sabato 21 dicembre 2019

Nowo Postojalowka

Il campo di battaglia di Nowo Postojalowka... nel gennaio 2011 durante il mio primo viaggio in Russia, ci recammo in questa località ed un abitante del villaggio ci portò ai limiti del piccolo paese, proprio dove si trovava un grosso e vecchio granaio in cemento. Ci mostrò questo campo... era il campo di battaglia di Nowo Postojalowka fronte ad est; noi eravamo nel punto in cui erano schierate le forze russe e proprio dagli alberi che si vedono in fondo uscirono i reparti alpini della Cuneense. Al termine della battaglia il campo era pieno di corpi dei nostri soldati. I civili russi non poterono fare altro che caricare tutte le salme su dei carri e delle slitte per abbandonarli lontano dal paese e solo con il disgelo seppellirli in grosse fosse comuni.

La battaglia iniziò verso mezzogiorno del 19 gennaio, quando la colonna dell'8º Reggimento alpini della Divisione Julia si trovò la marcia sbarrata da ingenti truppe russe, asserragliate a Nowo Postojalowka, località formata da un piccolo gruppo di isbe situato sulla pista che le divisioni alpine in ritirata dovevano percorrere, su una dorsale che separa la valle del fiume Rossosch da quella dell'Oljkowatka, entrambi affluenti del Kalitwa prima della confluenza nel Don.

Partirono all'attacco prima il Battaglione Gemona, appoggiato dall'artiglieria del Gruppo Conegliano, poi i Battaglioni Tolmezzo e Cividale, ma gli attacchi degli alpini della Julia furono sempre respinti dalle truppe russe, che poi contrattaccarono con i carri armati.

Nella notte i battaglioni della Julia furono raggiunti dalla colonna del 1º Reggimento alpini della Divisione Cuneense e i comandanti concordarono di procedere prima dell'alba ad un nuovo attacco, che fu guidato dagli alpini del Battaglione Ceva, che furono respinti dalle artiglierie e dal contrattacco di alcuni carri armati russi.

Più tardi arrivarono gli altri battaglioni della Cuneense e i comandanti delle due divisioni, Emilio Battisti per la Cuneense e Umberto Ricagno della Julia, concordarono di procedere all'attacco della postazione russa con tutti reparti disponibili. Gli attacchi delle truppe alpine continuarono per tutta la giornata, ma furono sempre respinti dai cannoni e dalle mitragliatrici russe posizionate fra le case di Nowo Postojalowka e dalle incursioni dei carri armati sovietici T-34. Durante i combattimenti caddero eroicamente il comandante del Battaglione Mondovì, maggiore Mario Trovato, e quello del Ceva, tenente colonnello Giuseppe Avenanti, oltre a decine di ufficiali e migliaia di alpini.

Il generale Emilio Battisti, nella relazione "La Divisione Alpina Cuneense al fronte russo", scrisse: "Il giorno 20 gennaio, per rompere lo sbarramento nemico ... furono impiegati ... quattro battaglioni alpini che andarono quasi completamente distrutti."

Il generale Emilio Faldella, nella sua "Storia delle truppe alpine", così definisce la battaglia di Nowo Postojalowka: " ... quella sanguinosa, disperata battaglia che durò, pressoché ininterrotta, per più di trenta ore ed in cui rifulse il sovrumano e sfortunato valore dei battaglioni e dei gruppi della Julia e della Cunennse, che ne uscirono poco meno che distrutti". ... la più dura, lunga e cruenta fra le molte sostenute dagli alpini, sia in linea sia nel corso del ripiegamento."



Legione Leonessa

Nella prima fotografia la quota 195 tenuta dal 90° Reggimento di Fanteria della Divisione Cosseria; nella seconda la quota 192 tenuta dalla Legione Leonessa delle CC.NN.

L'11 dicembre 1942, nel settore tenuto dalla "Ravenna" iniziarono una serie di attacchi sovietici che posero in seria difficoltà il dispositivo italiano. I sovietici attraversarono in Don in diversi punti e il "Leonessa II" fu subito impiegato per tamponare il fronte presso Svinjuka nel settore della "Ravenna".

Il 12 dicembre furono in fretta richiamati i gruppi tattici delle CC.NN. "Valle Scrivia I", "Valle Scrivia II" e "Leonessa II" per aiutare a ristabilire la situazione nel settore della "Cosseria". Il mattino del 13 dicembre fu attaccata quota 192 provocando l'intervento dei reparti dislocati a Orobinski. Nel frattempo a Orobinski fu fatto affluire il "Leonessa I" come riserva della "Cosseria" mentre il "Leonessa II", che si era già dissanguato a Svinjuka a causa di un nuovo attacco dovette rinunciare ad essere avvicendato.

Il 14 dicembre, alle 8 del mattino il seniore Albonetti guidò il "Leonessa I", pur senza l'appoggio dei carri armati attaccò quota 192 tenuta dal 555º battaglione fucilieri sovietico e da una compagnia del 747° che furono costrette a ripiegare. Fu ripreso anche il momentaneo controllo di alcuni capisaldi limitrofi che furono poi abbandonati a causa dell'arrivo di truppe nemiche fresche. A mezzogiorno il 747º battaglione sovietico contrattaccò per tre volte le posizioni italiane sulla quota ingaggiando il "Leonessa" che alle 13.50 rimase padrone del caposaldo. Nel pomeriggio il "Leonessa I" respinse un nuovo assalto russo. Nel frattempo i resti del "Leonessa I", guidati dal seniore Comincioli dopo aver finalmente ricevuto il cambio, furono spostati a Orobinski anch'essi a disposizione della "Cosseria".

Il 15 dicembre, dopo aver fatto affluire forze fresche presso quota 192, i sovietici sferrarono un nuovo rapido attacco che portò alla conquista della posizione. Caddero negli scontri tutte le camicie nere che erano rimaste a difesa tra cui il capomanipolo Santinelli che per primo aveva raggiunto quota 192 il giorno precedente. Immediatamente fu disposto nuovamente l'impiego del "Leonessa I" per riconquistare il caposaldo e ad essi si aggiunsero anche il "Leonessa II" ricostituendo così il "Gruppo CC.NN "Leonessa"" al comando del console Graziano Sardu. I fanti della "Cosseria", insieme ai battaglioni del Gruppo CC.NN "Leonessa" per tutta la giornata portarono attacchi contro quota 192. Negli scontri caddero trenta camicie nere di cui otto ufficiali tra cui il seniore Comincioli.

Il 16 dicembre proseguirono gli attacchi italiani contro quota 192 e seppur contrastati dall'artiglieria e dall'aviazione sovietica a metà mattinata la quota era parzialmente riconquistata. Per tutta la giornata del 17 dicembre proseguirono gli scontri a quota 192 con le camicie nere che con l'appoggio di qualche carro armato della 27. Panzer-Division e dalla fanteria tentarono inutilmente di riprendere alcuni dei capisaldi limitrofi, ma la caduta in serata di Orobinski, occupata dai carri armati sovietici, determinò l'isolamento delle camicie nere che si dovettero rinchiudere a caposaldo. Il comando diramò l'ordine di ripiegare subito dopo la mezzanotte.



martedì 17 dicembre 2019

L'aurora a occidente

Sono i giorni dell'Operazione "Piccolo Saturno" e io tutti quei fantastici ragazzi li voglio ricordare con le parole di Mario Bellini in “L’aurora a occidente”: “Anche agli italiani va ricordato che le vicende dell'ARMIR hanno dimostrato l’eccezionale capacità di combattimento e il ferreo carattere del nostro soldato nei confronti di un alleato diffidente ed arrogante e di un nemico duro e spietato, quest’ultimo favorito dalle terrificanti condizioni ambientali e da una maramaldesca superiorità numerica e d’armamento. Il complesso d’inferiorità che si è impadronito degli italiani dopo la guerra perduta, sfociato a volte in vero masochismo, la morbosa auto colpevolizzazione spinta fino a considerare la sconfitta giusta punizione di errori commessi, li hanno portati a rifiutare l’immagine del nostro soldato, obbediente alle regole dell’onore militare e combattente duro e impavido. Gli italiani hanno privilegiato la diversa immagine del combattente tradito, impotente di fronte al nemico più armato, privo di motivazioni ideali; cioè l’immagine del povero cristo, tartassato dalla sventura e degno solo di pietà per le sofferenze subite. In sostanza si è rimossa l’immagine di un soldato della stessa statura dell’alleato e del nemico. Anche gli animi più sereni, infatti, hanno finito per ricordare nei fatti dell’ARMIR più il calvario della ritirata che il valore dimostrato nella resistenza accanita all'offensiva sovietica sulla linea del Don”.



lunedì 16 dicembre 2019

martedì 10 dicembre 2019

lunedì 9 dicembre 2019

Il quadrivio maledetto

Nell'ambito del prossimo trekking in Russia dedicheremo una prima giornata ad una visita dettagliata e ad una mappatura della zona di Selenyj Jar, il tristemente famoso "quadrivio maledetto".

"Qui il Battaglione L’Aquila, dopo la distruzione da parte di soverchianti forze russe, di alcune divisioni italiane, la Cosseria e la Ravenna, e di una tedesca, schierate a sud del C.A. Alpino, fu mandato in fretta e furia a chiudere la falla, che avrebbe avuto effetti disastrosi per tutto il C.A. Alpino e fu schierato nei pressi del quadrivio di Selenyj Jar. Se i Russi se ne fossero impadroniti, avrebbero potuto facilmente dilagare su Rossosch, città sede del comando del C.A. Alpino, e prendere alla spalle tutto lo schieramento alpino sul Don.

Per la conquista del quadrivio, dal 20 al 30 dicembre 1942, divampò una battaglia di inaudita violenza, che passò alla storia col nome di Battaglia di Natale, ma che i pochi reduci del battaglione chiamarono “Battaglia del quadrivio maledetto”. Il battaglione L’Aquila, col solo aiuto del Monte Cervino, seppe fermare gli attaccanti. Gli alpini abruzzesi, a costo di spaventose perdite, continuarono a difenderlo con i pochi resti del Monte Cervino e poi insieme con i battaglioni Vicenza e Val Cismon fino al 16 gennaio 1943, quando arrivò l’ordine di ritirarsi.

Il "quadrivio maledetto”, senza che gli attaccanti fossero riusciti a conquistarlo stabilmente, fu abbandonato insieme con le spoglie di tanti Eroi, che erano morti per difenderlo".

