giovedì 30 settembre 2021

Felice Bulfer

Felice Bulfer: memorie di un reduce dal fronte russo.

Woroschilowa, parte 3

Woroschilowa: un buco senza speranza, di Giulio Ricchezza - terza parte.

"Giuseppe Nigra era appena venuto al reggimento; s’era subito interessato del 'suo' battaglione; era un sardo, un bell'uomo, magro, aitante e deciso, di pochissime parole. Non faceva molte considerazioni, non aveva insomma quell'esperienza di cose di guerra che si ha solo combattendo in fronti come quello russo dove, dopo qualche tempo, si impara a filtrare, per così dire, gli ordini che si ricevono. Ci sono dei comandanti intelligenti che sanno valutare la situazione, non prendono decisioni affrettate; obbediscono, ma sempre con una certa riserva; anzi, non è nemmeno una riserva, è come una piccola autonomia che si prendono rispetto al comando di reggimento o di divisione; così, pur portando lo stesso a termine i propri compiti non espongono inutilmente gli uomini. Nigra, invece, di Russia non sapeva niente e non certo per colpa sua. Nessuno gli aveva spiegato che razza di guerra si combatteva lì. Ricordo di aver letto, non so più dove, di quel colonnello che aveva combattuto in durissime circostanze nella prima guerra mondiale. Un Tedesco. T'incontra un collega italiano, questo in Russia, e gli dice pressappoco così: 'Vedrai; quello era niente; non mi sono mai trovato in vita mia a dover combattere in simili condizioni'".

"Alla situazione materiale, che più cattiva di così è difficile immaginare, vanno aggiunte considerazioni di carattere morale: quando si sta al gelo per due o tre ore di fila e anche più, cercando di sparare, quando c'è già stata una battaglia come quella di Natale che ha impegnato per quattro, cinque o sei giorni tutti, senza distinzione, spremendoli fino all'osso, e quando si è sempre sotto l'incubo di attacchi nemici, questo non permette certo di agire con chiarezza di spirito o con quella volontà che si ha quando si parte, pieni di entusiasmo, per un'azione ben diretta e sul cui esito si nutre completa fiducia".

Di fiducia sull'esito dell'azione nessuno ne aveva; meno che mai ne avevano i legionari della Tagliamento che al solo sentir parlare di Woroschilowa vedevano nero. In fondo era stato proprio a causa del loro pessimismo se quella generale incertezza aveva finito per contagiare un po' tutti. Ma era difficile dar loro torto. I Russi erano laggiù, oltre la cortina di neve, oltre le nuvole di pulviscolo ghiacciato sollevate dal vento. Ma da lì, da Iwanowski, dalle isbe in cui erano rintanati quelli della Celere, non si vedeva niente. Sembrava, anzi, che del nemico non vi fosse neppur l'ombra. Anche questo faceva parte del tradizionale quadro della guerra russa. Si annusava, si avvertiva la presenza dell'altro per una specie di sesto senso; ma quasi mai gli Italiani riuscivano a scorgere in faccia i loro avversari. L'attacco alle isbe di Woroschilowa era previsto per la primissima alba del 25 gennaio. Testimone di quella notte insonne, fra il 24 e il 25, fra gli altri, il sottotenente Ratti, uno dei pochi che riuscirà a tornare dall'inferno russo, insegnando poi per anni al Leone XII di Milano come professore di educazione fisica.

