venerdì 30 dicembre 2022

Ritorno sul Don, parte 5

Finalmente, dopo le mie risposte, l'ambiente si rasserena e, sempre lui, ci racconta che «allora» era qui e aveva quattordici anni. Mi sembra di rivederlo in uno di quei ragazzi che con un parabellum di traverso il petto o un fucile più alto di loro operavano con i partigiani. Ricorda gli italiani e il loro ultimo combattimento quando furono circondati dalla cavalleria cosacca; i prigionieri. Ricorda che cantavano, anche. Cantavano, precisa, quelli che erano qui a Valuichi con i servizi, prima dell'offensiva dell'Armata Rossa. Parla ancora dei nostri prigionieri e dei nostri feriti, del freddo che avevano perché erano male coperti e delle scarpe che gli congelavano i piedi; e la fame che avevano tutti, anche loro russi.

- Le so, queste cose, - dico. Di sua iniziativa mi dice che i nostri morti sono stati sepolti in una fossa fuori dal paese, verso la steppa. Forse questo sarà anche vero, ma so per certo che a Nikolajevka tutti i nostri morti li hanno raccolti davanti alla chiesa, cosparsi di benzina e inceneriti: non era possibile scavare una fossa perché il terreno era gelato in profondità, duro come la pietra. Quello che mi dice è forse una pietosa bugia e non gli chiedo dove è la fossa comune degli italiani. Forse nemmeno me la indicherebbe, o mi indicherebbe un luogo qualsiasi. Cosa importa, ormai? Da qui al Don è tutta una tomba d'alpini.

Mi chiede del mio paese, dell'Italia, di come si vive. Rimane molto stupito quando gli spiego che da noi, sulle montagne, viene tanta neve e qualche inverno arriviamo ai trenta gradi sotto zero. Mi nomina qualche città: Torino, Milano, Napoli, Roma, e mi chiede quale di queste è più vicina al mio paese. - Venezia, - gli rispondo. Allora con un sorriso aperto e per farmi contento ci dice che una volta aveva visto su un libro delle illustrazioni di Venezia che è «Bolsciòi krasìva». Bellissima. Si alza, ci alziamo tutti e ci avviciniamo a un tavolo. Su un foglio fa scrivere a macchina l'indirizzo del Soviet di Valuichi e mi dice di scrivergli, quando sarò ritornato a casa, e di salutargli a nome dei compagni di qui i compagni del mio paese; ci offre ospitalità, ci stringe le mani. (Quel foglio con l'indirizzo l'ho perduto chissà dove, e mi dispiace veramente non potergli scrivere come avevo promesso).

Fa portare al tavolo una carta geografica della zona, la confronta con la nostra carta stradale della Russia, con le mie italiane e gli dico dove intendo andare. Ma in nessuna carta russa è segnato il nome che cerco: Nikolajevka. C'è solo sulle carte italiane. - Ma non esiste questo paese? - dico. - Ma qui c'è pure Nikitòvka e Arnautòvo -. Noi abbiamo sempre pronunciato in maniera sbagliata: c'è, mi dicono, Nikitòva e Arnàutovo. Le due carte russe non corrispondono, le tre italiane nemmeno. Forse, su quelle italiane, vi sono errori di trascrizione dal cirillico o dal tedesco. E poi tutte e cinque hanno scala diversa. Rimango imbarazzato e confuso quando uno di loro sbadatamente si appoggia sul vetro che ricopre la loro carta incorniciata e lo rompe. Sono io la causa di questo danno.

Due membri del Soviet di Valuichi si offrono di accompagnarci verso la pista che porta a Nikitovka e Arnautovo: - Andiamo, - dico, - si fa tardi -. Poi penso tra me: «Da li la strada per Nikolajevka la troverò io. Diavolo se la troverò!». Dopo che i compagni di Valuichi ci hanno lasciato con grandi gesti di saluto, seguiamo per un pezzo la ferrovia; ma la pista, dopo un bel tratto, diventa impraticabile anche per la Volga di Jurij. Non si vedono villaggi: solo terra, terra arata e no, cielo, e corvi che si alzano gracchiando al nostro passaggio. Larissa è visibilmente stanca e mia moglie guarda stupita in silenzio. Finalmente incontriamo delle isbe e Larissa chiede la strada per Nikolajevka: - Non so, - ci rispondono. Oppure: - Mai sentito nominare questo paese. Mi viene il dubbio che il nome sia quello del tempo degli zar, Nicola, appunto, e prego Larissa di chiedere ai più vecchi. Non lo sanno nemmeno loro. Non c'è.

Larissa e Jurij sono preoccupati. Ma dove ci vuole portare questo pazzo di italiano? Alla ricerca di un paese che non esiste? Allora prendo io l'iniziativa: controllo i chilometri fatti da Valuichi, guardo le carte, il sole: - Vai per di qua, - dico a Jurij. E dopo: - Prendi per quella traccia. Il sole è basso all'orizzonte, non si vede un'isba, un uomo. Solo cielo e terra. Scendo. Una nuvola di corvi si alza da un arato senza confini. Ma laggiù, tra pochi alberi coi colori dell'autunno, in un grande silenzio, due villaggi sembrano confondersi e impastarsi con l'aria e la terra: Nikitova e Arnautovo. Non mi posso sbagliare. No, non mi sono sbagliato. Cammino fuori dalla pista. Capitano Grandi del Tirano, dormi in questa pace. Ti porto i saluti dei superstiti del tuo battaglione, di Nuto Revelli e di tutti gli alpini della Tridentina. Dormite in pace amici valtellinesi, in questo silenzio, in questa terra nera, in questo autunno dolcissimo. Chino la testa e poi faccio un cenno con la mano: - Ci ritroveremo un giorno. Arrivederci. Dalla macchina mi chiamano. Salgo e non parlo; con la mano indico la direzione del sole che sta per tramontare.

Da sopra il dosso mi appare come allora. Non riesco a dire di fermare la macchina ma Jurij ha capito. Le mie mani a stento aprono la porta, a stento i piedi si posano sul terreno. Cammino? Cammino verso Nikolajevka. Il dosso. Questo dosso dove siamo scesi la mattina del 26 gennaio. I resti dei battaglioni, delle compagnie, delle squadre del 6° alpini. Il Vestone, la 55: la valletta ricolma di neve, il terrapieno della ferrovia, il sottopassaggio, il casello. Giuanin, Minelli, il capitano, il tenente Pendoli, i russi vestiti di bianco con le due mitragliatrici, i cannoni anticarro che i paesani del genio alpino hanno assaltato a bombe a mano. Tutto. Tutto come allora. Metro per metro. In quell'isba sono entrato con Antonelli e la pesante, e Dotti e Menegolo mi hanno portato poi le munizioni. Là sono andato a mangiare e c'erano dentro i soldati russi con la donna e i bambini. In questa il tenente Pendoli era con il capitano ferito a morte; e da qui sono usciti i soldati russi con i parabellum.

Quanti siamo rimasti? Forse in due, forse in quattro con loro. Guardo e non sono capace di dire una parola, di fare un gesto. Rino, Raoul, Giuanin. il generale Martinat, il colonnello Calbo, Moreschi, Tourn, il tenente Danda, il maggiore Bracchi, Monchieri, Cenci, Baroni, Moscioni, Novello, don Carlo Gnocchi. Tutti qui eravamo.

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