Cercheremo di identificare con precisione la quota 204,6 nei pressi di Ivanowka, dove il 22 dicembre 1942 furono ritrovati il corpo del tenente Rebeggiani e di tre alpini. I corpi dell'ufficiale e dei soldati erano stati colpiti da decine e decine di pugnalate. Avevano ancora i pugnali addosso.

giovedì 5 dicembre 2019

Le mappe dello CSIR e dell'ARMIR 2

Le mappe delle operazioni del CSIR e dell'ARMIR dal giugno 1941 all'ottobre 1942 - Spartizione delle regioni polacche in zona d'interesse tra il Reich e l'U.R.S.S.

lunedì 2 dicembre 2019

Rispetto

Veterano sovietico della Grande Guerra Patriottica dinanzi alla statua memoriale in ricordo degli eroi di Stalingrado, 1967.

Onore e rispetto per tutti i combattenti ed i caduti di tutte le parti. Chi non conosce e non capisce questi semplici concetti ed esprime il contrario su questa pagina viene semplicemente "allontanato".

sabato 30 novembre 2019

Lettera da un disperso...

Ciao mi chiamo Luigi, ma mi potrei chiamare Paolo, Giovanni, Andrea, Battista... sono uno dei tanti dispersi della campagna di Russia. Sono partito dall'Italia nel 1942 e non ci sono più tornato. Non importa se sono stato un volontario o un richiamato; se un fante o un alpino o un carrista o una camicia nera; se soldato o ufficiale; se ero in prima linea o nelle retrovie; se sono morto per una fucilata o per il freddo. Non importa questo.

Sono partito e non sono più tornato. I miei resti sono ancora qui sotto un metro di terra e nessuno mi ha più portato a casa. Ho lasciato la mamma, il papà ed una sorella più piccola. Non mi hanno più visto da quel giorno del 1942. Qualche lettera si ma niente altro. La mia famiglia ad un certo punto non ha più avuto mie notizie; hanno scritto, cercato, incontrato persone, ma nessuno li ha potuti aiutare. La mamma è morta, dopo qualche anno straziata dal dolore per aver perso suo figlio in Russia; il papà qualche anno dopo la mia mamma; mia sorella, mai conosciuta in vita, solo da qualche anno con una vita segnata dal lutto e dal vedere la sua famiglia distrutta.

Sono morto qui e non sono più tornato. Non so esattamente dove sono ora. I miei resti sparsi da qualche parte in Russia: ogni tanto vedo qualcuno che ci passa vicino, vorrei gridare per dirgli che sono qui sotto. Vorrei dirgli di scavare, di prendere i miei resti e di portarli a casa. Almeno quelli. Non c’è più nessuno che mi aspetta, ma sono partito dall'Italia e vorrei tornare in Italia. Ho saputo che qualche italiano, degno di questo nome, viene qui per cercare i nostri caduti, ma qui dove sono io non è mai venuto nessuno.

Non sono più tornato e non so dove sono. Qui d’inverno, come allora, fa tremendamente freddo; d’estate crescono i girasoli. Sono solo, anche se so per certo che vicino a me ci sono altri che non sono più tornati. Non li vedo, ma so che ci sono. Qui in Russia i campi sono pieni di altri ragazzi come me che non sono più tornati. Perché nessuno viene a prenderci?

So che diverse persone, poche a dire il vero, parlano ancora di noi e ci ricordano; ecco a loro chiedo di non dimenticarci, di continuare a farlo. Basta che ogni persona racconti la nostra storia ad un’altra più giovane per non farci morire ancora una volta, per tenere vivo il ricordo di tutti quei ragazzi che hanno dato tutto all'Italia e non sono più tornati. Raccontate a chi non conosce la nostra storia, cosa è successo, cosa abbiamo patito, perché non siamo più tornati a casa.

Io non sono più tornato…

giovedì 28 novembre 2019

Le mappe dello CSIR e dell'ARMIR 1

Le mappe delle operazioni del CSIR e dell'ARMIR dal giugno 1941 all'ottobre 1942 - Dalla zona di radunata al Donez e dal Donez al Don.

martedì 26 novembre 2019

L'inferno bianco di Tscherkowo

“Nella mattinata del 15 gennaio capimmo che era giunto il momento di abbandonare Tscherkowo con le forze e con i mezzi a nostra disposizione. Dopo qualche ora ci venne dato l'ordine di prepararci a lasciare la città. Per alcuni giorni la calma fu quasi completa. Questo faceva sperare che le forze russe avessero rinunziato a conquistare il caposaldo ed avessero proseguito oltre. Se questa sensazione era vera, dove si erano dirette? Ce le saremmo ritrovate davanti per impedirci di raggiungere le nostre nuove linee? O aspettavano una nostra sortita allo scoperto, nella steppa, per annientarci? Quando ebbi la certezza che la partenza era prossima indossai due mutandoni di lana, due maglie e la tuta mimetica; misi nello zaino qualche galletta e due scatolette di carne, alcune bombe a mano e proiettili per il fucile. I viveri li avevamo recuperati nella mattinata dai nostri magazzini controllati dai tedeschi e da loro frettolosamente abbandonati, non prima di avervi attinto tutto l'occorrente per la ritirata. Gli stessi tedeschi, avvisati prima di noi della probabile partenza, avevano anche provveduto a requisire per tempo tutte le slitte e gli animali da trasporto ancora in possesso dei civili residenti in paese. Nel frattempo fu impartito l’ordine di “far sparire” i prigionieri russi, caduti in mano nostra durante i combattimenti. Chi ebbe quest’ordine, non avendo il coraggio di ucciderli a sangue freddo, fece in modo da nasconderli in ricoveri sotterranei, salvando loro la vita. Alcuni di loro preferirono seguire le nostre truppe, piuttosto che attendere l'arrivo dei loro compagni d'armi. Non ebbero lo stesso trattamento i prigionieri caduti nelle mani dei tedeschi.

Oltre 1.200 feriti e congelati, per lo più italiani, vennero lasciati negli ospedali, assistiti da qualche medico militare. Non vi erano mezzi per trasportarli e si dovette abbandonarli al loro destino. La sera iniziò la ritirata. Noi italiani in condizioni di partire eravamo circa seimila, in parte truppe della difesa e dei servizi di corpo d’armata presenti a Tscherkowo ed in parte resti della Torino, della Pasubio e della Celere, sfuggiti alla carneficina di Arbusow. I tedeschi erano altrettanto numerosi. Dopo un’attesa nel gelo, che ci sembrò lunghissima, la testa della colonna iniziò la marcia, nell'oscurità e nel silenzio assoluto, dirigendosi in direzione sud-ovest. Ricordo che procedemmo a passo svelto lungo un percorso curvilineo a largo raggio. Le forze russe che ci sbarravano la strada, colte di sorpresa dalla nostra sortita, vennero sbaragliate dai pochissimi carri armati Tigre disponibili (quelli rimasti illesi nella sacca di Arbusow), seguiti da un battaglione di paracadutisti tedeschi, da circa 400 bersaglieri, giunti dall'Italia con una delle ultime tradotte, e da soldati ancora abili della Torino e della Pasubio. La temperatura, che dai 20 gradi sotto zero del giorno passava ai 40 della notte, continuava inesorabilmente ad abbassarsi. La neve all'esterno del paese, sulle piste non battute, era alta e rallentava il nostro cammino.

Ostacolati dai proiettili delle artiglierie e delle katjusce russe che piombavano a casaccio sulla colonna e specialmente sugli ultimi gruppi della retroguardia, illuminandola con lampi e bagliori, nella notte superammo due villaggi in fiamme: Yassnyi Promin e Yeshatschyn. Isbe e magazzini bruciavano; noi marciavamo avvicinandoci ai roghi per godere, per qualche decina di metri, del tepore delle fiamme. Dopo molte ore di cammino nel buio apparvero i primi chiarori del giorno: il percorso che si presentava davanti a noi, per chilometri e chilometri, era un’immensa distesa di neve e di ghiaccio. Sulla pista si udiva monotono lo scricchiolio dei passi. Si faceva sentire la stanchezza che ci avvolgeva tutti. Le membra intirizzite cominciavano a non reggere il passo, ma non c’era alternativa: l’unica cosa da fare era marciare, marciare, andare avanti sui biancori lividi della neve. Nella notte avevo perso i compagni con i quali avevo vissuto la dura esperienza della trincea; qualcuno uscendo da Tscherkowo, mentre cercavamo di superare il fuoco nemico, altri perché si erano attardati lungo il cammino o vicino ai falò. Non saprò mai se sono sopravvissuti o se sono morti durante quella marcia. Ero rimasto a solo e potevo contare solo sulle mie forze, anche se avevo intorno a me altre migliaia di soldati nella stessa situazione. Se fossi stato ferito dal nemico, se fossi rimasto congelato o stremato dalla stanchezza nessuno, dietro di me, mi avrebbe aiutato o curato. E se fossi caduto in mano ai russi, avendo avuto l’esperienza di come loro stessi venivano mandati a morire negli assalti alle nostre linee, non ci sarebbe stata ugualmente alcuna possibilità di sopravvivenza. La mattina del 16 raggiungemmo un altro paese, stavolta non incendiato, Losowaja, dove speravamo di poter riposare per qualche ora. Non ricordo di aver visto civili russi, forse erano stati portati via prima del nostro arrivo oppure erano ben nascosti in qualche isba o rifugio sotterraneo. Fummo anche qui oggetto di un furioso bombardamento: vi erano esplosioni ovunque e non era possibile fermarsi. Ci sparpagliammo sulla pista innevata e, cercando protezione dietro qualsiasi riparo o fosso, continuammo a camminare in direzione di Berosowo. Qui i carri armati russi ci attendevano appostati sulle colline limitrofe, per bloccare con cannoneggiamenti e sventagliate di mitragliatrici l’avanzata della colonna. Per evitare una carneficina si deviò per Petrowski, dove incontrammo altre forze corazzate nemiche, più numerose, che ci procurarono consistenti perdite. Ero a circa tre-quarti della colonna e un po’ distante da essa, quando improvvisamente apparvero due carri armati T34, che divisero il nostro gruppo, mitragliando e schiacciando gli innocenti che incontravano lungo il percorso. Scomparvero poi nella steppa così come erano apparsi. Con il nostro moschetto e le bombe a mano nulla potevamo contro questi mostri d’acciaio, né potevamo aiutare gli sfortunati che erano stati feriti nell'agguato.