Fra quelli più indaffarati appariva il Nigra che sentiva il bisogno, si vede, di dimostrare di poter essere un valido sostituto del maggior Ercolani. Bisogna capire certe situazioni. Occorre sapersi conquistare subito la fiducia degli uomini, altrimenti è un disastro. E l'ufficiale che non ci riesce di primo acchito, dopo non ce la fa più; il giudizio iniziale, l'impressione, per quanto superficiale possa essere, dei primi momenti, non si cancella; se essa è stata favorevole, tutto bene, ma se è risultata negativa allora son dolori. Il Nigra, perfettamente consapevole di ciò, faceva il possibile per non... sfigurare, lui, novello di Russia, in mezzo a quei... veterani. Ma veniamo alla voce diretta, alla testimonianza: "Eravamo allora di stanza a Iwanowski, cioè in un posticino situato tra i sette e i dieci chilometri da Woroschilowa. Ci siamo messi in marcia di notte, alle tre, con un freddo siberiano. Si faceva sì e no un paio di chilometri l'ora in quelle condizioni. Sì perché bisogna tener presente che si doveva procedere in fila indiana lungo una sorta di sentierino battuto nella neve, appesantiti dalle armi, semiparalizzati da quelle temperature... saranno dunque stati, sette-otto chilometri a dire il vero. Abbiamo camminato fino alle sei del mattino circa... Io, quella mattina, non avevo nessun compito; non dovevo comandare nessuna compagnia; per cui mi sentivo un po' come uno che partecipi a un'azione essendone al di fuori. C'era, ricordo, appena arrivato anche lui dall'Italia coi complementi, come il Nigra, il capitano Tedeschi; c'era l'aiutante maggiore, tenente Supino, o forse era già diventato capitano... chissà, comunque c'era, appunto Supino, e c'era, lui sì, lo rammento benissimo, il tenente di complemento Guglielmo Taralli che era stato posto al comando di uno dei tre gruppi che erano stati imbastiti la sera prima proprio per partecipare a quell'azione...".

Taralli era un ragazzone grande e grosso, un bell'ufficiale dal viso franco; alla vigilia della battaglia di Natale comandava un plotone del XVIII battaglione. Nei primi giorni di dicembre si era "beccato" una brutta ferita alla gamba, ma non per questo aveva abbandonato il comando; lui voleva continuare a combattere, tant'è che quando un suo commilitone gli aveva consigliato di farsi operare al più presto - o per lo meno di farsi inviare all'ospedale - gli aveva risposto tranquillamente: “Qui, la guarigione è più rapida. Non conosci dunque l’ibernazione?”. Parole scherzose, ma che erano state dette con aria terribilmente seria. Nessuno tuttavia aveva supposto che sotto quell'aria tranquilla, Taralli nascondesse un coraggio da vendere. Quand'era stato addetto al servizio vettovagliamento, il capitano lntrozzi, ufficiale richiamato, dai molti capelli grigi, se l'era visto capitare davanti con un'aria un po' strana. Taralli gli aveva confidato che era venuto in Russia solo per potersi guadagnare la medaglia, ma che non ne voleva una qualunque; intendeva conquistarsi quella d'oro al valor militare.

Introzzi l'aveva guardato un po' di sotto in su, poi aveva sorriso: "Va bene, va bene", gli aveva risposto bonario, soggiungendo subito dopo con aria un po' cattiva e maligna: "Ma pensa per ora a far la spesa". Una risposta logica; mentre tutti, chi più chi meno, creavano di sottrarsi ai combattimenti di prima linea in cui, date le note condizioni di inferiorità, non c'era da augurarsi nulla di buono, un uomo come Taralli, con le sue idee e le sue proposte fuori dell'ordinario, dava l'impressione di essere una testa calda o, nel migliore dei casi, un... eccentrico.

Per cui, da quel giorno, Taralli aveva pensato che sarebbe stato meglio non parlare dei suoi progetti e delle sue aspirazioni con nessuno. Sarebbe così rimasto "a far la spesa" per tutto il tempo della campagna di Russia, se gli avvenimenti del fronte non avessero obbligato i comandi a richiamare in linea anche quelli dei servizi, fra i quali c'era lui, il nostro Taralli. Al comando di un plotone, il giovane s'era subito distinto nell'occupazione di Mikailowka e nella presa di Iwanowski, il villaggetto da cui sarebbe partito poi quel mattino per il viaggio senza ritorno in direzione di Woroschilowa, e s'era guadagnato una bella medaglia d'argento, seguita poi da una seconda proprio nel giorno di Natale. Appunto nell'azione per la conquista di Mikailowka, Taralli era stato ferito alla gamba, mentre, insieme ad altri uomini del maggiore Scarponi, faceva irruzione fra le isbe.

