la porta di casa per farti scaldare e darti da bere, quella della gente che ti riconosce per strada e seppur all'epoca eravamo invasori ti saluta e ti sorride, quella che mi manca ogni volta che arriva l'inverno.

Cronaca di una sconfitta annunciata, 30.12.42

Cronaca di una sconfitta annunciata; dall'11 dicembre 1942 al 31 gennaio 1943, giorno per giorno, la cronistoria dell'ARMIR durante l'offensiva sovietica "Piccolo Saturno". Tratto da "Le operazioni delle unità italiane al Fronte Russo (1941-1943), edito dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.

30 DICEMBRE.

BLOCCO SUD.

Al mattino del 30 dicembre il movimento sembrava svolgersi regolarmente, quando una puntata di carri armati sovietici si abbatteva su unità romene unitesi alla colonna italiana. Le unità italiane non ancora incolonnate dovevano adottare misure di emergenza per arrestare il disordinato flusso del numeroso carreggio romeno e riuscivano anche a distruggere tre carri armati del nemico. Il movimento veniva ripreso all'imbrunire; verso le ore 22 la colonna, ormai composta di soli italiani, raggiungeva Gorodjanka e Tessa Ulof. In quest'ultima località il Comando della Sforzesca riconsegnava ai reggimenti le rispettive bandiere, precedentemente ritirate per meglio assicurarne la conservazione. Inoltre il Comandante del XXIX Corpo d'Armata, Generale von Obstfelder, si recava a salutare i reparti italiani che lasciavano la Grande Unità tedesca ed emanava un Ordine del Giorno di commiato e di ringraziamento.

BLOCCO NORD.

II 30 dicembre le forze nemiche assedianti ricevevano rinforzi e rifornimenti.

FRONTE DEL CORPO D'ARMATA ALPINO.

All'alba del 30 dicembre, dopo lunga preparazione d'artiglieria e con l'appoggio di 25 carri armati, il nemico attaccava nuovamente il fronte del battaglione Tolmezzo (6a compagnia), puntando sulla rotabile Novo Kalitva-Komarof. Contenuto in primo tempo dal preciso fuoco delle armi automatiche e dell'artiglieria, l'attacco veniva ripreso verso le 6,30 con largo appoggio d'artiglieria e a ondate successive sempre respinte. Alle ore 8 i russi erano costretti a ripiegare in disordine. Frattanto l'operazione avversaria si estendeva verso sud contro le posizioni tenute dalla 385a Divisione (quota Cividale). Ancora il battaglione Tolmezzo e le artiglierie italiane concorrevano all'azione difensiva dei tedeschi, ma il nemico riusciva a conquistare la posizione. Interveniva allora un contrattacco del battaglione Gemona che ristabiliva la situazione. La lotta durava per l'intera giornata su posizioni conquistate e perdute più volte.

Anche le posizioni del 9° alpini (battaglione Vicenza), a cavallo della strada Deresovatka-Selenj Jar, erano violentemente attaccate fino dalle prime ore del mattino, da circa due battaglioni sovietici. Alle 7,30 comparivano sul campo della lotta, in appoggio alla fanteria sovietica, anche carri armati, dei quali alcuni pesanti. Nella lotta ravvicinata quattro di essi erano posti fuori combattimento. Verso le ore 10, poiché la situazione si era fatta critica anche sul fronte della 385a Divisione, veniva richiesto l'intervento aereo tedesco, effettuato alle 11,45 ad ondate successive di tre apparecchi, che spezzonavano e mitragliavano le forze avversarie. Un contrattacco svolto dalla 59a compagnia del battaglione Vicenza a sud del quadrivio di Selenj Jar, appoggiato da 4 semoventi e 6 carri armati tedeschi, riusciva a respingere il nemico dopo lunga lotta; alle ore 18 la situazione era ristabilita.

Sospesa per alcune ore notturne, la lotta si riaccendeva il 31 dicembre prima dell'alba, nella stessa direzione del giorno precedente, e il nemico attaccava su due colonne (ciascuna circa di un battaglione) appoggiate da 18 carri armati. La difesa, nella quale erano stati inseriti anche gli artieri del III battaglione misto genio divisionale, dopo un primo successo nemico, conteneva l'attacco e, con un pronto contrattacco, alle 8,40 ristabiliva la situazione, infliggendo al nemico gravi perdite in uomini e carri armati. Un ritorno offensivo sovietico alle 12,45 era nuovamente respinto.

DIFESA Dl VOROSCILOVGRAD E Dl UN ALTRO SETTORE SUL DONEZ.

Alla sera del 30 dicembre la Ravenna e le altre forze italiane ad essa unite venivano sostituite dal gruppo tedesco Schramm. La Divisione passava alle dipendenze operative della Sezione di Armata Fretter Pico, per assumere la difesa di un altro settore.

Ritorno sul Don, parte 5

Finalmente, dopo le mie risposte, l'ambiente si rasserena e, sempre lui, ci racconta che «allora» era qui e aveva quattordici anni. Mi sembra di rivederlo in uno di quei ragazzi che con un parabellum di traverso il petto o un fucile più alto di loro operavano con i partigiani. Ricorda gli italiani e il loro ultimo combattimento quando furono circondati dalla cavalleria cosacca; i prigionieri. Ricorda che cantavano, anche. Cantavano, precisa, quelli che erano qui a Valuichi con i servizi, prima dell'offensiva dell'Armata Rossa. Parla ancora dei nostri prigionieri e dei nostri feriti, del freddo che avevano perché erano male coperti e delle scarpe che gli congelavano i piedi; e la fame che avevano tutti, anche loro russi.

- Le so, queste cose, - dico. Di sua iniziativa mi dice che i nostri morti sono stati sepolti in una fossa fuori dal paese, verso la steppa. Forse questo sarà anche vero, ma so per certo che a Nikolajevka tutti i nostri morti li hanno raccolti davanti alla chiesa, cosparsi di benzina e inceneriti: non era possibile scavare una fossa perché il terreno era gelato in profondità, duro come la pietra. Quello che mi dice è forse una pietosa bugia e non gli chiedo dove è la fossa comune degli italiani. Forse nemmeno me la indicherebbe, o mi indicherebbe un luogo qualsiasi. Cosa importa, ormai? Da qui al Don è tutta una tomba d'alpini.

Mi chiede del mio paese, dell'Italia, di come si vive. Rimane molto stupito quando gli spiego che da noi, sulle montagne, viene tanta neve e qualche inverno arriviamo ai trenta gradi sotto zero. Mi nomina qualche città: Torino, Milano, Napoli, Roma, e mi chiede quale di queste è più vicina al mio paese. - Venezia, - gli rispondo. Allora con un sorriso aperto e per farmi contento ci dice che una volta aveva visto su un libro delle illustrazioni di Venezia che è «Bolsciòi krasìva». Bellissima. Si alza, ci alziamo tutti e ci avviciniamo a un tavolo. Su un foglio fa scrivere a macchina l'indirizzo del Soviet di Valuichi e mi dice di scrivergli, quando sarò ritornato a casa, e di salutargli a nome dei compagni di qui i compagni del mio paese; ci offre ospitalità, ci stringe le mani. (Quel foglio con l'indirizzo l'ho perduto chissà dove, e mi dispiace veramente non potergli scrivere come avevo promesso).

Fa portare al tavolo una carta geografica della zona, la confronta con la nostra carta stradale della Russia, con le mie italiane e gli dico dove intendo andare. Ma in nessuna carta russa è segnato il nome che cerco: Nikolajevka. C'è solo sulle carte italiane. - Ma non esiste questo paese? - dico. - Ma qui c'è pure Nikitòvka e Arnautòvo -. Noi abbiamo sempre pronunciato in maniera sbagliata: c'è, mi dicono, Nikitòva e Arnàutovo. Le due carte russe non corrispondono, le tre italiane nemmeno. Forse, su quelle italiane, vi sono errori di trascrizione dal cirillico o dal tedesco. E poi tutte e cinque hanno scala diversa. Rimango imbarazzato e confuso quando uno di loro sbadatamente si appoggia sul vetro che ricopre la loro carta incorniciata e lo rompe. Sono io la causa di questo danno.

Due membri del Soviet di Valuichi si offrono di accompagnarci verso la pista che porta a Nikitovka e Arnautovo: - Andiamo, - dico, - si fa tardi -. Poi penso tra me: «Da li la strada per Nikolajevka la troverò io. Diavolo se la troverò!». Dopo che i compagni di Valuichi ci hanno lasciato con grandi gesti di saluto, seguiamo per un pezzo la ferrovia; ma la pista, dopo un bel tratto, diventa impraticabile anche per la Volga di Jurij. Non si vedono villaggi: solo terra, terra arata e no, cielo, e corvi che si alzano gracchiando al nostro passaggio. Larissa è visibilmente stanca e mia moglie guarda stupita in silenzio. Finalmente incontriamo delle isbe e Larissa chiede la strada per Nikolajevka: - Non so, - ci rispondono. Oppure: - Mai sentito nominare questo paese. Mi viene il dubbio che il nome sia quello del tempo degli zar, Nicola, appunto, e prego Larissa di chiedere ai più vecchi. Non lo sanno nemmeno loro. Non c'è.

