mercoledì 28 dicembre 2022

Ritorno sul Don, parte 3

Ora sono venuto in Russia per la terza volta. Il treno è entrato in Ucraina e corre via liscio e veloce; a Cop, mentre ci controllavano i passaporti, gli operai hanno cambiato i carrelli ai vagoni e ora non si sentono più i sobbalzi e gli scossoni che nell'attraversare l'Ungheria ti mescolavano il cervello e le viscere. Allora i treni non facevano questa strada, passavano più a nord, per la Cecoslovacchia e la Polonia. Da Leopoli si che sarà la stessa. Sarò forse il primo alpino che ritornerà in quei luoghi dopo trent'anni. Come sarà? Il treno corre tra i boschi della Transcarpazia, ricordo i miei due viaggi precedenti, i compagni di allora. In silenzio guardo le cittadine e i villaggi con i camini che fumano, le oche negli stagni, i vagoni che sfilano nelle ampie curve. L'autunno è meraviglioso di colori e questi boschi sembrano i miei. Volentieri mi fermerei a parlare con quel cacciatore e quel ragazzo: hanno appena sparato e il cane gli riporta la beccaccia. È un mondo pulito e pacifico, ma pure sento dentro qualcosa che risale, come una paura profonda e assopita, e quando giungiamo a Lvov (la Leopoli per i polacchi, la Lemberg per i tedeschi) mi ritrovo dentro la stazione di allora, quella distrutta dai bombardamenti e le donne ebree di quel lontano 1942, e non questa ricostruita, con la gente tranquilla e serena attorno ai treni.

È notte, mia moglie prepara i lettini nella cabina e intanto parlo nel corridoio con i compagni di viaggio. Due sono italiani, gli altri russi. Il più giovane degli italiani si è laureato a Mosca e ha sposato una ragazza di qui, ora si interessa di export-import; l'altro italiano è un vecchio fuoruscito della Bassa Padana, al suo paese faceva il fabbro ma nel 1925 dovette emigrare in Francia perché i fascisti di Farinacci volevano ucciderlo; dalla Francia passò in Russia dove continuò a lavorare come forgiatore in una grande officina. Mi parla delle lotte proletarie del 1920 e poi del suo mestiere di ferraiolo, di come conosce bene i metalli e di come li tempra, di come i cacciatori del suo paese qui in Russia gli portavano i fucili perché li aggiustasse quando saltavano le molle dei cani. Mi mostra con orgoglio la lettera che Longo gli ha mandato in occasione del suo cinquantesimo di militante comunista, la medaglia d'oro e la cicatrice sulla mano, quando venne ferito in uno scontro davanti la Casa del Popolo. Gli aveva fatto impressione rivedere il suo paese dopo tanti anni, e commosso la festa dei vecchi compagni; pure sentiva nostalgia della moglie che lo aspettava a Mosca e del pane nero e saporito.

Mi dice anche in confidenza che quando al confine sono saliti i funzionari russi, ha sentito che tra loro dicevano di un certo Rigoni, un italiano, scrittore di guerra, che avrebbe dovuto essere sul treno. Mi aspettavano, insomma. Tra i viaggiatori russi c'è un giovane tecnico che viene da Torino. Sono quasi due anni che manca dall'Urss e la sua impazienza per arrivare a casa è grande e comprensibile. Si, certo, dice, in Italia si sta bene e la gente è brava, ha trovato anche amici con cui andava a pescare le trote nei torrenti delle Alpi piemontesi, ma a Ulianov, sul Volga, è un'altra cosa. I miei compagni di viaggio dormono nelle loro cabine, il treno corre liscio sulle rotaie, la notte è serena e le costellazioni mi indicano l'orientamento: andiamo verso sud-est. Passano foreste, villaggi con piccole luci, città illuminate, distese di terra nera arate di fresco, stoppie, altre distese, ancora villaggi: questa è la Russia. Domattina saremo a Kiev. Per questa strada ferrata passammo anche allora, e da Vinitza era Lisa Mitz che faceva la cuoca al distaccamento di prigionieri lungo la ferrovia del Baltico. Sarà ancora viva?

Il treno corre nella notte e non dormo. Allora eravamo in tanti dentro i vagoni dalle porte spalancate e si stava distesi tra armi e zaini. Ma ha un senso andare alla ricerca di quel tempo? A Kiev, appena siamo giù dal treno si avvicina una ragazza: - Scusi. - dice in perfetto italiano, - è lei il signor Rigoni Stern? Le do il benvenuto. Sono dell'Inturist.

Un uomo ci porta i bagagli sino a una macchina che ci aspetta davanti alla stazione. Andiamo con fiducia e mia moglie mi prende a braccetto. Certo, questa che vedo ora non è la Russia dei miei ricordi: la città è pulita, ordinata, fresca; e la gente se ne va tranquilla per le belle strade alberate. Ma questo parlare mi riporta i compagni con i quali ho diviso i lunghi mesi nei Lager tedeschi, e i ragazzi che se ne vanno a scuola allegri altri ragazzi che in tristissimi tempi si erano e aggregati alla cucina del Cervino per poter sopravvivere.