Il vapore del respiro, condensato dal freddo polare, si trasformava poco a poco in minutissimi ghiaccioli che incrostavano ciglia e sopracciglia. I corpi assiderati o feriti a morte dai russi, distesi ai margini della pista, infondevano nuova forza a noi che resistevamo e lottavamo, braccati come bestie. Eravamo morsi dal freddo, avevamo lo stomaco attanagliato dalla fame, i piedi fradici: le suole delle scarpe si aprivano al contatto con il ghiaccio della steppa. I russi, invece, calzavano i valenki, stivali a feltro spesso, che coprivano gli arti fino al ginocchio, elastici e flessibili. Qualcuno di noi era riuscito a recuperarli per sé, barattandoli con razioni di cibo o con l’orologio da polso, molto apprezzato dai civili russi. Era stato invece impossibile toglierli ai soldati caduti negli assalti perché i corpi privi di vita diventavano in pochissimo tempo un unico blocco di ghiaccio. Ad ogni isba incontrata per strada nascevano dispute tra coloro che volevano entrare, anche solo qualche minuto, per risollevarsi dal freddo e dalla stanchezza, e coloro che, inverosimilmente stipati all'interno, non permettevano l’ingresso. Stravolti, esseri irriconoscibili coperti di stracci, ci davamo da fare per resistere e non lasciarci cadere, perché questo avrebbe comportato la nostra morte. Ci si dissetava con la neve che facevamo sciogliere in bocca, l’unico ristoro che potevamo permetterci. Ad ogni nostro passo la neve arrivava a metà gamba, ci affondavamo dentro. Un vento gelido toglieva a tutti il respiro. Anche il passamontagna ci dava fastidio, perché si trasformava in una rigida maschera di ghiaccio. Con altri compagni di viaggio, incontrati casualmente e puntualmente persi dopo qualche chilometro di strada, ci tenevamo in fila indiana a cento-duecento metri di distanza dalla moltitudine in cammino, nella speranza di sfuggire ai colpi della katjuscia. Eravamo meno soggetti all'artiglieria nemica, ma risultavamo bersagli più facili per i cecchini, che di tanto in tanto ci prendevano di mira, nascosti lungo il percorso dietro mucchi di neve, in pagliai o in qualche isba bruciata. Ho visto crollare a terra, morto, un soldato che camminava qualche metro davanti a me; fu soccorso subito, ma inutilmente, da un compagno d'armi che non poté far altro che prendergli il portafoglio e la piastrina con la speranza di sopravvivere per poterli, un giorno, consegnare ai suoi superiori o ai parenti in Italia. C’erano soldati con i piedi in cancrena, altri con schegge o pallottole in corpo, con gli occhi annebbiati o sbarrati, che andavano avanti piegati in due, le braccia penzoloni, trascinandosi lentamente nella neve. Tutti proseguivamo, sempre avanti, lungo quella pista di ghiaccio, con una grande voglia di vivere, spinti dalla forza della disperazione. Quelli a cui veniva meno anche quest’ultima risorsa, annientati nel corpo e nello spirito, si fermavano in mezzo alla neve, cadevano, si rialzavano per poi ricadere e non alzarsi mai più.

La marcia continuò ancora nella giornata del 16. Ai margini della colonna continuavamo ad affondare nella neve fino al polpaccio. Era praticamente impossibile distinguere a quale divisione appartenessero le ombre di uomini, non più soldati, che come me cercavano disperatamente di portare in salvo la pelle. Lungo il percorso ci imbattevamo, oltre ai poveri esseri umani privi di vita, in cavalli impazziti che trascinavano slitte sfasciate e in una miriade di oggetti abbandonati: zaini, fucili, bombe a mano, cassette di munizioni. Verso nord sentivamo colpi di mortaio e vedevamo lampi all'orizzonte. A metà giornata fummo di nuovo sotto i colpi della katjuscia. La questa confusione era enorme: paurosi vuoti si aprivano nella colonna. Improvvisamente la colonna si fermò. I russi cercavano ancora una volta di sbarrarci la strada. La colonna sembrò disgregarsi, perché in tanti cercammo di sparpagliarci per evitare il fuoco nemico. Dopo un certo lasso di tempo, capimmo che alcuni carri armati avevano tentato di intralciare il nostro cammino, ma, per fortuna avevano rinunziato, consentendo alla colonna di riprendere la marcia. Ai margini della via assistevamo, sempre più spesso, ad uno spettacolo atroce: vedevamo soldati assiderati, congelati, con le mani rattrappite e le mandibole bloccate dal freddo. Alcuni di loro cadevano in ginocchio e così restavano, inchiodati dal gelo che li tratteneva in quella posizione. Erano centinaia i soldati sfiniti che rimanevano a terra e che poco a poco sparivano, definitivamente ricoperti dalla neve. Altri chiedevano aiuto. Per loro, purtroppo, non c’era scampo e noi non potevamo fare nulla per aiutarli.

Era tutto così inverosimile: ognuno doveva pensare a sé. Del resto, era impossibile aiutare gli altri quando non si avevano forze nemmeno per se stessi. Si insinuava nella nostra mente il desiderio di fermarsi e finalmente lasciarsi andare ad un breve effimero riposo, preludio dell’assideramento. Era sopraggiunto il buio della notte tra il 16 ed il 17 ed il freddo intenso, che penetrava nelle ossa, continuava a mietere vittime in modo inesorabile. In lontananza vedemmo un grande incendio, sicuramente un altro villaggio in fiamme. Continuavo a vedere ai margini del nostro cammino, sempre più numerosi, cadaveri che giacevano sul ghiaccio, alcuni caduti in ginocchio e rimasti congelati. Raggiunto il punto da cui partivano i bagliori constatammo che era un altro villaggio abbastanza esteso che i russi, prima che vi giungessimo, avevano dato alle fiamme per impedirci di riposarvi nella notte. Senza soffermarci troppo a lungo cercammo di trarre qualche sollievo in quell'inferno di fuoco e di rovine fumanti. Ormai ci aspettavamo, da un momento all'altro, di essere catturati dai Russi. Ci spaventava più la cattura che la morte, vista come una liberazione dalle immani sofferenze che stavamo patendo. Eravamo ormai forza amorfa senza armi e munizioni, fatta eccezione per qualche bomba a mano. Anche io avevo da poco abbandonato il fucile, maledettamente pesante, perché sentivo che la forza fisica scemava sempre più. Quel paese era Strezolwka, luogo da cui raggiungemmo la pista per dirigerci a Belowodsk. Terribile fu il tragitto successivo, che venne percorso dalla nostra colonna sotto un intenso bombardamento russo. Molte furono le vittime, tanto che quel tratto di strada fu da noi definito la strada della morte. Proseguimmo in direzione di uno sperone collinoso con lento incedere, colti da un senso di fatalità, non preoccupandoci dei proiettili che esplodevano ovunque attorno a noi. Camminammo in salita, su quella pista completamente ghiacciata. Davanti a me decine di soldati scivolavano sulle lastre ghiacciate, restando impietriti nella neve; molti altri cadevano colpiti dal fuoco nemico. Superata la cresta della collina sentimmo allontanarsi pian piano i sibili e i colpi dei proiettili russi, che continuavano a bersagliare la coda della colonna. Improvvisamente tutto si acquietò, non si sentivano più le esplosioni che per giorni e giorni erano state il nostro tormento. Cominciò a circolare qualche voce ottimistica: presto saremmo stati in salvo oltre le linee tedesche. Così, resistendo ancora al gelo ed alla stanchezza, continuammo lentamente la marcia, che sembrava non aver termine, nella steppa ondulata ma sempre uguale. Ancora nessun segno degli avamposti tedeschi, ma neanche dei russi. Dopo aver superato la sommità dello sperone, la colonna si era divisa in due tronconi per rendere più complicati eventuali altri attacchi nemici, inoltrandosi su diverse piste, sempre verso occidente.

Eravamo su un falsopiano che rendeva faticoso il cammino, quando all'improvviso si presentò davanti a noi qualcosa di inaspettato: nel buio, seminascosti in buche profonde di neve e di ghiaccio, intravedemmo due carri armati tedeschi, superbi, imponenti, con i cannoni puntati finalmente verso oriente. Dalle torrette i Tedeschi ci facevano segno di proseguire e di muoverci il più velocemente possibile. Non ci rendemmo immediatamente conto della realtà a cui andavamo incontro; poi, arrivando vicino ai carri armati, capimmo che essi potevano effettivamente averci aperto un varco verso la salvezza. Nessuno in quel momento gioì, memori di Tscherkowo, dove in molti provenienti da Arbusow avevano creduto di essere fuori dalla sacca, speranza rivelatasi una vera illusione. I tedeschi ci urlavano: «kommen, kommen!»: «venite, venite!». Appena compreso che non era un'allucinazione, esultammo. Eravamo stanchi morti, ma l'essere usciti dalla sacca ci dette forza ed energia. Eravamo finalmente fuori da un angoscioso e terribile accerchiamento durato oltre un mese e le gambe, fino a quel momento bloccate, sembravano aver ripreso vigore".

Quasi 10 anni di viaggi e...