Larissa e Jurij sono preoccupati. Ma dove ci vuole portare questo pazzo di italiano? Alla ricerca di un paese che non esiste? Allora prendo io l'iniziativa: controllo i chilometri fatti da Valuichi, guardo le carte, il sole: - Vai per di qua, - dico a Jurij. E dopo: - Prendi per quella traccia. Il sole è basso all'orizzonte, non si vede un'isba, un uomo. Solo cielo e terra. Scendo. Una nuvola di corvi si alza da un arato senza confini. Ma laggiù, tra pochi alberi coi colori dell'autunno, in un grande silenzio, due villaggi sembrano confondersi e impastarsi con l'aria e la terra: Nikitova e Arnautovo. Non mi posso sbagliare. No, non mi sono sbagliato. Cammino fuori dalla pista. Capitano Grandi del Tirano, dormi in questa pace. Ti porto i saluti dei superstiti del tuo battaglione, di Nuto Revelli e di tutti gli alpini della Tridentina. Dormite in pace amici valtellinesi, in questo silenzio, in questa terra nera, in questo autunno dolcissimo. Chino la testa e poi faccio un cenno con la mano: - Ci ritroveremo un giorno. Arrivederci. Dalla macchina mi chiamano. Salgo e non parlo; con la mano indico la direzione del sole che sta per tramontare.

Da sopra il dosso mi appare come allora. Non riesco a dire di fermare la macchina ma Jurij ha capito. Le mie mani a stento aprono la porta, a stento i piedi si posano sul terreno. Cammino? Cammino verso Nikolajevka. Il dosso. Questo dosso dove siamo scesi la mattina del 26 gennaio. I resti dei battaglioni, delle compagnie, delle squadre del 6° alpini. Il Vestone, la 55: la valletta ricolma di neve, il terrapieno della ferrovia, il sottopassaggio, il casello. Giuanin, Minelli, il capitano, il tenente Pendoli, i russi vestiti di bianco con le due mitragliatrici, i cannoni anticarro che i paesani del genio alpino hanno assaltato a bombe a mano. Tutto. Tutto come allora. Metro per metro. In quell'isba sono entrato con Antonelli e la pesante, e Dotti e Menegolo mi hanno portato poi le munizioni. Là sono andato a mangiare e c'erano dentro i soldati russi con la donna e i bambini. In questa il tenente Pendoli era con il capitano ferito a morte; e da qui sono usciti i soldati russi con i parabellum.

Quanti siamo rimasti? Forse in due, forse in quattro con loro. Guardo e non sono capace di dire una parola, di fare un gesto. Rino, Raoul, Giuanin. il generale Martinat, il colonnello Calbo, Moreschi, Tourn, il tenente Danda, il maggiore Bracchi, Monchieri, Cenci, Baroni, Moscioni, Novello, don Carlo Gnocchi. Tutti qui eravamo.

Ricordi, parte 17

Gennaio 2023... avrei dovuto ripartire, la settima volta, per la Russia, avrei dovuto essere là proprio negli stessi giorni in cui 80 anni fa Mario Rigoni Stern, Raoul Achilli e tutti gli altri scrivevano le pagine di storia di cui parlo in questa pagina.

E invece non accadrà neanche quest'anno e per chissà quanti anni a venire. Mi manca la Russia, mi manca tutto di quei giorni in cui si cammina nel nulla per ore, come se fossimo in un altro mondo e in un'altra epoca. Mi manca tutto quello che c'è lì... il niente della Russia.

Il rumore degli scarponi nella neve che tanto mal tolleravano i reduci nei loro racconti, a me manca. Quel freddo mi manca. Certo, non penserei le stesse cose se avessi vissuto quello che hanno passato loro; ho la fortuna di non averlo provato sulla mia pelle...

Come ho scritto anche in passato è più un viaggio dello spirito che del corpo. La sofferenza interiore è sempre maggiore alla stanchezza fisica. Ma è quello che in ogni viaggio cerco, quasi in modo masochistico. Sentire, capire, ricordare...

Durante il viaggio in treno verso Rossoch il primo anno che sono stato in Russia, ricordo come cercavo di non addormentarmi per non perdermi neanche un istante di quei paesaggi sempre uguali, sempre bianchi, che scorgevo dal finestrino... volevo trovare qualche dettaglio di quei tanti racconti letti nei libri dei reduci.

E poi la neve e il freddo, e i chilometri in un paesaggio sempre uguale, monotono, bianco, dove terra e cielo quasi non si distinguono, dove non si capisce quando termina l'una ed inizia l'altro. Con quel senso di solitudine che l'immensità della Russia riesce a trasmetterti ad ogni passo.

Una settimana prima nella mia vita normale, monotona rispetto alle emozioni della Russia; poi, una settimana dopo lì a chilometri di distanza, in mezzo a quel mare di neve, la stessa neve di cui avevo tanto letto nei libri di Rigoni Stern e di Bedeschi.

Cammini, ti fermi, ti stacchi dalle altre persone quasi per ritagliarti un momento solo tuo; per scattare mentalmente quelle "fotografie" che poi ti porti sempre dietro anche a distanza di mesi o anni; dettagli che ricordi quando torni alla tua vita normale, di tutti i giorni.

Mi manca tutto, mi mancherà ancora di più nei prossimi giorni. E anche quest'anno che verrà non sarò lì con loro...

giovedì 29 dicembre 2022

Cronaca di una sconfitta annunciata, 29.12.42

Cronaca di una sconfitta annunciata; dall'11 dicembre 1942 al 31 gennaio 1943, giorno per giorno, la cronistoria dell'ARMIR durante l'offensiva sovietica "Piccolo Saturno". Tratto da "Le operazioni delle unità italiane al Fronte Russo (1941-1943), edito dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.

29 DICEMBRE.

FRONTE DEL CORPO D'ARMATA ALPINO.

Nella notte sul 29 e nella giornata seguente le compagnie in linea venivano sostituite da altre dei battaglioni Vicenza e Val Cismon. Il valoroso comportamento dell'intera Divisione era citato dal bollettino di guerra del Gran Quartier Generale tedesco: «Nei combattimenti della grande ansa del Don si è particolarmente distinta la Divisione alpina Julia».

Ritorno sul Don, parte 4

Lasciamo Charkov al primo albore perché la strada sarà molto lunga. Dopo circa centocinquanta chilometri di camionabile asfaltata ci inoltreremo per piste di terra battuta sino a raggiungere Valuiki, poi piegheremo a nord-est per Nikitovka e Arnautovo, e da li, per Nikolajevka lungo la strada del nostro ripiegamento, ritorneremo a Charkov per Sebekino e Bielgorod. Per buona sorte il cielo è limpido e la temperatura fresca, appena qualche grado sotto zero. Il nostro autista si chiama Jurij e l'accompagnatrice, che parla il francese, Larissa. La macchina, una Volga, affronta con buona velocità la strada e sorpassiamo i camion dei kolcosiani che vanno al lavoro, trattori, motocarrozzelle. Dopo una cinquantina di chilometri costeggiamo un grande lago artificiale e Larissa ci spiega con orgoglio che quest'acqua serve per le industrie metallurgiche di Charkov: viene pompata, usata, depurata e nuovamente qui rimessa.

Più avanti entriamo in quella parte dell'Ucraina meno abitata, i villaggi sono lontani tra di loro decine di chilometri; a tratti, dopo le distese di terra nera e grassa, affiorano colline biancheggianti solcate dai calanchi; le isbe hanno quasi tutte il tetto di paglia; le strade sono piste di terra battuta, come allora, e, ai lati di queste, ogni tanto compaiono i lunghi pagliai dove avevano trebbiato nell'estate. Era sui pagliai come questi che molte notti si cercava riparo dal freddo e dalla tormenta; qualche volta venivano incendiati da quelli che stavano sotto, e chi stava sopra finiva bruciato. Spiego questo sottovoce a mia moglie ma anche Larissa ha capito qualcosa e chiede spiegazioni. In russo-francese tento di farmi capire e l'autista che segue attentamente le mie parole dice dopo: - Anch'io ho combattuto da queste parti; da Voronesc a Valuichi nell'inverno del '43. Davanti a noi avevamo gli ungheresi; ma poi ho visto anche gli italiani. E sempre camminando sono arrivato sino a Berlino nel 1945. Ha la mia stessa età, ed è uno dei rari sopravvissuti di questa leva in Urss. - I nostri compagni, - dice, - sono tutti morti!

La strada diventa sempre più accidentata, sul fondo delle balche ci sono dei fossi che ci fanno sbattere la testa contro il tetto della vettura, ma Jurij è un autista eccezionale e guida la sua Volga come fosse un carro armato. Il viso di Larissa non è più allegro come alla partenza; anche per lei, abituata ad accompagnare operatori stranieri nelle officine di Charkov, questa Russia forse è nuova. Quando attraversiamo un villaggio mia moglie guarda curiosa le isbe e dice: - A vederle, le donne sembrano vestite in maniera goffa, ma tra le casupole ho visto stesa della biancheria che non ha niente da invidiare alla nostra.

È mezzogiorno e abbiamo continuato ad andare senza mai fermarci; consultando le carte e i chilometri fatti dico che si dovrebbe essere fuori dall'Ucraina e già nella repubblica russa. - È vero! - mi conferma Jurij. E Larissa ridendo: - Andiamo per le Russie! Finalmente incontriamo una tabella che indica Valuichi a quarantatré chilometri. Ci arriviamo dopo l'una e quando scendo dalla macchina sento che ora, si proprio ora, sono tra loro. Tra gli alpini, dico. E mi allontano dal gruppo per una strada qualsiasi. Quasi mi viene da chiamare nomi. Qui, tra queste case, per queste strade, per questi orti finirono i resti della Julia e della Cuneense tra il 26 e il 28 gennaio del 1943. I paesani e i ragazzi mi guardano curiosi: - Chi sarà questo straniero dal passo incerto?

