lunedì 26 dicembre 2022

Ritorno sul Don, parte 1

Ho scelto questa bellissima fotografia di Mario Rigoni Stern con il suo cane per raccontare, al di là della cronaca e dei numeri che riporto in questi giorni di dicembre e che riporterò anche nei prossimi fino alla fine di gennaio, un'altra storia di Russia. Una storia, sempre di Mario Rigoni Stern, che io scoprii tanti anni fa leggendo "Ritorno sul Don" dopo aver letto prima, non ricordo come e perché, "Il sergente nella neve" e "Centomila gavette di ghiaccio" di Bedeschi. Dicevo appunto... lessi "Ritorno sul Don" e continuo a leggerlo ogni anno, non ho mai smesso e non smetterò mai. Le vicende belliche di quella terribile campagna mi sembravano così lontane e relegate alla storia, ma "Ritorno sul Don" no! Era una storia così vicina, una storia che con mille distinguo, potevo vivere anche io. Una storia che ogni volta mi commuoveva e mi commuove, una storia che mi ha spinto a voler andare ad ogni costo in Russia, per vedere e cercare di capire. La riporto per intero per tutte quelle persone che non hanno mai avuto la fortuna di leggerla.

Ogni anno, quando cadeva la prima neve e dalla finestra che guarda gli orti vedevo tetti e montagne imbiancarsi, mi prendeva una malinconia che stringeva il cuore e mi isolava da tutto il resto. Come se questa neve avvolgesse e coprisse la vita che è nel corpo. Anche di notte mi svegliavo quando nevicava. Lo sentivo che nevicava, e stavo immobile dentro il letto. I primi anni prendevo gli sci e andavo. Andavo da solo dove non avrei incontrato nessuno. Nessuno, tranne quello che avevo lasciato là. Certe volte che ero in ufficio a trascrivere le volture catastali sui vecchi registri mi pareva che il nero dell'inchiostro ferro-gallico sulla pagina fosse come la colonna in ritirata nella steppa. E mi capitava pure di scrivere nomi di compaesani che non erano ritornati.

Allora per delle giornate intere stavo zitto e chiuso; i colleghi d'ufficio e a casa dicevano che era perché avevo la luna di traverso. Era difficile spiegare, o non volevo. Perché una madre che aspetta non poteva sapere. Aspetta, prega, ma non si stanca di sperare. Magari, dice, è sposato in qualche parte perché la Russia è grande; e magari avrò anche dei nipotini, laggiù. Mi mandasse almeno una cartolina, pensa. E intanto vive. Ma io sapevo. Avevo visto cose che non si possono dire alle madri. Cosi, ogni volta che nevicava era come morire un poco. Ma passavano anche gli inverni, e a primavera, quando ritornavano le allodole, il cuore si liberava dalla stretta come il prato dalla neve.

Fu per questo vivere, forse, che un mattino di dicembre il cuore si fermò? Forse poteva essere un allarme per dirmi che avevo ancora poco tempo? Ma io so che il tempo della vita non è quello che si misura con l'orologio. Andai in pensione. Per mesi ogni tanto mi capitava in casa un contadino per chiedermi di controllare sui registri la superficie delle sue proprietà, o una vecchia perché spiegassi la maniera di fare un testamento giusto, o un emigrante per la successione del padre, o un bottegaio per la denuncia dei redditi. Sentivo il mio cane abbaiare verso la strada che saliva dal paese e dicevo: eccoli, vengono da me. E se anche mi distoglievano dai miei lavori manuali, in fondo ero contento di giovare a qualcuno.

Però solo una cosa, ora, mi interessava veramente: avere quanto prima l'indennità di buonuscita che da Roma doveva liquidarmi l'Enpas. Quei soldi li volevo per ritornare in Russia. Forse avrei potuto trovare anche un giornale che avrebbe finanziato il viaggio; ero pur sempre quel tale che aveva scritto Il sergente. Anche degli amici comunisti avrebbero trovato il modo di farmi ritornare laggiù con poca spesa. Ma non volevo questo, o non cercavo queste strade; volevo essere libero di andare a modo mio.

Quando arrivò l'assegno della Banca d'Italia scrissi all'Inturist di Milano. Era d'estate, e mi risposero che avrebbero organizzato il viaggio per ottobre, quando non ci sarebbe stata la confusione dei turisti; ma fino a Charkov: arrivati là, avremmo dovuto, proseguire, prendere accordi con le organizzazioni locali. Interessai un amico di Roma il quale a sua volta parlò con altri amici che telefonarono a Mosca: - Che venga intanto fino a Charkov, - dissero. Mi bastò quell'intanto, Si, perché non solo attraverso i loro poeti e i loro narratori, ma dal vivo, in Ucraina e in Russia Bianca, ma più ancora nei Lager tedeschi, avevo capito il loro animo. Tante cose vissute in comune con loro, la fame specialmente e l'amicizia soprattutto , non potevano cadere nel niente. Quando ogni cosa fu pronta mi decisi di parlare per telefono con il direttore del «Giorno». - Vado in Russia, sul Don, forse. Pubblicheresti qualcosa che vi potrei scrivere? Era di notte. Il mio cane abbaiò forte e festoso perché certo credeva che si andasse sulla montagna a galli: - Stai buono, - gli dissi, - per questa partenza non mi dispiace perdere il passo delle beccacce. Ma quando tornerò ne troveremo ancora qualcuna. In cucina, su tre fogli distinti, erano scritte le incombenze sotto ogni nome: uno doveva badare alle galline, al cane, all'orto (le api non avevano bisogno di nulla in questa stagione); uno alle pulizie della casa; uno a preparare il cibo per tutti. Pioveva, era notte fonda e mentre l'automobile ci portava giù per i tornanti della montagna per prendere il treno che da Torino arriva fino a Togliattigrad, pensavo alle altre mie partenze.

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