Si sa che Kiev è una città antica, con parchi sterminati e il grande Donetz, la gente cordiale; ma la prima cosa che qui appare evidente è la grande pulizia che si nota dovunque: nelle strade, nei parchi, alla stazione delle corriere, nei sottopassaggi, sulle rive del fiume. L'interprete vorrebbe accompagnarci nei soliti luoghi che i turisti vogliono vedere: il Gum, il metrò, i musei, le cattedrali, i vecchi conventi, e rimane sorpresa quando le dico che preferisco stare tra la gente. I colori e il sole di questo lungo autunno sui giardini di Kiev mi allontanano dallo scopo del mio viaggio fino a quando in un parco sopra la collina vediamo il monumento ai soldati caduti per liberare la città nel dicembre del 1943. Leggo il nome di un generale di quarantadue anni e quello del giovanissimo soldato che per primo vi entrò su un carro armato, e vedo la grande fossa dove sono tutti insieme sepolti e i fiori freschi sulle pietre. Due sposi si fanno fotografate davanti alla «fiamma della gloria eterna» e l'interprete mi spiega che tutte le giovani coppie vengono qui a portare i loro fiori per riconoscenza e ricordo.

Nella primavera del 1945 a Kiev erano sopravvissuti appena duecentocinquantamila abitanti, ora sono oltre i due milioni. I trucidati, i deportati, i caduti in combattimento in Ucraina furono milioni, e non c'è casa o famiglia che non abbia avuto i suoi morti. Ma questo lo sapevo anche se la guida-interprete non me lo diceva; lei lo ha imparato a scuola, io qui, /allora. Ed è per questo che vorrei camminare le strade come uno di loro; come quel contadino dalla faccia tartara, quel mutilato con le stampelle, quell'operaio con le mani in tasca e la berretta alla Lenin che si fuma la sua papiroscka aspettando il tram. O sedermi accanto a quell'ebreo, chissà come sopravvissuto, che sulla panchina si gode il sole guardando i ragazzi che giocano che giocano. No, noi qui non eravamo come i tedeschi; e dopo, quando ognuno poté scegliere, fui con voi. Per questo posso dire tranquillamente: - Ià italianschi, - e voi rispondermi sorridendo: - Italianschi carasciò!

Oggi, qui a Kiev, potrebbe essere venuto dalla campagna dei dintorni anche Vassilij, il partigiano russo che aveva combattuto sulle mie montagne e che ancora i compaesani ricordano con affetto. Io l'avevo conosciuto quel giorno che andammo a recuperare il corpo del Moretto, giù per i precipizi della Valsugana. E Kremenciug? Era grande e grosso, e nella "baracca della fame" ricordava il pane della sua Ucraina e i campi di frumento e di girasoli. Faceva il ferroviere, e lo chiamavano con quel nome, perché era macchinista sulla linea Kremenciug-Kiev. Sarà ritornato a far correre i treni per le sue pianure? e a mangiare il suo pane saporito? Era quasi sempre allegro, ma certe volte lo prendeva la nostalgia e piangeva come un bambino.

Il giorno dopo sono in viaggio per Charkov: è da questa città che spero di raggiungere il Don. Qui a Charkov vi era un grande ospedali italiano dove molti nostri compagni sono morti. Anche il mio capitano che venne ferito a Nikolajewka il 26 gennaio. E nei pressi di Bielgorod, a una ottantina di chilometri da qui, siamo usciti dalla sacca in quel febbario del 1943. In treno ci fa compagnia una donna ucraina; fu deportata in Germania nel 1952; nel 1944 arrivò sino in Italia, nel Friuli, come operaia lungo le ferrovie; dopo fu liberata dagli americani, e dalla Germania passò in America dove aveva dei parenti emigrati. Ora è ritornata in Russia come turista, ma il mondo della civiltà consumistica non è riuscito a cambiarla perché è rimasta la dolce bàbusca contadina. Si fermerà qui un paio di mesi e si porta al seguito una nipote per fare il giro di tutti i conoscenti. A Charkov scendiamo allo stesso albergo.

Anche qui mi aspettano alla stazione, e dopo, in albergo, il direttore dell'Inturist mi chiede se il mio desiderio è proprio quello di visitare i luoghi dove hanno combattuto gli italiani. Ci tiene a precisare che le distanze sono grandi, le strade non tutte buone e, infine mi chiede se sono disposto a pagare in valuta, ossia in dollari o lire, tutte le spese per autista, macchina, accompagnatrice. Mi domanda con insistenza perché voglio andare in quei posti scomodi e lontani dopo tanti anni, se lo scopo del mio viaggio è speculativo e se dietro di me vi sono organizzazioni politiche, o giornalistiche, o la televisione. Mi assumerò tutte le spese in lire, lo rassicuro; dietro di me non vi sono organizzazioni, e lo scopo del mio viaggio è solo per portare un saluto ai miei compagni caduti e rimasti per sempre in quelle steppe, e anche un ringraziamento alla gente dei villaggi e delle isbe. Solamente ora sorride appena: - Allora siamo d'accordo, - dice. E sul volume delle carte stradali dell'Urss, che un amico di Milano mi aveva mandato a casa (lo stupisce questo volume di carte edito a Mosca, nemmeno loro lo conoscevano), facciamo l'itinerario per l'indomani.

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