Mia moglie mi chiama e anche Larissa e Jurij mi fanno cenno di ritornare. Nel ristorante del Soviet locale è pronto da mangiare per noi. Ma io prima mi aggiro ancora, solo, attorno alla chiesa bianca e celeste dove vecchie contadine sono forse venute in pellegrinaggio dalla campagna. Cantano sommesse, e sopra le loro voci esili sento quella baritonale del pope. Quanti nostri feriti, quanti nostri morti alpini saranno stati dentro e attorno questa chiesa di Valuichi? La luminosità del cielo, il miele dorato della chioma delle betulle sopra il prato, il suono delle campanelle nell'arco della porta bianca e azzurra, i canti sussurrati, i giochi delle ombre che il sole tra le foglie fa sui volti di alcune vecchie appoggiate al muro e che mi guardano miti, mi fanno per un attimo cancellare ben altre immagini che impetuose risalgono vivide e con violenza. Sto trepidante a guardarmi attorno assorbendo da ogni poro questo di oggi per mitigare quello di allora.

Finché mia moglie e Jurij mi vengono a prendere perché la tavola è già imbandita e la solianka va raffreddandosi. La nostra colazione non è ancora terminata che viene da noi un uomo con gli occhiali; ci dice: - Il segretario del Soviet di Valuichi vi aspetta nella sede; vi prego, quindi, appena avete finito, di seguirmi.

L'edificio vecchio mi ricorda la scuola elementare della mia infanzia: le spesse mura di pietra, i pavimenti di legno, le porte tinteggiate con olio di lino e terraombra, le pareti a calce, l'odore di varechina e il silenzio. Si, certo, qui dentro c'erano; mi sembra di sentire la loro presenza fisica e guardo attorno in ogni angolo e sento parole piemontesi e furlane nell'aria immota. Saliamo in silenzio quattro rampe di scale; in un corridoio un ufficiale d'artiglieria - forse un generale? - passeggia in attesa di qualcosa. L'accompagnatore con gli occhiali e dall'aria di seminarista, senza bussare apre una porta e ci fa entrare. Mi accorgo che con noi non c'è Jurij e mi sento come indifeso; sento pure la preoccupazione di mia moglie e la improvvisa remissività di Larissa.

Stava dietro una scrivania e dietro, sopra la parete campeggiavano un ritratto di Lenin e una bandiera rossa ricamata con simboli in oro. Con un gesto ci indica una panca laterale dove sederci; di fronte a noi, sull'altra panca, stanno seduti l'uomo che che è venuto a chiamarci e un altro uomo più anziano dall'aria bonaria di fabbro paesano. Senza farsi vedere dagli altri, mi sorride con gli occhi. Il segretario del Soviet è magro, asciutto, dal lineamenti del viso decisi e convinti, lo sguardo assorto; parla sottovoce senza alcun gesto o inflessione. Anche Larissa, che è seduta sull'orlo della panca dopo mia moglie e fu da interprete, risponde sottovoce e computa: sembra di essere in una chiesa di frati ma anche, mi sembra, un interrogatorio.

mercoledì 28 dicembre 2022

Il viaggio del 2013, da Podgornoje a Postojalyi

Immagini del mio primo trekking effettuato nel 2013... Sabato 19 gennaio - 1a tappa Km.29: da Podgornoje a Opit, a Postojalyi. Arrivo al villaggio di Opit dove nel gennaio 1943 si verificarono i primi significativi scontri della colonna in ritirata. Vivremo qui, senza ancora saperlo, alcuni dei momenti più intensi e significativi di questa memorabile esperienza.









Cronaca di una sconfitta annunciata, 28.12.42

Cronaca di una sconfitta annunciata; dall'11 dicembre 1942 al 31 gennaio 1943, giorno per giorno, la cronistoria dell'ARMIR durante l'offensiva sovietica "Piccolo Saturno". Tratto da "Le operazioni delle unità italiane al Fronte Russo (1941-1943), edito dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.

28 DICEMBRE.

BLOCCO SUD.

Alla mezzanotte del 28 era finalmente raggiunto lo schieramento tedesco. L'affollamento ai varchi per raggiungere più presto la salvezza ed il riposo, faceva sì che alcuni uomini uscissero dai limiti stabiliti e rimanessero vittime dei campi minati predisposti a difesa. I superstiti si raccoglievano nella zona Michajlovskij - Nadeshovka, e vi sostavano per l'intera giornata del 29.

BLOCCO NORD.

Il 28 dicembre un aereo italiano effettuava un lancio di viveri, medicinali e munizioni per armi leggere. Nel pomeriggio del 29 dicembre giungevano in aereo il Comandante dell'aviazione dell'8a Armata, Generale Pezzi, ed il Colonnello medico Bocchetti, ai quali era esposta la situazione in atto. Nel viaggio di ritorno l'aereo andava disperso.

Ritorno sul Don, parte 3

Ora sono venuto in Russia per la terza volta. Il treno è entrato in Ucraina e corre via liscio e veloce; a Cop, mentre ci controllavano i passaporti, gli operai hanno cambiato i carrelli ai vagoni e ora non si sentono più i sobbalzi e gli scossoni che nell'attraversare l'Ungheria ti mescolavano il cervello e le viscere. Allora i treni non facevano questa strada, passavano più a nord, per la Cecoslovacchia e la Polonia. Da Leopoli si che sarà la stessa. Sarò forse il primo alpino che ritornerà in quei luoghi dopo trent'anni. Come sarà? Il treno corre tra i boschi della Transcarpazia, ricordo i miei due viaggi precedenti, i compagni di allora. In silenzio guardo le cittadine e i villaggi con i camini che fumano, le oche negli stagni, i vagoni che sfilano nelle ampie curve. L'autunno è meraviglioso di colori e questi boschi sembrano i miei. Volentieri mi fermerei a parlare con quel cacciatore e quel ragazzo: hanno appena sparato e il cane gli riporta la beccaccia. È un mondo pulito e pacifico, ma pure sento dentro qualcosa che risale, come una paura profonda e assopita, e quando giungiamo a Lvov (la Leopoli per i polacchi, la Lemberg per i tedeschi) mi ritrovo dentro la stazione di allora, quella distrutta dai bombardamenti e le donne ebree di quel lontano 1942, e non questa ricostruita, con la gente tranquilla e serena attorno ai treni.

È notte, mia moglie prepara i lettini nella cabina e intanto parlo nel corridoio con i compagni di viaggio. Due sono italiani, gli altri russi. Il più giovane degli italiani si è laureato a Mosca e ha sposato una ragazza di qui, ora si interessa di export-import; l'altro italiano è un vecchio fuoruscito della Bassa Padana, al suo paese faceva il fabbro ma nel 1925 dovette emigrare in Francia perché i fascisti di Farinacci volevano ucciderlo; dalla Francia passò in Russia dove continuò a lavorare come forgiatore in una grande officina. Mi parla delle lotte proletarie del 1920 e poi del suo mestiere di ferraiolo, di come conosce bene i metalli e di come li tempra, di come i cacciatori del suo paese qui in Russia gli portavano i fucili perché li aggiustasse quando saltavano le molle dei cani. Mi mostra con orgoglio la lettera che Longo gli ha mandato in occasione del suo cinquantesimo di militante comunista, la medaglia d'oro e la cicatrice sulla mano, quando venne ferito in uno scontro davanti la Casa del Popolo. Gli aveva fatto impressione rivedere il suo paese dopo tanti anni, e commosso la festa dei vecchi compagni; pure sentiva nostalgia della moglie che lo aspettava a Mosca e del pane nero e saporito.

Mi dice anche in confidenza che quando al confine sono saliti i funzionari russi, ha sentito che tra loro dicevano di un certo Rigoni, un italiano, scrittore di guerra, che avrebbe dovuto essere sul treno. Mi aspettavano, insomma. Tra i viaggiatori russi c'è un giovane tecnico che viene da Torino. Sono quasi due anni che manca dall'Urss e la sua impazienza per arrivare a casa è grande e comprensibile. Si, certo, dice, in Italia si sta bene e la gente è brava, ha trovato anche amici con cui andava a pescare le trote nei torrenti delle Alpi piemontesi, ma a Ulianov, sul Volga, è un'altra cosa. I miei compagni di viaggio dormono nelle loro cabine, il treno corre liscio sulle rotaie, la notte è serena e le costellazioni mi indicano l'orientamento: andiamo verso sud-est. Passano foreste, villaggi con piccole luci, città illuminate, distese di terra nera arate di fresco, stoppie, altre distese, ancora villaggi: questa è la Russia. Domattina saremo a Kiev. Per questa strada ferrata passammo anche allora, e da Vinitza era Lisa Mitz che faceva la cuoca al distaccamento di prigionieri lungo la ferrovia del Baltico. Sarà ancora viva?

Il treno corre nella notte e non dormo. Allora eravamo in tanti dentro i vagoni dalle porte spalancate e si stava distesi tra armi e zaini. Ma ha un senso andare alla ricerca di quel tempo? A Kiev, appena siamo giù dal treno si avvicina una ragazza: - Scusi. - dice in perfetto italiano, - è lei il signor Rigoni Stern? Le do il benvenuto. Sono dell'Inturist.