Quasi 10 anni di viaggi in Russia e oltre 150 località mappate e verificate sul campo (fosse comuni, cippi, trincee, ecc.): questo è il mio piccolo patrimonio che mi sono costruito anno dopo anno e il mio piccolo contributo per non dimenticare!

sabato 23 novembre 2019

A due mesi dalla partenza

Gennaio 2020... eccomi a quasi due mesi dalla partenza per un nuovo trekking nell'inverno russo dal Don a Nikolajewka. Insieme ad Alessandro, Andrea 1, Andrea 2, Carlo, Christian, Gabriele, Gian Luca, Giuseppe, Lorenzo, Marco, Massimo, Paolo, Raffaele, Roberto e Stefano, tutti ex alpini tranne il sottoscritto, affronteremo questa nuova esperienza. Quando racconto dei miei viaggi e delle motivazioni che mi spingono, anno dopo anno, a tornare in quei luoghi, qualche persona mi osserva stranito, quasi a considerarmi fuori dal mondo. Perché tornare ancora una volta quei luoghi dove c'è solo neve e freddo? Perché è l'unico vero modo che abbiamo per capire, lontanamente capire.

giovedì 31 ottobre 2019

Serata a San Vittore Olona

Venerdì 8 Novembre alle ore 21.00 a San Vittore Olona (MI) racconterò la storia della Campagna di Russia ma soprattutto proverò a trasmettere le emozioni provate durante i miei numerosi viaggi in Russia.

mercoledì 23 ottobre 2019

El Alamein

Qui si parla quasi esclusivamente di Russia e dei ragazzi che la furono mandati. Ma oggi per me un grande e grosso abbraccio virtuale va a tutti i ragazzi di El Alamein.

sabato 12 ottobre 2019

Ripartenza

Ed eccomi ancora in partenza per un nuovo trekking nell'inverno russo. Ancora una volta ci avvicineremo il più possibile a LORO, cercheremo pur lontanamente di capire ed onorare il loro sacrificio. Dal 18 gennaio al 27 gennaio 2020 per un trekking che ci porterà da Podgornoje fino a Nikolajewja passando da Rossosch, Quadrivio di Selenyj Jar, Opit, Postojaly, Scheljiakino, Warwarowka, Nikitovka. Abbiamo un solo posto disponibile solo ed esclusivamente per persone motivate e decise. Se interessati a vivere un'esperienza unica contattatemi in privato.

venerdì 11 ottobre 2019

Serata a Susegana

Sabato 26 ottobre alle ore 20.15 saremo ancora una volta tutti insieme, a Susegana, per raccontare il nostro viaggio ma soprattutto per ricordare tutti quei ragazzi che non sono tornati. Sono passati quasi due anni da quel viaggio ma non perdiamo occasione per ritrovarci insieme e cercare di trasmettere a chi non c'è mai stato, quelle sensazioni che ci hanno accompagnato in quella terra lontana. Vi aspettiamo per una serata all'insegna del ricordo e del più profondo rispetto per chi non è ritornato.

venerdì 27 settembre 2019

Patto Molotov-Ribbentrop

Quale appassionato di storia e amante della verità, SEMPRE E COMUNQUE, segnalo l'importanza storica della "Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 sull'importanza della memoria europea per il futuro dell'Europa" in cui viene affermato tra l'altro che "sottolinea che la Seconda guerra mondiale, il conflitto più devastante della storia d'Europa, è iniziata come conseguenza immediata del famigerato trattato di non aggressione nazi-sovietico del 23 agosto 1939, noto anche come patto Molotov-Ribbentrop, e dei suoi protocolli segreti, in base ai quali due regimi totalitari, che avevano in comune l'obiettivo di conquistare il mondo, hanno diviso l'Europa in due zone d'influenza".

Questo il link http://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2019-0021_IT.html.

sabato 7 settembre 2019

Diario di viaggio, giorno 7

7 SETTEMBRE - Le fosse di Uciostoje. Quello che non doveva essere pubblicato è stato pubblicato e successivamente rimosso per rispetto verso i parenti dei caduti e anche verso i russi che tanto ci hanno sempre aiutato. Ma in oltre 30 anni di letture e studi sulla Russia e dopo 8 anni di viaggi in queste località MAI avevo visto quello che ho visto in questo giorno. Un conto è leggere un conto è vedere a mezzo metro di distanza. Per giorni ho avuto davanti agli occhi quelle immagini. Ora pubblico solo alcune immagini delle fosse comuni.





Diario di viaggio, giorno 7, Tambov

7 SETTEMBRE - Il lager di Tambov... tutto quel che resta dei ricoveri nel terreno.

Diario di viaggio, giorno 7

7 SETTEMBRE - Il lager di Tambov... quelle che sembrano delle grandi buche nel terreno non sono altro che i resti delle "baracche" nelle quali vivevano e morivano i prigionieri. Un pavimento di terra, un tetto di terra, delle pareti di terra a delle temperature che spesso arrivavano a meno 40 gradi. Giorno dopo giorno, notte dopo notte, con i tuoi compagni che muoiono come mosche.



Diario di viaggio, giorno 7, Tambov

7 SETTEMBRE - Il lager di Tambov... Nel bosco fra le varie lapidi a ricordo dei caduti italiani, tedeschi, rumeni, ungheresi, francesi, ecc. ci stiamo avvicinando ai resti di quelle che erano le baracche del campo.

Diario di viaggio, giorno 7, Tambov

7 SETTEMBRE - Il lager di Tambov... Camminare sui morti... è questa la sensazione che ho sempre provato durante i miei viaggi in Russia. Qui a Tambov è sempre tutto più accentuato.

Diario di viaggio, giorno 7

7 SETTEMBRE - Il lager di Tambov... In questo campo di 23 mila prigionieri, dal novembre 1942 al giugno 1943 rimasero solamente in 3400. Di settemila alpini della divisione Julia ne rimasero appena milleduecento. Il comando del campo era stato dato ai rumeni che bastonavano e mandavano al lavoro anche i malati. Anche nel ’44 il campo non era fornito di medicine adatte e anche il vitto era insufficiente. In questo campo, dopo la venuta degli alpini, la diarrea e il tifo petecchiale hanno infierito ed ogni giorno nel ’43 ne morivano a centinaia. Vi furono episodi di cannibalismo. Nel febbraio del ’44 esisteva un solo campo suddiviso in zone comunicanti. Era un campo di smistamento: in questa data vi erano duemila prigionieri e nel giugno-luglio ne sono rimasti duecento in totale perché furono smistati e inviati in altre località. Nell'agosto del ’44 vennero qui portati 2.018 italiani liberati dai russi a Minsk. Di questi ne morirono trecento di cui quaranta ogni mese nel periodo invernale per dissenteria, malattie polmonari, distrofia.















venerdì 6 settembre 2019

Operazione Barbarossa

Ogni volta che si parla di Russia e dell'Operazione Barbarossa, anche su questa pagina, molti approfittano dell'occasione per schierarsi da una o dall'altra parte, contro o a favore delle nostre truppe invasori, contro o a favore dei russi invasi. Io penso al contrario che, indipendentemente dal proprio pensiero, la storia debba sempre essere raccontata per quella che è: la narrazione storica deve sempre essere VERA anche quando non fa piacere e va contro i nostri ideali e pensieri. E questo va fatto per rispetto di tutte quelle persone che da una parte e dall'altra hanno sacrificato tutto per il loro paese e magari per un ideale, seppur sbagliato, ma nel quale credevano. Con questo non si vogliono assolvere le colpe dei singoli ma essere sempre e solo OBIETTIVI sui fatti. Spesso e personalmente ho assistito o partecipato a conferenze, incontri e convegni storici durante i quali l'interlocutore di turno ha "tirato per la giacca" la storia da una parte o dall'altra per convenienza o per promuovere o screditare una tesi. Trovo ciò inaccettabile. Ho al contrario apprezzato e ammirato il Dottor RICCARDO MAFFEI per la sua obiettività e capacità di esposizione, durante una delle presentazioni alle quali ho partecipato come protagonista, insieme a miei cari amici, del nostro trekking nell'inverno 2018. Per questo INVITO VIVAMENTE tutte le persone a leggere la sua presentazione integrale che qui riporto per sua gentile concessione.

Chi è Riccardo Maffei? Ricercatore indipendente. Già collaboratore della Domus Mazziana di Pisa e dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Lucca, è autore di numerosi saggi sulla storia contemporanea di Pescia e sulla storia del XX secolo.

Una campagna fatale - Russia: 1941-43, Dottor Riccardo Maffei. Premessa metodologica: Quale campagna di Russia? Riflessioni sul conflitto tedesco-sovietico tra immaginario collettivo e controversie storiografiche.

Il 22 giugno 1941 la Germania nazionalsocialista di Adolf Hitler attaccò l'Unione Sovietica di Jozif Stalin sulla base dei piani contenuti nella direttiva n. 21, meglio nota come Operazione Barbarossa, con l'obiettivo di annientare il bolscevismo e ristrutturare radicalmente con metodi brutali i territori conquistati fino al fiume Volga come previsto dal cosiddetto Generalplan Ost. Pochi giorni dopo l'aggressione l'Italia fascista di Benito Mussolini seguì l'alleato perché “non poteva essere assente da una guerra anticomunista”, come dichiarò il duce. La guerra, dopo gli iniziali clamorosi successi, prese un'altra piega. Il 25 luglio 1943 il fascismo crollò sotto il peso di un conflitto al quale non era in grado di far fronte. Il 30 aprile 1945 Hitler si suicidava mentre l'Armata Rossa combatteva tra le rovine di Berlino contro ciò che restava dell'esercito tedesco. La guerra sul fronte orientale si era ritorta contro gli aggressori trasformandosi in un enorme carnaio e aprendo le porte alla sconfitta dei regimi che l'avevano scatenata.

Con la fine della guerra la vittoria sovietica contro la Germania assunse un significato addirittura epico e leggendario poiché simboleggiava la superiorità del comunismo, l'indispensabile apporto del regime staliniano alla coalizione antifascista, sanzionava la criminale condotta della guerra da parte dei nazi-fascisti ma, soprattutto, il carattere provvidenziale delle politiche staliniane, che avevano reso l'Urss in grado di resistere ai colpi delle armate hitleriane senza crollare su se stessa. La condotta criminale della guerra da parte della Germania nazionalsocialista fu stigmatizzata e illustrata durante il processo di Norimberga.

Lontano dai campi di battaglia e dalle aule del tribunale di Norimberga, ma non dalle polemiche della guerra fredda, gli storici iniziarono a ricostruire, con i documenti alla mano (fino al 1991 principalmente sui documenti tedeschi), gli eventi proponendosi di riesaminare le cause e le origini della guerra tedesco-sovietica del 1941-45. Il loro lavoro iniziò a scontrarsi con le reticenze dei governi, con le memorie divise di vincitori e vinti, con le strumentalizzazioni dettate dal realismo politico (Realpolitik) nonché col mito, assai potente nel secondo dopoguerra, dell'Urss come nazione che aveva distrutto il nazismo e “liberato” gran parte dell'Europa centro-orientale.

Già al tempo del processo di Norimberga un selezionato gruppo di ufficiali anglo-americani, coadiuvati da francesi e sovietici, ebbe la possibilità di esaminare gli archivi tedeschi e di interrogare militari e civili, gerarchi e gregari tedeschi preparando, a tempo di record, il materiale che avrebbe sostanziato le accuse del tribunale militare internazionale. La pubblicazione degli atti processuali fornì alla comunità internazionale degli storici una prima documentazione sulla condotta della guerra e della diplomazia da parte dell'Asse. Lo stesso avvenne a Tokyo con il processo contro i leader politici e militari del Giappone imperiale. Anche in questo caso la documentazione raccolta fu pubblicata e resa disponibile al pubblico e agli storici.