Un uomo ci porta i bagagli sino a una macchina che ci aspetta davanti alla stazione. Andiamo con fiducia e mia moglie mi prende a braccetto. Certo, questa che vedo ora non è la Russia dei miei ricordi: la città è pulita, ordinata, fresca; e la gente se ne va tranquilla per le belle strade alberate. Ma questo parlare mi riporta i compagni con i quali ho diviso i lunghi mesi nei Lager tedeschi, e i ragazzi che se ne vanno a scuola allegri altri ragazzi che in tristissimi tempi si erano e aggregati alla cucina del Cervino per poter sopravvivere.

Si sa che Kiev è una città antica, con parchi sterminati e il grande Donetz, la gente cordiale; ma la prima cosa che qui appare evidente è la grande pulizia che si nota dovunque: nelle strade, nei parchi, alla stazione delle corriere, nei sottopassaggi, sulle rive del fiume. L'interprete vorrebbe accompagnarci nei soliti luoghi che i turisti vogliono vedere: il Gum, il metrò, i musei, le cattedrali, i vecchi conventi, e rimane sorpresa quando le dico che preferisco stare tra la gente. I colori e il sole di questo lungo autunno sui giardini di Kiev mi allontanano dallo scopo del mio viaggio fino a quando in un parco sopra la collina vediamo il monumento ai soldati caduti per liberare la città nel dicembre del 1943. Leggo il nome di un generale di quarantadue anni e quello del giovanissimo soldato che per primo vi entrò su un carro armato, e vedo la grande fossa dove sono tutti insieme sepolti e i fiori freschi sulle pietre. Due sposi si fanno fotografate davanti alla «fiamma della gloria eterna» e l'interprete mi spiega che tutte le giovani coppie vengono qui a portare i loro fiori per riconoscenza e ricordo.

Nella primavera del 1945 a Kiev erano sopravvissuti appena duecentocinquantamila abitanti, ora sono oltre i due milioni. I trucidati, i deportati, i caduti in combattimento in Ucraina furono milioni, e non c'è casa o famiglia che non abbia avuto i suoi morti. Ma questo lo sapevo anche se la guida-interprete non me lo diceva; lei lo ha imparato a scuola, io qui, /allora. Ed è per questo che vorrei camminare le strade come uno di loro; come quel contadino dalla faccia tartara, quel mutilato con le stampelle, quell'operaio con le mani in tasca e la berretta alla Lenin che si fuma la sua papiroscka aspettando il tram. O sedermi accanto a quell'ebreo, chissà come sopravvissuto, che sulla panchina si gode il sole guardando i ragazzi che giocano che giocano. No, noi qui non eravamo come i tedeschi; e dopo, quando ognuno poté scegliere, fui con voi. Per questo posso dire tranquillamente: - Ià italianschi, - e voi rispondermi sorridendo: - Italianschi carasciò!

Oggi, qui a Kiev, potrebbe essere venuto dalla campagna dei dintorni anche Vassilij, il partigiano russo che aveva combattuto sulle mie montagne e che ancora i compaesani ricordano con affetto. Io l'avevo conosciuto quel giorno che andammo a recuperare il corpo del Moretto, giù per i precipizi della Valsugana. E Kremenciug? Era grande e grosso, e nella "baracca della fame" ricordava il pane della sua Ucraina e i campi di frumento e di girasoli. Faceva il ferroviere, e lo chiamavano con quel nome, perché era macchinista sulla linea Kremenciug-Kiev. Sarà ritornato a far correre i treni per le sue pianure? e a mangiare il suo pane saporito? Era quasi sempre allegro, ma certe volte lo prendeva la nostalgia e piangeva come un bambino.

Il giorno dopo sono in viaggio per Charkov: è da questa città che spero di raggiungere il Don. Qui a Charkov vi era un grande ospedali italiano dove molti nostri compagni sono morti. Anche il mio capitano che venne ferito a Nikolajewka il 26 gennaio. E nei pressi di Bielgorod, a una ottantina di chilometri da qui, siamo usciti dalla sacca in quel febbario del 1943. In treno ci fa compagnia una donna ucraina; fu deportata in Germania nel 1952; nel 1944 arrivò sino in Italia, nel Friuli, come operaia lungo le ferrovie; dopo fu liberata dagli americani, e dalla Germania passò in America dove aveva dei parenti emigrati. Ora è ritornata in Russia come turista, ma il mondo della civiltà consumistica non è riuscito a cambiarla perché è rimasta la dolce bàbusca contadina. Si fermerà qui un paio di mesi e si porta al seguito una nipote per fare il giro di tutti i conoscenti. A Charkov scendiamo allo stesso albergo.

Anche qui mi aspettano alla stazione, e dopo, in albergo, il direttore dell'Inturist mi chiede se il mio desiderio è proprio quello di visitare i luoghi dove hanno combattuto gli italiani. Ci tiene a precisare che le distanze sono grandi, le strade non tutte buone e, infine mi chiede se sono disposto a pagare in valuta, ossia in dollari o lire, tutte le spese per autista, macchina, accompagnatrice. Mi domanda con insistenza perché voglio andare in quei posti scomodi e lontani dopo tanti anni, se lo scopo del mio viaggio è speculativo e se dietro di me vi sono organizzazioni politiche, o giornalistiche, o la televisione. Mi assumerò tutte le spese in lire, lo rassicuro; dietro di me non vi sono organizzazioni, e lo scopo del mio viaggio è solo per portare un saluto ai miei compagni caduti e rimasti per sempre in quelle steppe, e anche un ringraziamento alla gente dei villaggi e delle isbe. Solamente ora sorride appena: - Allora siamo d'accordo, - dice. E sul volume delle carte stradali dell'Urss, che un amico di Milano mi aveva mandato a casa (lo stupisce questo volume di carte edito a Mosca, nemmeno loro lo conoscevano), facciamo l'itinerario per l'indomani.

Ricordare, ricordare, ricordare sempre...

Coming soon.

martedì 27 dicembre 2022

Storia Illustrata 1999, parte 8

Speciali di Storia Illustrata, Campagna di Russia - La tragedia dell'ARMIR, Agosto 1999, ottava parte.

















Ritorno sul Don, parte 2

Questa era la terza volta che andavo nelle Russie; la prima fu quando partimmo da Aosta con il Cervino, la notte del 13 gennaio 1942. Nevicava, allora. Gli alpini salivano sui vagoni con fiaschi e bottiglie in mano e nello zaino, e vino in corpo; si cantava e uno della mia squadra frantumò un fiasco pieno sulla testa di un ufficiale superiore che ci voleva contegnosi e disciplinati. Il vino rosso gli colava giù dal viso e fino in terra lungo la divisa, e con il cappello schiacciato in testa stava li stupito senza dire parola. Il viaggio fu lungo, durò fino al 21 febbraio: quaranta giorni attraverso la Germania, la Polonia e l'Ucraina. Il freddo era intenso e persistente. Il treno tutto coperto di ghiaccio molte volte era costretto a fermarsi perché si congelavano gli impianti di riscaldamento, o i freni non funzionavano. Nei vagoni installammo delle stufe e per farle funzionare molte volte andavamo a rubare il carbone nei depositi delle stazioni.

Più avanti, in Polonia, il treno si fermava perché i partigiani facevano saltare i binari o i ponti sui fiumi. Allora, in quelle lunghe soste, l'aiutante di battaglia Gualdi ci raccontava di quando era stato al Polo Nord con il capitano Sora alla ricerca della Tenda Rossa; o, anche, con Gigi Panei cantavamo le canzoni abruzzesi. Ogni mattina con il fiato scioglievo un cerchietto di ghiaccio sul vetro del finestrino e attraverso questo foro osservavo curioso un mondo insolito e nuovo: sterminate pianure, foreste sepolte nella neve, villaggi, voli di corvi, lepri, caprioli. Un giorno incrociammo un treno carico di feriti che scendevano dal fronte di Mosca; stavano ammucchiati sulla paglia dentro i vagoni merci, fasciati con bende di carta, poco coperti, pidocchiosi. Erano nelle medesime condizioni di come si sarebbe stati noi un anno dopo, all'uscita della sacca del Don. Un alpino di Gressoney che parlava tedesco chiese a uno di loro sua volta ci aveva chiesto da fumare: - Come va la guerra? - Merda! - ci rispose.

Nello scompartimento di terza classe assieme a me c'erano De Marzi, Bonomi e Marcellin; due dormivano sulle panche e due sui teli da tenda tesi come amache. Io stavo sopra, dentro il telo, e quando il treno partiva o si fermava gli scossoni erano tali che si dondolava per un bel poco. Nelle stazioni dove si fermavano per fare rifornimento di acqua e carbone, andavamo di corsa nei posti di ristoro della Croce Rossa; là ci davano in abbondanza infusi di tiglio che le inservienti si ostinavano a chiamare tè, o anche, ci davano, pappette di semolino. Strane, in quelle stazioni, erano anche le latrine: stanghe sospese orizzontalmente sopra le fosse dove si stava accovacciati con la stanga sotto le ginocchia come lunghe file di uccelli sui fili della luce.

Una volta ci dissero che il treno sarebbe stato fermato per almeno sei o sette ore. C'era una stazioncina semidistrutta con un passaggio a livello, e lontano, dentro la bianca pianura, un villaggio coi tetti di paglia. Andammo verso il villaggio, e lungo la strada un contadino ci fece salire sulla sua slitta. C'era il mercato: uova, galline, nastri, paste colorate, semi di girasole, sedie impagliate, utensili da tavola in legno e donne che conversavano animatamente. Due soldati tedeschi delle SS, armati di tutto punto, osservavano staccati e con aria di sufficienza. Barattammo due saponette e un pettine con parecchie uova.

In un altro villaggio incontrai un vecchio che nel 1917 era stato con gli austriaci nel mio paese devastato; io gli offrii tabacco e lui mi portò un secchio di birra, e stemmo a conversare in una lingua strana, ma dicendoci tante cose, durante tutta la sosta. Il 7 febbraio eravamo a Leopoli e qui più che altrove si vedevano i segni della guerra. I cittadini silenziosi e dimessi nella stazione semidistrutta mi fecero più impressione che non i carri armati e gli aeroplani sui campi delle grandi battaglie. E dopo, a mano a mano che ci si addentrava nell'Ucraina, non si vide una stazione ferroviaria intatta, né una fabbrica; cosi che pareva impossibile che un treno potesse ancora andare.

Il 23 febbraio il generale Messe che comandava il CSIR venne a Jassinovataja e ci fece il discorso. Disse che il Cervino era un battaglione speciale, da non sprecarsi, e che il nostro compito sarebbe stato di far pattuglie nelle retrovie russe e colpi di mano.

Venne un marzo freddo che per niente annunciava la primavera. Si andava di pattuglia con gli sci per le pianure nei dintorni di Rikovo, e un giorno ci imbattemmo in una grande fossa ricolma di cadaveri nudi di ogni età e sesso. Restammo sconvolti e quando un tenente volle ritornare su quel posto con la macchina fotografica, trovò le fosse coperte con terra e neve. Nei giorni di riposo andavamo a fare i tiri contro le piramidi dei materiali di scarto delle miniere, o anche in un grande stabilimento dove ci dicevano di disfare gli impianti elettrici e i grossi cavi di rame delle centrali. E mi faceva rabbia veder distruggere impianti costosi per ricavare il metallo. Dicevano, gli alpini, che il rame serviva in Italia per solforare le viti.

Qualche pomeriggio ci portavano anche a teatro. La compagnia teatrale era di ragazze e ragazzi ucraini che ballavano e cantavano in costume. I soldati che affollavano il teatro di Rikowo fischiavano, urlavano e battevano i piedi quando nel ritmo della danza apparivano le ginocchia delle ragazze o sobbalzavano i seni. Ma certe canzoni profondamente malinconiche facevano stare tutti zitti. Quel che era strano in quel periodo era che di notte si facevano pattuglie e colpi di mano e di giorno si andava a spasso per la città o a teatro.

Nella primavera del 1942 ritornai in Italia con alcuni compagni, alla Scuola d'Aosta. Alla stazione di Jassinovataja, Simonutti e Anzi rubarono alla sussistenza un barile di cognac; dopo la bevuta si addormentarono in Russia e si svegliarono a Udine. Nell'estate ritornai al mio reggimento e ripartimmo per le Russie la seconda volta.

Eravamo in tanti, questa volta, tre divisioni: nove reggimenti di alpini e tre di artiglieria, e i servizi; tanti lunghi treni, con tanti muli, non i trecento alpini del Cervino. Diceva, radio scarpa, che si sarebbe andati nel Caucaso per poi scendere da lì per l'Armenia sino a incontrare l'armata dell'Africa che sarebbe salita dall'Egitto. Ma in una tampa a Torino, la sera prima di partire un operaio della Fiat mi aveva detto: - Non finirà tanto presto questa guerra. La Russia è grande. Cosa credono di fare Mussolini e Hitler? La fine di Napoleone, faranno. Quello che ti auguro è di ritornare a casa-. Bevemmo insieme un paio di bottiglie.

Era una domenica mattina e, al comando «Zaino in spalla, riposo», uscimmo dalla caserma Monte Grappa con la bocca ancora impastata per il vino della notte. Le strade mattutine di una Torino ancora addormentata erano deserte; i rari passanti si fermavano sui marciapiedi e ci guardavano passare senza farci alcun gesto. Il rumore dei chiodi degli scarponi e zoccoli dei muli sull'asfalto di corso Vinzaglio sembrava riempire la città; nelle case la gente dentro i letti forse ascoltava questo rumore giungere alle finestre e svanire come un brontolio. Erano gli alpini della Tridentina che andavano in Russia.

Alle 10,40 la tradotta parti, e Gazzoli, il tromba della compagnia, suonò l'avanti; il macchinista rispose con il fischio del vapore. Gli alpini urlarono. Dopo i primi giri delle ruote Bona intonò: «Non ti potrò scordare piemontesina bella...» e tutto il treno rispose al suo invito. Cosi, con un grande coro, partimmo dalla stazione di Porta Nuova quella domenica del 26 luglio. A Brescia trovammo tanto vino perché dalle montagne erano scesi i parenti dei nostri compagni bresciani; vino, pane e salame anche a Verona per i veronesi, e anche a Trento per i trentini. Poi, quando il treno scese dall'altra parte delle Alpi, stavamo a guardare dalla porta spalancata del carro ferroviario, con le gambe a penzoloni.

Cronaca di una sconfitta annunciata, 27.12.42

Cronaca di una sconfitta annunciata; dall'11 dicembre 1942 al 31 gennaio 1943, giorno per giorno, la cronistoria dell'ARMIR durante l'offensiva sovietica "Piccolo Saturno". Tratto da "Le operazioni delle unità italiane al Fronte Russo (1941-1943), edito dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.

27 DICEMBRE.

BLOCCO SUD.

Nelle ore meridiane del 27 dicembre era compiuto un breve spostamento verso ovest, fino a Nikolajevskij, per migliorare gli alloggiamenti, ma non appena i reparti stavano sistemandovisi, alle ore 22 un ordine del XXIX Corpo ordinava la ripresa del movimento su Bolscioj Ternovyi, in valle Gnilaja. A mezzanotte, nella tormenta, veniva ripresa la marcia, disturbata, in coda, da attacchi di partigiani e, sul fianco destro, alle ore 4 del 28 dicembre, da reparti regolari sovietici. Alle ore 5,30, quando Bolscioj Ternovyi distava ormai soltanto 3 chilometri, un aereo tedesco lanciava un messaggio sulla colonna. Era una carta 1:300.000, con il segno di una forte occupazione nemica a Bolscioj Ternovyi e con l'indicazione di un nuovo itinerario fino a Skassirskaia, occupata da forze tedesche.

Si sarebbe trattato, però, di coprire una nuova tappa di altri 40 chilometri, in aggiunta ai 35 appena percorsi, portando la distanza complessiva a 75 chilometri senza soste intermedie, fuori delle piste, nelle descritte condizioni ambientali. La mancanza assoluta di carburante determinava un ulteriore sacrificio di automezzi e di bocche da fuoco. Carri armati sovietici attaccavano la colonna in testa ed in coda e tre di essi erano distrutti dalla poca artiglieria rimasta. Le perdite di uomini, per esaurimento e per congelamento, si moltiplicavano.

BLOCCO NORD.

Il 27 dicembre venivano richiesti al Comando d'Armata, nuovamente per mezzo della radio della 298a Divisione, l'invio di medicinali, lo sgombero aereo dei feriti più gravi e con automezzi (non appena fosse stata aperta la strada) di 2.000 feriti e congelati meno gravi. Veniva anche richiesta la presenza di un ufficiale del Comando d'Armata per constatare la gravità della situazione e prendere accordi per lo sgombero di feriti ed ammalati. Il necessario riordinamento dei reparti si dimostrava impossibile, poiché il nemico sempre vigilante non consentiva di effettuare adunate all'aperto. Il fuoco delle artiglierie, mortai e lanciarazzi provocava perdite tra gli uomini e la distruzione delle abitazioni. I reparti italiani erano assegnati alla difesa del settore orientale, contiguo ai loro alloggiamenti.

FRONTE DEL CORPO D'ARMATA ALPINO.

La lotta si protraeva sullo stesso terreno nelle giornate del 27 e del 28, in una alternanza di perdite e di riconquiste di posizioni che, però, alla sera del 28 erano tutte in mano italiana. Le sole perdite per congelamento nella giornata del 28 ammontavano a 103.

lunedì 26 dicembre 2022

Ritorno sul Don, parte 1

Ho scelto questa bellissima fotografia di Mario Rigoni Stern con il suo cane per raccontare, al di là della cronaca e dei numeri che riporto in questi giorni di dicembre e che riporterò anche nei prossimi fino alla fine di gennaio, un'altra storia di Russia. Una storia, sempre di Mario Rigoni Stern, che io scoprii tanti anni fa leggendo "Ritorno sul Don" dopo aver letto prima, non ricordo come e perché, "Il sergente nella neve" e "Centomila gavette di ghiaccio" di Bedeschi. Dicevo appunto... lessi "Ritorno sul Don" e continuo a leggerlo ogni anno, non ho mai smesso e non smetterò mai. Le vicende belliche di quella terribile campagna mi sembravano così lontane e relegate alla storia, ma "Ritorno sul Don" no! Era una storia così vicina, una storia che con mille distinguo, potevo vivere anche io. Una storia che ogni volta mi commuoveva e mi commuove, una storia che mi ha spinto a voler andare ad ogni costo in Russia, per vedere e cercare di capire. La riporto per intero per tutte quelle persone che non hanno mai avuto la fortuna di leggerla.