Ovviamente, non tutto venne reso accessibile agli storici e per decenni il materiale catturato dagli alleati negli archivi ministeriali dell'Asse fu posto lontano da occhi indiscreti in attesa che le procedure burocratiche e il trascorrere del tempo rendessero tali carte consultabili e/o innocue. Già con le prime fasi della guerra fredda parte di questo materiale venne usato a fini propagandistici, come nel caso della pubblicazione – da parte del governo statunitense – dei documenti provenienti dagli archivi diplomatici tedeschi relativi alle relazioni tedesco-sovietiche tra il 1939 ed il 1941. Fu in tale occasione che venne resa nota l'esistenza del protocollo segreto stipulato tra Berlino e Mosca per la spartizione dell'Europa orientale alla vigilia dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Ovviamente Mosca negò l'esistenza del documento e pubblicò una contestazione formale dei documenti divulgati dagli Stati Uniti, accusati di falsificare la storia.

Nonostante la restituzione dei documenti catturati e microfilmati dagli alleati alle nazioni sconfitte e la pubblicazione dei documenti diplomatici tedeschi, a cura di una commissione storica internazionale, ciò che era avvenuto sul fronte orientale restò una materia incandescente per gli storici e vincolata a veti, censure e ricostruzioni di parte. Soltanto lentamente, man mano che i documenti venivano pubblicati o resi accessibili negli archivi, era possibile per gli storici precisare, delineare, ricostruire criticamente le dinamiche degli eventi e potersi così confrontare con la memorialistica e le ricostruzioni interessate circolanti allora.

Di tutti gli archivi esistenti gli unici ad essere rigorosamente chiusi, ad eccezione dei pochi storici autorizzati e vincolati a non citare indicazioni o riferimenti al materiale consultato oltre ad essere graditi al regime comunista, erano proprio quelli dell'Urss. Proprio nell'Unione Sovietica la vulgata stalinista rimase imperante fino al XX congresso del partito (1956). Secondo tale versione Stalin aveva stipulato un patto con il dittatore tedesco per assicurare la pace al proprio Paese, del tutto impreparato ad una guerra moderna e proteso nell'epico sforzo della costruzione del comunismo, e non per altre ragioni. Quando Hitler violò il patto aggredendo proditoriamente l'Urss, il dittatore sovietico chiamò il popolo alla Grande guerra patriottica (così i sovietici chiamavano la Seconda guerra mondiale) guidandolo, con la propria indiscussa abilità e infallibilità, alla vittoria finale sul fascismo tedesco. Contrastare tale vulgata era praticamente impossibile, anche perché farlo significava esporsi all'accusa di propaganda antisovietica con le conseguenti sanzioni penali. Inoltre la versione ufficiale sovietica, nella sua forma stalinista, ometteva o distorceva deliberatamente i fatti affinché potessero inserirsi in una ordinata versione ufficiale degli eventi storici. L'Urss non aveva firmato alcun protocollo segreto con Berlino nel 1939, gli ufficiali polacchi trucidati a Katyn nel 1940 erano state vittime degli aggressori tedeschi l'anno successivo e così via.

Soltanto con l'avvento di Mikhail Gorbacëv tali macroscopiche negazioni della verità storica furono abbandonate e gli archivi sovietici iniziarono ad aprirsi agli studiosi. Quando, in un passaggio centrale del celebre rapporto segreto, Nikita Chruščëv dichiarò non veritiera la versione staliniana in merito alle relazioni con la Germania nazista e, ancora più importante, alle prime settimane della guerra, nel giugno del 1941, apriva le porte, forse inconsapevolmente, alla prima rivoluzione storiografica nell'Urss ad opera di una giovane generazione di storici, molto spesso militari e reduci della Grande guerra patriottica, desiderosi di capire e illustrare le ragioni della catastrofica direzione delle prime fasi del conflitto sovietico-tedesco.

D'altra parte agli inizi degli anni Sessanta in Unione Sovietica si ebbe un risveglio storiografico che rappresentava in parte il riflesso della destalinizzazione ma, soprattutto, costituiva la presa di coscienza di una generazione di storici che avevano vissuto e combattuto direttamente la Grande guerra patriottica e volevano chiarire, prima di tutto alla propria coscienza, le dinamiche della disastrosa condotta della guerra nelle fasi iniziali, subito dopo l'aggressione tedesca nell'estate del 1941. Sicuramente il libro di Aleksandr Nekrič, 1941, 22 ijunja, nel 1965 rappresentò il punto più elevato dalla riflessione storiografica su questi aspetti rimettendo in discussione i dogmi della vulgata storiografica stalinista. Sfortunatamente per il suo autore, la pubblicazione del libro coincise con l'inizio della stagnazione brezneviana e la parziale riabilitazione della figura di Stalin, come salvatore della patria socialista. Ben presto il libro fu aspramente criticato e il suo autore sottoposto ad una continua persecuzione che lo spinse ad emigrare all'estero.

Sempre alla metà degli anni Sessanta alcuni storici tedeschi, sulla base della documentazione disponibile in Occidente, ponevano in dubbio le motivazioni di Stalin e dell'Urss in relazione al patto di non aggressione, sottolineando il ruolo svolto da esso nello scatenamento della Seconda guerra mondiale. Ancora più tragica fu la sorte dello storico militare Pavel Grigorenko, titolare di una cattedra presso l'Accademia militare Frunze, che oltre a criticare lo stalinismo di ritorno scrisse un volume sugli errori di Stalin durante il conflitto mondiale ottenendo in cambio dal regime l'internamento in un ospedale psichiatrico. I casi di Nekrič e Grigorenko costituirono il limite oggettivo del processo di destalinizzazione storiografico e della critica dell'operato di Stalin durante la Seconda guerra mondiale in Unione Sovietica.

Soltanto con l'inizio della perestrojka fu possibile riprendere il cammino così bruscamente interrotto dalle autorità. Nel mondo occidentale la ricchezza del materiale archivistico, purtroppo limitata unicamente alle fonti occidentali (gli archivi sovietici erano ben sigillati), e la pubblicazione dei documenti tedeschi, in lingua originale – i famosi Akten zur deutschen auswärtigen Politik – avevano prodotto una mole notevole di studi storici in grado di fornire un quadro complessivo della guerra sul fronte orientale e più in generale sui rapporti tra Mosca e Berlino a partire dalla fine della Prima guerra mondiale nelle principali lingue (inglese, francese e tedesco). Certo si trattava di una storia monca poiché la chiusura degli archivi sovietici e la pubblicazione assai limitata dei documenti sovietici – in una serie denominata Vnešnjaja politika SSSR – non consentivano di disporre di un quadro più articolato e in grado di coinvolgere tutti gli attori storici.

Tuttavia anche in queste condizioni si era creata una ampia divisione storiografica tra Occidente ed Oriente. Se gli storici occidentali avevano ricostruito (sia pur con fonti parziali, quelle tedesche e italiane) i rapporti tra Berlino, Roma e Mosca durante gli anni Venti e Trenta rivelando l'estrema cordialità di tali relazioni nonostante l'antagonismo ideologico esistente tra i regimi (capitalistico, fascista, nazionalsocialista e comunista), Mosca continuava a negare che tali rapporti avessero avuto tali caratteristiche badando bene a tenere chiusi i propri archivi agli storici occidentali.

Ancor più complicata era la storia delle relazioni tedesco-sovietiche tra la firma del Patto Molotov-Ribbentrop (dai due responsabili della politica estera) e l'aggressione del giugno 1941. Gli storici tedeschi e occidentali in genere disponevano di prove documentali inoppugnabili sull'alleanza informale tra Stalin e Hitler simboleggiata non solo dai protocolli segreti, ma soprattutto dalla continua opera di assistenza economica e, sebbene parzialmente, anche militare tra i due Paesi mentre Hitler conduceva la guerra contro le potenze occidentali. Su questi aspetti i documenti occidentali erano inequivocabili sebbene non fossero disponibili quelli sovietici. Restava però un ampio ventaglio di interpretazioni sul perché Stalin avesse scelto una siffatta strategia; su questo aspetto gli storici elaborarono risposte complesse e assai diversificate.

In Italia, per venire al nostro Paese, dopo una prima fase di diffusa memorialistica (non sempre storicamente accurata) e dei primi lavori storiografici sulla campagna di Russia degli italiani gli storici iniziarono a concentrarsi sul complesso rapporto esistente tra Roma e Mosca prima con gli ultimi governi liberali e poi sotto il fascismo. Scoprendo una realtà sempre taciuta e dimenticata. Per quanto riguarda la campagna di Russia si preferì dare la colpa al duce e al fascismo dimenticando le complicità dei vertici militari che contribuirono a precipitare i soldati nella catastrofe. Certo si devono fare le debite differenze perché ci furono storici molto attenti nel ricercare e documentare tali aspetti negletti. Tuttavia, così come in Germania, anche in Italia resistette a lungo la leggenda popolare secondo la quale i crimini erano stati compiuti unicamente dalle SS mentre la Wehrmacht e il Regio Esercito avessero combattuto una guerra onorevole. Nel nostro Paese inoltre la leggenda assai consolatoria ma del tutto imprecisa sul piano storico degli italiani brava gente impedì per anni qualunque analisi dei crimini di guerra e delle complicità poste in atto durante la campagna di Russia.

L'esplodere in Germania della cosiddetta Historikerstreit (controversia tra storici) consentì di far emergere a livello accademico e dell'opinione pubblica queste anomalie ricordando il ruolo svolto dalle truppe regolari tedesche nei crimini di guerra sul fronte orientale e a sottolineare come ad Est la guerra assunse forme di incredibile brutalità e sconosciuta ferocia. In particolare la tesi propugnata da Ernst Nolte sul nazismo come “reazione difensiva” ai crimini del comunismo sovietico con l'adozione di mezzi simili e cioè che in fondo Auschwitz era successivo al gulag venne aspramente criticata dal filosofo e sociologo Habermas, secondo il quale proprio il fatto che il nazismo avesse adottato metodi terroristici e azioni criminali dimenticando i secoli di civilizzazione di cui la Germania aveva beneficiato (a differenza della Russia ben più arretrata) costituiva non una scusante ma semmai un'aggravante del proprio comportamento. Ciononostante alcuni studiosi occidentali iniziarono a sostenere tesi sempre più audaci sulle intenzioni aggressive di Stalin arrivando perfino a postulare l'esistenza di un piano offensivo sovietico per la diffusione del comunismo fuori dai confini dell'Urss.