Ogni anno, quando cadeva la prima neve e dalla finestra che guarda gli orti vedevo tetti e montagne imbiancarsi, mi prendeva una malinconia che stringeva il cuore e mi isolava da tutto il resto. Come se questa neve avvolgesse e coprisse la vita che è nel corpo. Anche di notte mi svegliavo quando nevicava. Lo sentivo che nevicava, e stavo immobile dentro il letto. I primi anni prendevo gli sci e andavo. Andavo da solo dove non avrei incontrato nessuno. Nessuno, tranne quello che avevo lasciato là. Certe volte che ero in ufficio a trascrivere le volture catastali sui vecchi registri mi pareva che il nero dell'inchiostro ferro-gallico sulla pagina fosse come la colonna in ritirata nella steppa. E mi capitava pure di scrivere nomi di compaesani che non erano ritornati.

Allora per delle giornate intere stavo zitto e chiuso; i colleghi d'ufficio e a casa dicevano che era perché avevo la luna di traverso. Era difficile spiegare, o non volevo. Perché una madre che aspetta non poteva sapere. Aspetta, prega, ma non si stanca di sperare. Magari, dice, è sposato in qualche parte perché la Russia è grande; e magari avrò anche dei nipotini, laggiù. Mi mandasse almeno una cartolina, pensa. E intanto vive. Ma io sapevo. Avevo visto cose che non si possono dire alle madri. Cosi, ogni volta che nevicava era come morire un poco. Ma passavano anche gli inverni, e a primavera, quando ritornavano le allodole, il cuore si liberava dalla stretta come il prato dalla neve.

Fu per questo vivere, forse, che un mattino di dicembre il cuore si fermò? Forse poteva essere un allarme per dirmi che avevo ancora poco tempo? Ma io so che il tempo della vita non è quello che si misura con l'orologio. Andai in pensione. Per mesi ogni tanto mi capitava in casa un contadino per chiedermi di controllare sui registri la superficie delle sue proprietà, o una vecchia perché spiegassi la maniera di fare un testamento giusto, o un emigrante per la successione del padre, o un bottegaio per la denuncia dei redditi. Sentivo il mio cane abbaiare verso la strada che saliva dal paese e dicevo: eccoli, vengono da me. E se anche mi distoglievano dai miei lavori manuali, in fondo ero contento di giovare a qualcuno.

Però solo una cosa, ora, mi interessava veramente: avere quanto prima l'indennità di buonuscita che da Roma doveva liquidarmi l'Enpas. Quei soldi li volevo per ritornare in Russia. Forse avrei potuto trovare anche un giornale che avrebbe finanziato il viaggio; ero pur sempre quel tale che aveva scritto Il sergente. Anche degli amici comunisti avrebbero trovato il modo di farmi ritornare laggiù con poca spesa. Ma non volevo questo, o non cercavo queste strade; volevo essere libero di andare a modo mio.

Quando arrivò l'assegno della Banca d'Italia scrissi all'Inturist di Milano. Era d'estate, e mi risposero che avrebbero organizzato il viaggio per ottobre, quando non ci sarebbe stata la confusione dei turisti; ma fino a Charkov: arrivati là, avremmo dovuto, proseguire, prendere accordi con le organizzazioni locali. Interessai un amico di Roma il quale a sua volta parlò con altri amici che telefonarono a Mosca: - Che venga intanto fino a Charkov, - dissero. Mi bastò quell'intanto, Si, perché non solo attraverso i loro poeti e i loro narratori, ma dal vivo, in Ucraina e in Russia Bianca, ma più ancora nei Lager tedeschi, avevo capito il loro animo. Tante cose vissute in comune con loro, la fame specialmente e l'amicizia soprattutto , non potevano cadere nel niente. Quando ogni cosa fu pronta mi decisi di parlare per telefono con il direttore del «Giorno». - Vado in Russia, sul Don, forse. Pubblicheresti qualcosa che vi potrei scrivere? Era di notte. Il mio cane abbaiò forte e festoso perché certo credeva che si andasse sulla montagna a galli: - Stai buono, - gli dissi, - per questa partenza non mi dispiace perdere il passo delle beccacce. Ma quando tornerò ne troveremo ancora qualcuna. In cucina, su tre fogli distinti, erano scritte le incombenze sotto ogni nome: uno doveva badare alle galline, al cane, all'orto (le api non avevano bisogno di nulla in questa stagione); uno alle pulizie della casa; uno a preparare il cibo per tutti. Pioveva, era notte fonda e mentre l'automobile ci portava giù per i tornanti della montagna per prendere il treno che da Torino arriva fino a Togliattigrad, pensavo alle altre mie partenze.

Il viaggio del 2013, da Podgornoje a Postojalyi

Immagini del mio primo trekking effettuato nel 2013... Sabato 19 gennaio - 1a tappa Km.29: da Podgornoje a Opit, a Postojalyi. Finalmente e al termine della salita di Opit troviamo questo T-34/85 a ricordo degli avvenimenti bellici che qui si verificarono nel gennaio del 1943.



Cronaca di una sconfitta annunciata, 26.12.42

Cronaca di una sconfitta annunciata; dall'11 dicembre 1942 al 31 gennaio 1943, giorno per giorno, la cronistoria dell'ARMIR durante l'offensiva sovietica "Piccolo Saturno". Tratto da "Le operazioni delle unità italiane al Fronte Russo (1941-1943), edito dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.

26 DICEMBRE.

BLOCCO SUD.

La marcia era ripresa alle ore 3 del 26 dicembre, con la temperatura di -38°. Alle ore 12, tre aerei tedeschi bombardavano per errore la colonna infliggendole forti perdite. La località di tappa, Nizne Petrovskij, era occupata alle 15, dopo due ore di combattimento.

FRONTE DEL CORPO D'ARMATA ALPINO.

Alle ore 3 del 26 dicembre i sovietici attaccavano il fronte dei battaglioni Tolmezzo e Val Cismon. Verso le ore 7 accentuavano gli sforzi sul Val Cismon, ottenendo parziali successi, annullati da un immediato contrassalto sostenuto da un plotone di carri armati tedeschi. Il Comandante del XXIV Corpo tedesco, esprimendo il suo compiacimento, esteso anche alle artiglierie che avevano appoggiato l'azione (gruppi Conegliano, Val Piave e XXIII/2° da 105/28), definiva gli alpini «molto aggressivi nell'attacco». Le perdite erano state ingenti dall'una e all'altra parte, per quella italiana aggravate dai congelamenti (64 nella sola 59a compagnia del battaglione Vicenza).

Il viaggio del 2013, da Podgornoje a Postojalyi

Immagini del mio primo trekking effettuato nel 2013... Sabato 19 gennaio - 1a tappa Km.29: da Podgornoje a Opit, a Postojalyi. Affrontiamo per la prima volta la famosissima salita di Opit da Podgornoje; su questa salita gli Alpini dovettero abbandonare decine di mezzi.









Cronaca di una sconfitta annunciata, 25.12.42

Cronaca di una sconfitta annunciata; dall'11 dicembre 1942 al 31 gennaio 1943, giorno per giorno, la cronistoria dell'ARMIR durante l'offensiva sovietica "Piccolo Saturno". Tratto da "Le operazioni delle unità italiane al Fronte Russo (1941-1943), edito dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.

25 DICEMBRE.

BLOCCO NORD.

Alle ore 7 del 25 dicembre, a Sceptukovka la colonna oltrepassava la ferrovia sostando quindi fino alle 13; era però disturbata da un bombardamento aereo. Alla ripresa del movimento la marcia si faceva sempre più penosa; molti militari restavano indietro, alcuni davano segni di alienazione mentale, provocata dalla fatica, dal freddo, dal biancore ossessionante del paesaggio, dal prolungato digiuno. Alle ore 22 la testa della colonna raggiungeva Tcertkovo, dove il comandante delle forze italiane della difesa faceva distribuire vettovaglie ed assicurava alloggiamenti al coperto. L'afflusso dei ritardatari continuava per l'intera giornata del 26 dicembre. Dall'esame della situazione, subito condotto con il Comando locale e con quello tedesco, risultava che la via verso ovest, su Belovodsk, era in possesso del nemico e che il movimento non poteva essere proseguito.

FRONTE DEL CORPO D'ARMATA ALPINO.

La giornata di Natale trascorreva relativamente calma.

domenica 25 dicembre 2022

Cronaca di una sconfitta annunciata, 24.12.42

Cronaca di una sconfitta annunciata; dall'11 dicembre 1942 al 31 gennaio 1943, giorno per giorno, la cronistoria dell'ARMIR durante l'offensiva sovietica "Piccolo Saturno". Tratto da "Le operazioni delle unità italiane al Fronte Russo (1941-1943), edito dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.

24 DICEMBRE.

Il Comando del Gruppo di Armate «B» aveva confermato all'8a Armata l'ordine di resistere in ogni modo all'avanzata nemica, articolando le azioni in base alla situazione di ciascun tratto del fronte: - resistenza rigida sulle posizioni intatte del Corpo d'Armata Alpino, fino a Novo Kalitva, e su quelle, assai meno consistenti, del XXIV Corpo corazzato, tra Novo Kalitva e Golaja; - resistenza temporeggiante e ritardatrice a sud di Golaja fino a Michailo Aleksandrovskji, azione da rendere sempre più statica e consistente con il sopraggiungere di nuove forze (19a Divisione corazzata) nella zona di Starobelsk - Belovodsk - Novo Markovka, iniziato il 24 dicembre.

Le necessità di prendere contatto sulla destra con il gruppo Fretter Pico, di sbloccare le forze italiane e tedesche assediate a Tcertkovo e quella, meno impellente, ma non remota, di respingere l'avversario verso il Don, non consentivano l'impiego della Divisione anche per estendere l'occupazione, come sarebbe stato utile, verso nord, per allinearsi con l'ala destra del XXIV Corpo d'Armata e per colmare la falla tra Golaja e Novo Markovka, ampia circa 40 chilometri. Poiché il Comando tedesco giudicava necessaria la ricostituzione di una linea continua, il compito fu assunto dal XXIV Corpo. Questo, dopo l'arrivo della Julia, del gruppo Fegelein e della 387a Divisione, non aveva ricevuto nuove forze, mentre per opporsi all'avanzata sovietica aveva veduto ridursi quelle esistenti. Per poter prolungare a sud la propria linea doveva necessariamente assottigliare lo schieramento in atto.

Nella giornata del 26 dicembre raggiungeva Michailovka, in quelle del 27 e del 28 si spingeva ancora fino a Vissotscinof, sul parallelo di Kantemirovka, dimezzando così la falla, che rimaneva pur sempre ampia circa 20 chilometri. Un simile vuoto nello schieramento permetteva ancora al nemico di operare a tergo dei due tronconi, lasciando aperta a nord la via di Valuijki alle spalle del Corpo d'Armata Alpino, mentre a sud esisteva analoga minaccia per il gruppo Fretter Pico. II Comando d'Armata prospettava la pericolosa situazione al Comando del Gruppo di Armate «B» e provvedeva direttamente, nel modesto limite delle sue possibilità, spostando il 2 gennaio le forze residue della Cosseria, in corso di riordinamento, dalla zona a sud-ovest di Rossosc a quella di Rovenki. Il Comando del Gruppo di Armate, però, fidando più sulle presunte intenzioni del nemico che sulle forze a propria disposizione, decideva di alleggerire ulteriormente lo schieramento del XXIV Corpo, sottraendogli le modestissime forze residue della 27a corazzata (già ridotta dall'allontanamento del gruppo Haufmann con la 298a Divisione).

Questa Grande Unità, nominalmente «corazzata», cessava, in pratica, di essere tale, ricevendo in rinforzo due «reggimenti di addestramento», incompleti nella preparazione alla guerra e nelle dotazioni; essi inoltre avrebbero conservato la dipendenza organica dalla loro originaria «Divisione d'addestramento». Era, questo, un altro sintomo della grave situazione in cui versava l'Esercito tedesco. La 27a Divisione, così ricostituita, prendeva posizione a sud di Vissotscinof, mentre il limite destro del XXIV Corpo veniva spostato a sud, sulla linea Kriniza - Nikolskojc - Tisckovka - Peski.

Il 28 dicembre il nuovo schieramento era in atto; il XXIV Corpo d'Armata corazzato aveva così assolto il compito ricevuto. Tuttavia le unità erano stanche, gli effettivi ridotti, l'occupazione a sud di Golaja realizzata soltanto con caposaldi troppo distanziati, mancavano le riserve. In sostanza, gli ordini superiori erano stati eseguiti ma la situazione su quel tratto di fronte risultava sempre precaria. A sud del XXIV Corpo, la Divisione corazzata, in un primo tempo, rinforzava i caposaldi di Novo Markovka e di Belovodsk, estendeva poi il proprio controllo a sud, nella valle del Derkul, dando protezione alla linea del Donez e coprendo Voroscilovgrad insieme con la retrostante zona minerario-industriale.

Il Comando del Gruppo d'Armate progettava, frattanto, una azione congiunta tra la 19a corazzata e le forze del presidio di Tcertkovo, per dare al nemico, penetrato nella zona di Voloscino (settore Fretter Pico), la sensazione di essere accerchiato. Il Comando d'Armata prospettava le difficoltà dell'operazione, ma l'attuazione del progetto era ugualmente tentata il 29 dicembre: - la 19a Divisione raggiungeva soltanto la zona di Strelzovka, nella valle Kamyscnaja, a circa 25 chilometri da Tcertkovo; - il presidio assediato compiva la sua puntata verso ovest, progredendo di poco; il collegamento diretto, il rifornimento di viveri e munizioni, lo sgombero di ammalati e feriti non potevano avere luogo, né in quel giorno, né in un secondo tentativo compiuto il 10 gennaio. Dal 29 dicembre all'8 gennaio, l'avversario conduceva consistenti attacchi contro la 19a Divisione nella valle Kamiscnaja, infliggendole un forte logorio, mentre stringeva sempre più da vicino i presidi assediati di Gartmiscevka e Tcertkovo.

BLOCCO SUD.

Alle ore 5 del 24 dicembre la colonna si poneva in marcia su Krasnojarovka, occupata di forza alle ore 20 dal 6° bersaglieri, che ne scacciava le forze sovietiche occupanti. La temperatura era scesa a -35°, aggravata da forte bufera di vento. La marcia terminava alle ore 5 del giorno di Natale. Durante la sosta, vuotati i serbatoi dalla benzina, venivano distrutti col fuoco tutti gli automezzi ormai inservibili; il carburante ricuperato veniva destinato agli automezzi impiegati per il traino delle poche artiglierie superstiti od al trasporto di feriti e congelati. II movimento previsto su Nizne Patmos veniva disdetto in quanto la strada era sbarrata dal nemico. Occorreva, pertanto, allungare l'itinerario con un aggiramento ad est.

BLOCCO NORD.

Alle ore 8 del 24 dicembre, era raggiunta Sidorovka, alle 11 Gussev. A circa 5 chilometri da Mankovo Kalitvenskaja, la colonna era deviata da forti resistenze nemiche non potute superare. La marcia doveva essere invertita verso sud per Poltavka (ore 14) - Ivanovka - Chodokov, avanzando nella neve alta, con temperatura rigidissima e nebbia. Molti i congelati che, sostando per riposarsi, passavano dal torpore alla morte per assideramento. Partigiani armati di armi automatiche e pezzi a tiro rapido tendevano frequenti agguati alla colonna.

FRONTE DEL CORPO D'ARMATA ALPINO.

Il 24 dicembre veniva sciolto il gruppo d'intervento della Julia. Alle ore 5,15 il nemico attaccava il battaglione Val Cismon che, con il concorso di cinque semoventi tedeschi, respingeva con un contrattacco l'avversario oltre le sue posizioni di partenza, catturando prigionieri, armi e materiali. Verso le ore 9,30 dello stesso giorno, il battaglione Vicenza, appoggiato da sei carri armati tedeschi, contrattaccava il fianco destro di un grosso reparto sovietico che minacciava Kriniscnaja, nel settore della 385a Divisione tedesca. L'azione dei russi era stroncata con gravi perdite. Alle ore 11 il battaglione Tolmezzo era nuovamente attaccato da due battaglioni sovietici, dopo brevissima e violentissima azione di fuoco, durante una vorticosa bufera di neve che batteva di fronte gli alpini, riducendone la visuale. Veniva respinto anche questo attacco, con il concorso dell'artiglieria della Cuneense. I prigionieri catturati asserivano che l'azione russa aveva per obiettivo l'abitato di Komarof.

DIFESA DI VOROSCILOVGRAD E Dl UN ALTRO SETTORE SUL DONEZ.

II Comandante del II Corpo d'Armata, consapevole che il morale dei reparti avrebbe avuto importanza determinante negli scontri con un nemico imbaldanzito dal recente successo, il 24 dicembre invitava il Comandante della Ravenna a svolgere ogni possibile azione perché tutti i dipendenti di ogni grado si prodigassero nell'adempimento dei loro compiti, dimostrando che le traversie subite tra Don e Donez non avevano inciso sulla loro capacità combattiva. II Comandante della Ravenna rispondeva assicurando che l'opera morale di comando era già stata svolta, precisando che nel negativo episodio di Kantemirovka non erano state coinvolte solamente unità della Divisione, ma anche altri corpi e specialmente reparti dei servizi.

Nella stessa giornata, il Comandante del II Corpo poteva riferire al Comando dell'8a Armata sulla consistenza della difesa della testa di ponte, nella quale erano impiegati 4.084 uomini (124 ufficiali) e 33 bocche da fuoco d'artiglieria di calibri varianti dai 20 ai 105 mm. Il Comando della Sezione di Gruppo d'Armate Fretter Pico, il 24 dicembre, comunicava al Comando del II Corpo la propria intenzione di trasferire le forze italiane dalla difesa dei ponti di Voroscilovgrad a quella di altro settore del Donez. Il Generale Zanghieri rispondeva il 25 dicembre comunicando le limitate possibilità di quei reparti. Però, già il 27 dicembre il Generale Fretter Pico comunicava personalmente al Generale Zanghieri l'ordine di spostamento della Ravenna. Alla fine dello stesso giorno il Comando del Gruppo di Armate «B» emanava i propri ordini per la prosecuzione della battaglia tra Don e Donez.

sabato 24 dicembre 2022

Cronaca di una sconfitta annunciata, 23.12.42

Cronaca di una sconfitta annunciata; dall'11 dicembre 1942 al 31 gennaio 1943, giorno per giorno, la cronistoria dell'ARMIR durante l'offensiva sovietica "Piccolo Saturno". Tratto da "Le operazioni delle unità italiane al Fronte Russo (1941-1943), edito dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.