Il dibattito che si svolse nella seconda metà degli anni Ottanta aprì anche una grande stagione di studi sui crimini di guerra tedeschi nei successivi due decenni e che interessò anche i crimini compiuti nel nostro Paese, dopo la caduta del fascismo. La conclusione della Historikerstreit anticipò di poco il crollo del comunismo e la fine dell'Unione Sovietica dove l'apertura degli archivi rappresentò una grande opportunità per gli storici di tutto il mondo, ma soprattutto per quelli russi ormai privi di vincoli ideologici e censori al proprio lavoro scientifico. Proprio l'assenza di vincoli di qualunque tipo e l'apertura improvvisa degli archivi consentì ad una serie di storici russi di dar vita ad una controversia storiografica, alla quale furono costretti anche gli storici occidentali prendendo posizione in proposito.

Anticipato dalle dichiarazioni sensazionali ma prive di riscontri archivistici di Victor Suvorov [Vladimir Rezun] – un ex agente operativo dei servizi segreti militari sovietici riparato in Occidente – nel suo "Il rompighiaccio", il dibattito dilagò proprio attorno alle politiche di Stalin nel biennio 1939-1941 e in particolare sulla reale intenzione di Stalin di scatenare un'offensiva ad Ovest contro Hitler. Una mole di documenti, alcuni però dichiaratamente falsi o contraffatti, indussero alcuni storici russi a spiegare gli eventi, quegli stessi eventi che avevano indotto Nekrič a criticare l'operato di Stalin nel 1965, con una politica di crudele machiavellismo politico ma non coronata da successo perché Hitler avrebbe anticipato l'aggressione sovietica cogliendo così Stalin di sorpresa.

Soffermiamoci un momento sulla polemica scatenata da Suvorov in seguito alla pubblicazione del volume Ledokol (Il rompighiaccio) nel 1990. L'ex agente del servizio segreto militare sosteneva che Stalin stava preparando un'offensiva militare in Occidente al fine di espandere il comunismo in tutto il continente europeo utilizzando Hitler come una sorta di rompighiaccio per frantumare l'equilibrio europeo e distruggere le altre potenze capitalistiche. Questa in sintesi la controversa tesi che, però, non era suffragata dallo studio della documentazione d'archivio ma soltanto dall'esame della memorialistica e dalla pubblicistica. Uscito prima all'estero e poi tradotto in russo, al pari dei successivi volumi scritti sull'argomento da Suvorov, Ledokol ottenne un successo considerevole di pubblico; i lettori russi ormai abituati al disincanto e alla disillusione erano conquistati dalle tesi decisamente controcorrente che demolivano uno dei miti dello stalinismo ancora rimasti saldamente in piedi dopo il crollo del sistema comunista.

La reazione degli studiosi russi, compresi gli storici militari, fu estremamente forte: il suo autore fu accusato di aver stravolto la storia patriottica e il libro di non avere alcuna base documentaria. Uno studioso russo sintetizzò il suo operato con questa frase lapidaria: la grande bugia del piccolo uomo. Contemporaneamente la storiografia russa iniziò a pubblicare monografie e articoli sull'argomento mentre nuovi documenti erano via via declassificati. Gran parte dei loro lavori e gli studi più significativi non sono stati tradotti nelle lingue occidentali e ciò rende difficile per gli studiosi che non conoscono il russo seguire le vicende del dibattito storiografico russo, dilagato sui mass media della Federazione Russa e quindi estremante popolare entro i suoi confini. In estrema sintesi si può affermare che se attorno a Suvorov il dibattito è ancora vivo ed ha prodotto una spaccatura tra le diverse generazioni di storici russi che hanno accolto del primo le intuizioni e il quadro generale perfezionandolo con la ricerca archivistica ma all'interno di un approccio più cauto e quanti sono definiti antisuvorovisti, termine coniato da uno dei suoi più accaniti contestatori lo storico Isaev.

Non è mia intenzione ripercorrere un dibattito storiografico che è estremamente difficile seguire per chi ignora la lingua russa e di cui in Occidente sono arrivati, almeno al grande pubblico, scarsi echi restando tale controversia confinata fra gli specialisti. Tuttavia occorre citare alcuni testi considerati particolarmente significativi. Nevezhin affrontò il tema dell'idea della cosiddetta guerra offensiva mentre Bunich tratteggiò il piano operativo sovietico per la conduzione delle operazioni sul suolo tedesco con la sua monumentale opera in tre volumi, l'ultimo dei quali pubblicato postumo. L'accoglienza che questi studi ebbero all'estero fu assai modesta. La maggioranza degli storici occidentali, come era peraltro accaduto con le tesi di Suvorov, rimase scettica e mostrò un approccio ostile e critico rigettando difatti le interpretazioni eterodosse e addirittura revisionistiche. Alcuni storici occidentali, invece, trovarono nelle tesi della nuova storiografia russa le conferme intraviste nella documentazione già in loro possesso per poter rilanciare l'idea di una strategia aggressiva sovietica di cui la responsabilità ultima ricadeva su Stalin.

Già alla metà degli anni Novanta lo storico tedesco Joachim Hoffmann pubblicò un corposo volume basato su estese ricerche d'archivio e su innumerevoli fonti russe e tedesche dal titolo Stalins Vernichtungskrieg 1941-1945, la guerra di sterminio di Stalin. Nel controverso volume Hoffmann sostenne che Stalin stava preparando una guerra contro l'Occidente e che Hitler anticipò l'offensiva sovietica cogliendolo di sorpresa. Ciò però non significava affatto sostenere – egli precisò – dichiarare che la guerra tedesca all'Est fosse stata una guerra difensiva dal momento che il dittatore tedesco ignorava i segretissimi preparativi di Stalin. Da circa due decenni il dibattito storiografico attorno a questa controversia è più acceso che mai anche perché molti archivi russi, in precedenza aperti agli studiosi, sono stati chiusi per ordine delle autorità moscovite. Inoltre alcuni provvedimenti delle stesse autorità russe hanno pesantemente condizionato il dibattito imponendo vincoli e sollevando pesanti censure all'operato degli storici più critici. Comunque anche in Russia è sorta una vera e propria controversia storiografica di pari intensità e somigliante, sotto certi elementi, alla Historikerstreit che si era sviluppata in Germania due decenni prima. Difatti fra gli anni Novanta e l'inizio del nuovo secolo il dibattito storiografico russo iniziò a ruotare attorno al rapporto con Hitler, alla politica sovietica della vigilia e attorno ai piani offensivi di Stalin e dell'Armata Rossa. Naturalmente il dibattito era stimolato dalla disponibilità di nuovi materiali d'archivio, via via desecretati dalle autorità moscovite.

Nel 2000 l'ampia e ben documentata monografia di Mikhail Mel'tiukhov Upushchennyi shans Stalina (L'occasione perduta di Stalin) riesaminava in chiave critica la politica sovietica del periodo 1939-41 ma soprattutto poneva in luce come il dittatore bolscevico avesse iniziato la preparazione di massicce concentrazioni di truppe nei distretti militari orientali e mobilitato le riserve secondo piani di guerra che prevedevano l'assunzione dell'iniziativa strategica per portare la guerra sul suolo tedesco. Mel'tiukhov e più tardi Mark Solonin sono gli autori che hanno animato il dibattito storiografico russo su questi temi denunciando peraltro l'esistenza di documenti ancora inaccessibili ai ricercatori che potrebbero chiarire definitivamente, a loro giudizio, l'intera questione dei piani operativi e la loro più profonda natura. In Occidente le loro opere hanno avuto una tiepida accoglienza e nella sua stragrande maggioranza la storiografia continua a sostenere la tradizione impostazione negando che l'Urss avrebbe potuto sferrare un'offensiva nell'estate del 1941 accusando i giovani storici russi, considerati revisionisti, di ignorare gli aspetti tecnici della pianificazione militare, di non comprendere il quadro politico complessivo e di sovrastimare le reali possibilità di Stalin e dell'Armata Rossa. A settant'anni dalla fine della Seconda guerra mondiale il dibattito storiografico, come era logico attendersi, non si è ancora concluso e molti documenti restano ancora fuori consultazione.

Prima di venire al tema di questo nostro incontro, e per concludere questa premessa metodologica, occorre spendere alcune parole conclusive. In primo luogo, a differenza di quanto è avvenuto in Germania, l'apertura degli archivi russi risulta molto più recente. Sicuramente la documentazione tedesca è conosciuta in dettaglio molto più di quella russa. Almeno tre generazioni di storici hanno potuto lavorare in piena libertà sulle fonti tedesche ma lo stesso non si può dire dei loro colleghi russi. Soltanto con la caduta dell'Urss gli archivi sono stati aperti agli studiosi senza i controlli e la censura (compresa l'autocensura) tipici dell'epoca sovietica. In questo senso il lavoro negli archivi ex sovietici è ancora da svolgere prima che si possa disporre di una conoscenza paritetica delle fonti (russe e tedesche).

In secondo luogo, risulta indispensabile rifuggire dalle speculazioni politiche e dalle strumentalizzazioni. Contrariamente a quanto è possibile rinvenire su internet, soprattutto nei siti neonazisti e dell'estrema destra in genere, ad oggi non è emersa dagli archivi tedeschi una sola prova documentale che permetta di argomentare in merito alla conoscenza da parte di Hitler dei preparativi militari sovietici giustificando così la tesi di una guerra preventiva da parte dei nazisti. D'altro canto, e qui il riferimento è ai siti neostalinisti, è assolutamente priva di consistenza storica l'idea che Stalin non abbia avuto un ruolo determinante nello scatenamento della Seconda guerra mondiale. Spetta agli storici ricostruire in quale misura il Vozd [il Capo, in russo] abbia contribuito allo smantellamento dell'ordine europeo precipitando così i popoli del vecchio Continente nella guerra. Queste tesi riscuotono un grande seguito fra gli storici estoni, lituani, lettoni, ucraini e polacchi ma anche in Romania.

In terzo luogo, soltanto studi ulteriori potranno darci una risposta ancora più precisa sulle intenzioni di Stalin nell'estate del 1941 e sulla natura dei piani operativi dell'Armata Rossa. A mio avviso gli studi di Solonin e Mel'tiukhov hanno appena raschiato la superfice e credo pure che esista ancora molta documentazione da desecretare sulle operazioni militari e sulla pianificazione. In quarto luogo, sarebbe auspicabile un incremento delle traduzioni dal russo nelle lingue occidentali, ma soprattutto in quella italiana, la vera Cenerentola in questo settore. Seguire l'evoluzione della storiografia russa dal 1991 rappresenta un importante contributo alla conoscenza della vita intellettuale nella Federazione Russa e, di conseguenza, dei suoi sviluppi politici.

Infine, la guerra tedesco-germanica o Grande guerra patriottica, se si preferisce la dizione sovietica e poi russa, fu un conflitto di una brutalità inimmaginabile; una guerra che il popolo russo pagò in prima persona e che non deve indurre a speculazioni di sorta proprio perché esse sarebbero incise nella carne di ogni singolo uomo, donna e bambino periti nel conflitto sul fronte orientale. Compito dello storico è appunto quello di far rivivere quelle esistenze stroncate e aiutare il pubblico a comprendere le radici di una tale mostruosa brutalità. Conosciamo con ampiezza di dettagli le ragioni che indussero i tedeschi a condurre una guerra di sterminio e conquista, in netto contrasto con le possibilità di una crociata antibolscevica atta a stimolare la ribellione i popoli contro Mosca. Assai meno, e con significative zone d'ombra, sono conosciute le politiche del Cremlino per gestire una lotta per la vita che mise a repentaglio la stessa esistenza dell'Urss. Le pagine, umane e meravigliose, di Vassilij Grossman, autore di Vita e destino e Tutto scorre, hanno reso immortale il significato, con tutti i suoi orrori, di quella lotta senza quartiere tra tedeschi e sovietici.

Questioni aperte. Qui di seguito proverò ad enucleare gli aspetti che ancora meritano di essere adeguatamente investigati dagli studiosi. Certamente, come precisato nella premessa metodologica, la ricostruzione delle origini del conflitto tedesco-sovietico risulta ancora del tutto insoddisfacente, soprattutto sul lato sovietico. La controversia relativa ai piani bellici di Stalin (l'esistenza o meno di un piano di guerra preventiva e aggressiva) rappresenta soltanto un aspetto del problema. Se è vero che la campagna orientale dei tedeschi venne pensata come guerra di sterminio razziale risulta indibitabile che pure l'estrema brutalità dell'Armata Rossa non può essere spiegata unicamente come reazione alle violenze tedesche. La strategia repressiva sovietica costituiva uno dei tratti distintivi del regime bolscevico e delle modalità operative dell'Armata Rossa fin dalle sue origini. Si pensi alla decosacchizzazione del 1919, alla brutalità delle requisizioni durante la guerra civile, alla dekulakizzazione e alla deportazione dei popoli considerati sospetti (polacchi e baltici nel 1939-40; tedeschi del Volga 1941; caucasici nel 1944). Resta oggi, se valutati tali eventi in un'ottica italiana, da spiegare ed illustrare perché Mussolini volle coinvolgere le truppe italiane in un conflitto che sarebbe stato estremamente brutale.

Il secondo punto costituisce, sempre a mio avviso, il vero aspetto fragile di tutte le ricostruzioni dell'operato delle unità italiane sul fronte russo. L'immane tragedia della ritirata e le sofferenze delle truppe italiane hanno monopolizzato eccessivamente sia la memorialistica che la storiografia. Resta invece da domandarsi in quale misura la tragedia italiana finisce per inserirsi nell'immane tragedia collettiva dei popoli compresi fra il Volga e i confini sovietici del giugno 1941. La spirale di violenza che l'aggressione nazista scatenò (conflitti etnici e nazionalisti, pogrom antiebraici locali, primi passi della soluzione finale ad opera dei tedeschi e dei collaborazionisti locali, violenze sovietiche durante la ritirata e massacri dei prigionieri della Nkvd solo per citare gli aspetti più evidenti) che sfociarono nella guerra partigiana dietro le linee del fronte. Molti di questi elementi erano semplicemente latenti e perciò sarebbe utile ricostruire il contributo italiano in tali fenomeni. Insomma in quale misura gli italiani parteciparono alle violenze sul fronte orientale? Furono carnefici? Furono vittime? Furono occupanti benevoli? Ma soprattutto in quale misura gli italiani furono coinvolti nelle violenze sul fronte russo?

In terzo luogo occorre ricostruire le complicità dei vertici militari nel disastro di Russia. Serve a poco, a mio avviso, ripetere le resistenze di Messe alla volontà di Mussolini. Nessuno presentò le dimissioni, nessuno protestò per una condotta che de facto mise in pericolo la sicurezza e il benessere dei propri soldati. Le esigenze della carriera furono anteposte ai doveri e alle responsabilità del grado. Analogamente ministri e gerarchi ebbero comportamenti irresponsabili preferendo affidare ai diari personali i loro dubbi e le loro perplessità. Nessuno ebbe il coraggio di affrontare Mussolini per indurlo a desistere e neppure nessuno osò criticarlo dopo la decisione.

Infine, ma solo per indicare gli elementi più importanti ma altri aspetti si potrebbero sottolineare, connaturare in maniera più approfondita ed analiticamente l'occupazione italiana nei distretti in cui i soldati ebbero responsabilità dirette. Studiare il rapporto instaurato con la popolazione e con i comandi tedeschi per caratterizzare se e come gli italiani siano stati occupanti diversi rispetto ai tedeschi. Se io cito i documenti dell'Ufficio Est, fondato per volontà di Mussolini nel novembre 1942, credo che siano pochi gli studiosi a conoscenza delle finalità di tale struttura burocratica creata nell'ambito del ministero della Cultura Popolare. Si tratta di un ente deputato allo studio degli sviluppi della situazione nell'Urss, della propaganda sovietica ed alleata e delle politiche tedesche d'occupazione. Un ente che sopravvisse perfino al crollo del regime fascista continuando ad operare durante il periodo badogliano e della Repubblica sociale italiana (Rsi). D'altronde il suo responsabile, Tomaso Napolitano, aveva partecipato alla campagna del Csir come ufficiale volontario e redasse un rapporto sulle opinioni relative all'Urss e al bolscevismo maturate fra i reduci sottolineando l'eventualità di organizzare una campagna di propaganda attiva fra i rimpatriati.

Introduzione. La partecipazione militare dell'Italia fascista alla campagna di Russia, scatenata dall'aggressione tedesca del giugno 1941 (operazione Barbarossa), costituì il terzo intervento armato italiano contro le popolazioni della Russia nell'arco di due secoli. Nell'estate del 1812 i coscritti provenienti dalla penisola furono coinvolti nelle operazioni della Grande Armée napoleonica e finirono per condividerne la tragica sorte. Molti storici, sia sovietici prima e poi russi ma anche italiani, hanno sottolineato le analogie fra le due ritirate, quella del 1812 e quella dell'inverno del 1942-43. Dopo la rivoluzione russa del 1917 missioni militari e piccoli contingenti italiani furono coinvolti nelle tragiche vicende della guerra civile fra bianchi e rossi sebbene tale esperienza non poté in nessun modo assimilarsi ad una vera e propria campagna militare. Al pari degli altri contingenti alleati, anche le truppe italiane si ritirarono senza essere impegnati eccessivamente contro i bolscevichi riportando scarse perdite. Il coinvolgimento italiano nella grande guerra orientale scatenata da Hitler fu diverso e le conseguenze sulle truppe e sul regime furono disastrose.

Il fallimento dei rapporti bilaterali. Con la scelta di unire il destino dell'Italia fascista a quello delle truppe tedesche sul fronte orientale, aperto durante le prime ore del mattino del 22 giugno 1941 con l'invasione dell'Urss, Mussolini chiudeva il ciclo di eventi da lui stesso iniziato nel 1924 decidendo di procedere al riconoscimento diplomatico del regime bolscevico. Indipendentemente dalle divergenze ideologiche esistenti fra Roma e Mosca e nonostante la circostanza che l'antibolscevismo aveva rappresentato sia una caratteristica dell'ideologia fascista che uno dei motivi che aveva aiutato l'ascesa del fascismo nell'Italia del primo dopoguerra, Mussolini riuscì a sviluppare relazioni bilaterali soddisfacenti. Nel 1933 addirittura questo rapporto con Mosca era sfociato in un patto di amicizia, neutralità e non aggressione. Sebbene i rapporti italo-sovietici avessero conosciuto le prime difficoltà nella seconda metà degli anni Trenta, come osservato dallo storico statunitense Burgwyn «Mussolini ricollegò l'ideologia alla realpolitik, ma non fino al punto di non ritorno». Le relazioni con Mosca avevano perso gran parte della loro attrattiva in concomitanza con l'intervento della guerra civile spagnola e i primi passi mossi da Ciano e Mussolini, sia pur in maniera ancora esitante, verso la Germania nazionalsocialista. Nonostante l'inasprimento dei rapporti diplomatici e le campagne propagandistiche a carattere anticomunista e antisovietico, il regime non aveva né l'intenzione di giungere ad un'aperta rottura né era pronto per poterla realizzare. Questi aspetti delle relazioni bilaterali erano noti ai diplomatici sovietici in servizio nella penisola che, almeno fino al 1937-38, cercarono di corteggiare Mussolini sottolineando l'inconciliabilità degli interessi italiani con quelli tedeschi. Tuttavia il dinamismo della politica internazionale impedì il ristabilimento di «quel clima di amicizia e reciproca considerazione che si era creato negli anni Venti e Trenta».

Nel 1939 due eventi ebbero un'importanza straordinaria per la determinazione dei successivi rapporti con Mosca. Il primo fu rappresentato dal coronamento dell'alleanza con Berlino mediante la firma del cosiddetto Patto d'acciaio. In tale occasione la diplomazia italiana e i vertici del regime, Mussolini e Ciano in primo luogo, mostrarono un'inadeguatezza assoluta. Non vennero stabilite clausole precise in merito ai futuri sviluppi della politica estera e militare ma soprattutto Mussolini e Ciano non ebbero mai una visione chiara del dinamismo tedesco e dei fini ultimi della politica estera del Terzo Reich: ossia lo scatenamento della guerra per realizzare il proprio ampio programma revisionista attraverso la distruzione dell'ordine sorto a Versailles. Hitler non condivise i propri piani con Mussolini non rispettando le clausole del patto bilaterale. Mussolini e Ciano non reagirono alla sufficienza con cui erano trattati dall'alleato arrogante per congelare, o addirittura denunciare, il patto con Berlino e recuperare così la propria autonomia in politica estera.