23 DICEMBRE.

Il Comando del Gruppo di Armate «B» nella giornata del 23 dicembre, mutava lo schieramento della propria ala destra, assegnandone la parte meridionale al gruppo Fretter Pico (XXX Corpo d'Armata tedesco) e restringendo sensibilmente l'ampiezza del settore affidato all'8a Armata italiana, dando a questa il compito principale «di ostacolare e ritardare quanto possibile una avanzata di ulteriori forze nemiche oltre la linea ferroviaria» Rossosc-Millerovo e di «difendere in modo decisivo» il fronte sul Don tenuto dal Corpo d'Armata Alpino italiano fino a Novo Kalitva e quello del XXIV Corpo d'Armata corazzato tedesco da Novo Kalitva a Golaja. Su questo tratto erano schierate da nord a sud la Divisione Julia, la 385a tedesca, il gruppo Fegelein, la 27a corazzata tedesca e la 387a tedesca.

A sud di Golaja, però, non tutto il territorio era stato abbandonato al nemico, poiché nelle località di Bugajevka, Gartmiscevka e Tcertkovo, tre isolati presidi italiani erano rimasti operanti a contrastare l'avanzata delle forze avversarie, dando copertura al fianco sinistro del gruppo Fretter Pico impegnato in azioni offensive contro Diogtevo. Il Comando d'Armata doveva eseguire il compito ricevuto, pur non disponendo più: - del II Corpo d'Armata, ritirato dal fronte ed in corso di riordinamento nelle zone di Voroscilovgrad (Divisione Ravenna) e di Rossosc (Divisione Cosseria); - del XXXV Corpo d'Armata - CSIR, con le Divisioni Sforzesca, Pasubio, Torino e 3a Celere, rimaste tutte fuori del nuovo limite meridionale del settore e che stavano faticosamente ripiegando verso il Donez.

Era, però, in via d'affluenza la 1a Divisione corazzata tedesca, destinata a schierarsi sulla destra del XXIV Corpo corazzato, rimanendo alle dirette dipendenze del Comando d'Armata. Alcuni suoi elementi avevano costituito presidi sulla nota linea ferroviaria e, quando fosse stato completato l'arrivo delle altre forze, l'intera Grande Unità avrebbe cooperato alla nuova avanzata verso est. A tutte le forze tedesche dipendenti il Comando d'Armata impartiva i propri ordini nella giornata del 23.

PROSECUZIONE DEL RIPIEGAMENTO DELLE DIVISIONI DI FANTERIA.

Le unità dell'8a Armata italiana, che dal 19 dicembre erano in ritirata dalla linea del Don, formavano due blocchi di forze in ripiegamento su altrettanti itinerari principali: - blocco sud; - blocco nord. Le unità del II Corpo d'Armata ebbero sorte diversa, come precisato più avanti.

BLOCCO SUD.

Si era venuto costituendo a Kijevskoj, durante la giornata del 22 dicembre, con elementi delle più varie provenienze, confluiti attorno al maggiore nucleo omogeneo della Sforzesca. Il più importante reparto che si era unito a questa Divisione era il 6° reggimento bersaglieri. Invece, gli uomini provenienti dal II Corpo d'Armata, dal XXXV - CSIR e dalle altre Divisioni italiane del XXIX Corpo tedesco, si erano riuniti e avevano costituito un reggimento di formazione, denominato «Mazzocchi» dal nome del Comandante del 79° fanteria che ne teneva il comando. Questa nuova unità era costituita su tre battaglioni, che prendevano il nome dalle Divisioni dalle quali proveniva la maggior parte del personale inquadrato: - il battaglione Pasubio raggruppava appartenenti al 79° fanteria e ad altri ventuno reparti delle Divisioni Torino, Ravenna, Celere, del Comando del XXXV Corpo e di altre unità e servizi di Corpo d'Armata e d'Armata; - il II battaglione Celere (meno il 6° bersaglieri) inquadrava elementi provenienti da trentatré reparti delle Divisioni Ravenna e Torino, del Comando del XXXV Corpo e di altre unità e servizi di Corpo d'Armata e d'Armata; - il III battaglione Sforzesca comprendeva tutti gli elementi appiedati appartenenti all'omonima Divisione, non inquadrati nel loro reggimento o negli altri minori reparti.

I battaglioni, formati dapprima su tre compagnie di tre plotoni, dovettero essere portati a quattro compagnie ciascuno, facendosi distinzione tra il personale provvisto dell'armamento individuale e quello che ne era sprovvisto. Il reggimento era dotato del solo pezzo da 75/27 potuto portare in salvo dall'8° reggimento artiglieria della Pasubio, che era stato prima affiancato ai pezzi superstiti del 17° artiglieria della Sforzesca e poi restituito alla sua Divisione. Durante la giornata erano state respinte puntate di mezzi corazzati avversari provenienti da Nizne Astachof. Due carri armati erano stati distrutti. Nella notte sul 23 dicembre, il 6° reggimento bersaglieri rinforzato dalle artiglierie disponibili, sostituiva un gruppo tedesco nello sbarramento della valle Nagolnaja ad ovest di Kievskoj, rimanendo sulle posizioni fino all'imbrunire del giorno seguente e combattendo per l'intera giornata. Le rimanenti unità raggiungevano Annenskij, dove, per ordine del Comando del XXIX Corpo tedesco, si organizzavano a caposaldo per difendersi dalle forze avversarie che occupavano la valle Nagolnaja. Ad Annenskii potevano congiungersi ai superstiti del 53° fanteria.

BLOCCO NORD.

Il 23 dicembre, data la situazione, il Comandante della Torino ordinava l'incenerimento delle bandiere reggimentali, per evitarne la possibile cattura. La violenza dell'azione di fuoco avversaria cresceva di giorno in giorno con l'impiego di bocche da fuoco di maggiore potenza. Le operazioni di riordinamento intese a conferire ai reparti di formazione la maggiore possibile organicità, e quindi un rendimento migliore, venivano turbate dalla perentoria richiesta tedesca tendente ad ottenere immediatamente 14 reparti di formazione italiani di circa 100 uomini, da impiegare nella difesa dei settori comandati dai Generali italiani Capizzi (Ravenna) e Rossi (Torino).

Alla sera tutti i comandanti italiani erano invitati a radunarsi al Comando della 298a, per conferire maggiore prontezza di decisioni e di intervento alla loro azione di guida dei reparti. Nelle prime ore della notte venivano diramati gli ordini per la rottura dell'accerchiamento ed il trasferimento nel caposaldo di Tcertkovo. I feriti ed i congelati in grado di marciare seguivano la colonna, gli altri erano trasportati sulle slitte disponibili o sul solo autocarro per il quale era stata trovata benzina; gli intrasportabili venivano lasciati sul posto, affidati al senso di umana solidarietà dell'avversario. Alle 23,30 aveva inizio il movimento. I sovietici attaccavano la retroguardia italiana, ma questa li tratteneva durante tutto lo sfilamento della colonna. Il combattimento durava fino all'alba del 24 dicembre ed alcuni reparti impegnati nella lotta non riuscivano più a raggiungere la colonna.

La temperatura era scesa a -40° ed i soldati italiani marciavano un'altra volta digiuni, perché non era stato possibile ottenere gli avio rifornimenti richiesti, né il Comando della 298a Divisione tedesca, a fianco della quale pure combattevano i reparti italiani, aveva ceduto una parte del proprio vettovagliamento. La marcia notturna, per merito della retroguardia italiana, consentiva alla colonna di sottrarsi al nemico, seguendo un itinerario in aperta campagna.

Divisione Cosseria.

Raccolti a Sofjcvka il Comando della Divisione, una parte del 90° fanteria, il 108° artiglieria (meno un gruppo), i reparti del genio ed i servizi, dopo che i resti dell'89° fanteria si erano raccolti a Losctscina e dopo aver combattuto fino al 20 a fianco della 385a Divisione, il 23 dicembre, tutta la Cosseria si trasferiva nella zona di Lisinovka-Jekaterinovka, in prossimità di Rossosc, dove sostava fino al 31 dicembre, passando alle dipendenze d'impiego del Corpo d'Armata Alpino. Tra il 10 ed il 5 gennaio, esigenze operative determinavano lo spostamento della Divisione nella zona di Rovenki-Beloluzkaja, a protezione del fianco destro del Corpo d'Armata Alpino, continuando nella nuova dislocazione le operazioni di riordinamento, già iniziate.

Da quella zona, per un aggravamento della situazione sul fronte del XXIV Corpo d' Armata corazzato tedesco, la Divisione, passata alle dipendenze dirette del Comando d'Armata, veniva avviata in direzione di sud-ovest fino a raggiungere Izjum. Da qui si diresse poi a nord-ovest, iniziando una lunga marcia a piedi di 1.300 chilometri, con temperature talora discese al di sotto dei -40°, ed eseguita sempre nel rispetto dell'ordine e della disciplina. Fu percorso l'itinerario Karkov - Ahtyrka - Romny - Priluki - Neshin, fino a Novo Beliza, nella zona di Gomel (Russia Bianca) raggiunta il 7 marzo. La Divisione si ricongiungeva così al Comando del II Corpo d'Armata ed alla Divisione Ravenna.

FRONTE DEL CORPO D'ARMATA ALPINO.

Nella giornata del 23 dicembre non avevano luogo azioni importanti.

DIFESA DI VOROSCILOVGRAD E Dl UN ALTRO SETTORE SUL DONEZ.

Il Comando dell'8a Armata, nella giornata del 23 dicembre, stabiliva che la difesa della testa di ponte aveva grande importanza ai fini di future azioni controffensive e che quel compito era preminente sugli altri. Prescriveva, inoltre, che la difesa tenesse contegno aggressivo, spingendo le proprie punte contro le fanterie nemiche avanzanti.