L'altro evento, ovvero la conclusione del patto di non aggressione fra Berlino e Mosca dell'agosto 1939, rappresentò un'occasione perduta per il regime, come sottolineò già Renzo De Felice nel 1981: «Il patto tedesco-sovietico sarebbe potuto essere un motivo per lo sganciamento». Al contrario la partenza di Ribbentrop per Mosca gettò Mussolini e Ciano nell'incertezza e non permise loro di cogliere l'occasione; d'altra parte Hitler si guardò bene dall'informare l'alleato in merito alle clausole degli accordi bilaterli tedesco-sovietici conclusi con Stalin, né tantomeno dell'esistenza del protocollo segreto concordato a Mosca. La conclusione del patto con l'acerrimo nemico del nazifascismo, come sottolineava la propaganda, rappresentò per l'Italia fascista un motivo di crescente imbarazzo al pari del fallimento delle iniziative diplomatiche tentate da Mussolini per scongiurare lo scoppio delle ostilità e destinate, nella visione irrealistica del duce, a culminare in una conferenza internazionale sul modello di quella di Monaco. Inoltre, dietro richiesta esplicita dei tedeschi, l'Italia fu costretta a diminuire i toni della propaganda antibolscevica sui mass media e perfino a ridurre le attività del Centro di studi anticomunisti e di Radio Mosca, un articolato programma di black propaganda rivolta contro il Cremlino.

La scelta della non belligeranza costrinse il regime a guardare con crescente gelosia e preoccupazione non soltanto i successi militari dell'alleato nazista ma anche il rafforzamento delle relazioni amicali, al limite di un'alleanza informale, fra Berlino e Mosca. In altre parole Mussolini iniziò a temere che Hitler avesse trovato un partner assai più interessante dell'Italia fascista. D'altronde Mosca aveva occupato metà della Polonia e firmato un trattato che sanciva il nuovo ordine nell'Europa orientale oltre a rifornire la Germania di materie prime indispensabili alla prosecuzione del conflitto. Al contrario l'Italia aveva redatto una lista di forniture di materie prime e armamenti, una lista che avrebbe stroncato un toro come si disse, che Berlino avrebbe dovuto consegnare all'alleato per consentirgli di entrare in guerra al suo fianco. In questo quadro a dir poco umiliante, Mussolini e Ciano vararono una nuova strategia che consisteva da un lato ad osservare attentamente gli sviluppi in atto nell'Urss cercando, dietro insistenza di Berlino, di recuperare un rapporto con Mosca e dall'altro ricondurre – con le buone – Hitler al suo primigeneo antibolscevismo. Così si spiegano anche le posizioni dell'Italia nei confronti dell'aggressione sovietica contro la Finlandia, la ripresa della propaganda antisovietica e perfino l'aiuto prestato da Ciano alla defezione dell'incaricato d'affari sovietico a Roma Lev Helfand, che nell'estate del 1940 fuggì negli Stati Uniti.

La scelta. In un certo senso Mussolini vide nel deterioramento dei rapporti tedesco-sovietici prima e nell'aggressione poi la possibilità di rovesciare il rapporto con Hitler allontanando definitivamente lo spettro di un nuovo asse Berlino-Mosca. In sintesi, una volta convertito il Führer all'antibolscevismo era indispensabile essere al suo fianco, anche per ristabilire il buon nome del Paese dopo i rovesci militari subiti in Grecia. Inoltre agli occhi del duce, che nei mesi precedenti l'aggressione tedesca contro l'Urss era stato informato del massiccio concentramento di truppe e mezzi lungo il confine orientale del Terzo Reich, sembrava possibile sfruttare il trionfo militare tedesco per realizzare quegli obiettivi strategici e militari che l'Italia fascista non poteva raggiungere con le sue sole forze. Come ha scritto recentemente Maria Teresa Giusti la campagna orientale del duce avrebbe consentito di «servirsi della Wehrmacht per raggiungere i suoi obiettivi». Era un azzardo pericoloso conoscendo l'inadeguatezza militare delle forze armate italiane e del Paese più in generale per una guerra mondiale.

D'altra parte il duce era perfettamente consapevole che nella guerra contro il bolscevismo l'Italia non poteva rinunciare al suo ruolo di potenza antibolscevica. In tal senso le citazioni riportate in prima pagina illustrano in maniera efficace il pensiero mussoliniano. Ma accanto alle ragioni dettate dall'ideologia e dal prestigio vi erano motivazioni assai meno nobili: le truppe italiane dovevano essere sul campo per spartirsi il bottino con il vero e probabile vincitore, ossia l'esercito tedesco. Tornava pesantemente ad affaciarsi nella mente del duce l'idea dei morti che avrebbero pesato sul tavolo della pace; era la stessa illusione che aveva inciso sull'ingresso in guerra nel giugno del 1940; entrare in campo in una guerra ormai prossima alla conclusione. Infine vi sono le motivazioni di natura economica, mercanteggiate con l'alleato tedesco, soprattutto quelle legate a problema energetico nazionale (i pozzi petroliferi e le riserve di Majkop) su cui hanno insistito soprattutto Burgwyn e più recentemente la Giusti.

Se l'azzardo mussoliniano appare evidente agli occhi dello storico di oggi, proviamo però ad immaginare cosa sarebbe accaduto se Hitler, nel novembre del 1940, avesse accolto parzialmente o in toto le richieste sovietiche relative agli stretti turchi e ai Balcani. La vocazione egemonica fascista nella penisola balcanica e nel Mediterraneo ne avrebbe sicuramente risentito. Non è un caso che Mosca provò, nelle trattative diplomatiche con Roma, a regolare i contrastanti interessi proprio in queste aree. L'espansionismo sovietico apparve a Mussolini e alla diplomazia italiana una pericolosa minaccia, come la conclusione del patto di amicizia con Belgrado rese palese nella primavera del 1941. In conclusione l'azzardo mussoliniano si fondava sulla speranza nella Wehrmacht che avrebbe risolto alla radice il problema rappresentato dalla minaccia sovietica. Scomparsa l'Urss e spartito il bottino Roma avrebbe potuto consolidare, d'intesa con i tedeschi, la propria influenza nei Balcani e ne Mediterraneo a scapito della Gran Bretagna.

Un disastro militare. Non appena presa la decisione di schierarsi al fianco di Hitler, sebbene quest'ultimo non desiderasse affatto l'aiuto del camerata fascista, e pur non conoscendo i dettagli dei piani operativi tedeschi già alla fine di maggio Mussolini ordinò al comando supremo di predisporre tre divisioni da impiegare contro Mosca. Imponendosi su Hitler, che avrebbe preferito un'intensificazione delle operazioni italiane in Africa settentrionale, Mussolini si assicurò la partecipazione delle truppe italiane ad Oriente e la decisione fu avallata da un brevissimo Consiglio dei ministri del 5 luglio. Cinque giorni dopo le tre divisioni (Pasubio, Torino e Celere Principe Amedeo Duca d'Aosta) inquadrate, con altre unità minori e ausiliarie per un totale di crca 62.000 uomini, nel Corpo di spedizione in Russia (Csir) lasciarono la frontiera dirette ad Oriente. Il successivo 5 agosto le truppe raggiunsero il fronte «prendendo le posizioni loro assegnate dai superiori tedeschi». Nonostante le difficoltà logistiche e le diverse concezioni strategiche e tattiche, il Csir diede buona prova sul campo e si distinse in alcuni combattimenti avanzando verso il Dnieper prima ed il Don poi.

Nel corso dell'incontro italo-tedeschi di Rastenburg (25-29 agosto) Mussolini non solo chiese che al Csir fossero affidate responsabilità più ampie ma addirittura dichiarò di poter inviare in Russia altre divisioni. Il duce ignorò le raccomandazioni del generale Messe, comandante del Csir, che sconsigliò il rafforzamento dello schieramento italiano in ragione delle difficoltà logistiche, da lui considerate insuperabili. Ancora una volta, dopo aver osservato gli sviluppi della battaglia di Mosca e la successiva controffensiva invernale sovietica, Mussolini si convinse che il conflitto non sarebbe stato così breve come inizialmente si era considerato ma soprattutto sperato. Stavolta trovò in Hitler un dittatore molto più comprensibile e disponibile ad accettare l'invio di uomini da parte degli alleati, soprattutto per colmare i vuoti causate dalle perdite subite e fronteggiare le masse umane sovietiche. Come cinicamente Mussolini precisò a Messe, era l'occasione per far pesare ancora di più la presenza dell'Italia fascista sul fronte orientale. Annunciato il 3 dicembre un vasto piano di ristrutturazione delle forze armate destinate alla Russia, nel 1942 venne costituita l'Armata italiana in Russia (Armir) costituita da tre corpi d'armata e una decina di divisioni (Sforzesca, Ravenna, Cosseria, Pasubio, Torino, Celere Principe Amedeo Duca d'Aosta, Tridentina, Julia, Cuneense e Vicenza) per un totale di 230.000 uomini. Come abbiamo visto, il Csir confluì nella nuova armata costituendone il XXXV corpo d'armata. Il nuovo esercito mussoliniano si schierò lungo il corso del fiume Don.

Tra il 20 e il 25 agosto i sovietici attaccarono lo schieramento italiano travolgendo la divisione Sforzesca e minacciando addirittura di accerchiare l'intera ala sinistra dell'Armir. Nonostante le difficoltà e gli scontri con l'alto comando tedesco l'Armir si schierò lungo il Don presidiando una linea difensiva estesa per quasi trecento chilometri. Il 16 dicembre 1943 contro queste divisioni si scatenò l'operazione Malyj Saturn (Piccolo Saturno), un'offensiva di massa lanciata dal comando sovietico. Nonostante la resistenza degli italiani, a partire dal 19 dicembre venne ordinata la ritirata generale che anticipò il disastro che è universalmente conosciuto. Scarsamente colpito dal disastro al quale aveva condannato i suoi soldati, Mussolini tornò a postulare l'invio di nuove unità in Russia come se non fosse accaduto nulla. Il 9 marzo 1943 Mussolini così scriveva a Hitler: «l'Italia non può essere assente dal fronte russo e perciò un secondo corpo d'armata italiano verrà inviato in Russia...». Infine, rivelando un cinismo senza fine, Mussolini chiedeva che alle truppe italiane fossero affidate compiti operativi e non servizi di retroguardia o presidio. Parallelamente cercò di convincere, ma con scarso successo, Hitler a sondare la possibilità di una pace separata o almeno di un armistizio con Stalin. Fortunatamente per gli italiani il Führer stavolta rifiutò l'offerta. Pochi mesi dopo Mussolini veniva deposto e il regime crollava.