"Taralli" racconta un teste, "aveva in sé una carica di entusiasmo davvero invidiabile. Quella mattina dell’attacco contro le isbe di Woroschilowa s’era porto dietro un tizio, mi pare fosse un sergente, uno che ne aveva combinate di cotte e di crude, un tipo da compagnia di disciplina, e che avevano spedito lì per per punizione: ebbene Taralli, con il suo entusiasmo, l’aveva saputo galvanizzare, facendone un’altra persona…".

Fotografia dell'archivio storico della Legione Tagliamento: Woroschilowa - Quota 331.

mercoledì 29 settembre 2021

martedì 28 settembre 2021

Il processo D'Onofrio, parte 17

Il processo D'Onofrio, diciassettesima ed ultima parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.

LA TRENTESIMA UDIENZA.

20 luglio 1949. - Avv. Mastino Del Rio: 'Questo non è il processo all'antifascismo, ma è soltanto il processo contro Edoardo D'Onofrio, perché - ed è necessario stabilire questo punto fermo - D'Onofrio non aveva nessun diritto di svolgere propaganda nei campi di concentramento di Russia, propaganda la più avvilente e la più bruta perché esercitata su degli uomini non liberi. Non doveva, nello stesso modo che non é consentito al carceriere far propaganda nei confronti dei carcerati'.

Questo ha detto l'avv. on. Mastino Del Rio, iniziando la sua arringa in difesa degli imputati, dopo aver rassicurato il Tribunale sulla brevità del suo discorso. Ed ha proseguito affermando che l'attuale querelante non aveva alcun diritto di umiliare dei vinti e che se lo ha fatto è stato solo per preparare i quadri che avrebbero dovuto diffondere il comunismo in Italia: uno scopo tutt'altro che nobile.

Avv. Mastino Del Rio: 'Le ragioni della difesa - che sono poi le stesse sostanziali ragioni della giustizia - sono state già ampiamente tratteggiate. Non devo fare proseliti, qui, e perciò non farò propaganda anche perché, non ho da riparare a nessuna sconfitta politica ed ho troppo rispetto per la maestà della Giustizia per abbandonarmi all’impressionismo, al colorismo o al terrorismo politico che è affiorato nell'arringa del secondo patrono di Parte Civile'.

La questione è semplice e lineare. È chiaro che qui non si tratta di fare il processo al fascismo o all'antifascismo, né all'ARMIR, né alla resistenza, né alla Russia. Ma si tratta di vedere se le accuse mosse a D'Onofrio dagli imputati sono esatte o no. Perché il sen. D'Onofrio a dato querela? Si è chiesto a questo punto l'oratore. E la risposta è venuta subito dopo quando egli ha detto che la data di presentazione dell’atto di querela è il 16 aprile 1948, cioè a dire due giorni prima delle elezioni politiche. Ma le querele sono armi pericolose e questa volta la bomba è scoppiata nelle mani di chi l'aveva preparata.

Avv. Mastino Del Rio: 'Nel numero unico incriminato si parlava anche di Palmiro Togliatti, ma Togliatti non si è unito alla querela, dimostrandosi così ben più furbo. E di tutti gli altri che nel numero unico furono nominati, e certo non per ricevere lodi e ringraziamenti dai reduci, nessuno s’è fatto vivo: né Roncato, né Fiammenghi, né la signora Torre, né Rizzoli, né Robotti. E nessuno di loro s’è mosso per dare una mano al querelante. Ed ora l’arma puntata verso gli altri si è ritorta sul D'Onofrio stesso il quale finisce per essere il vero imputato di questo processo. Il fatto è che tutti quegli altri hanno avuto paura di presentarsi perché temevano di dover rendere conto delle loro azioni'.

Rievocata la terribile odissea dei nostri prigionieri in terra di Russia, l'avv. Del Rio ha affermato che la verità non giova alla propaganda comunista. Per questo non sono più tornati il cap. Magnani, il ten. Ioli e gli altri: perché, se essi fossero tornati, avrebbero detto certamente la verità sulle loro tristi vicende. Per questo è necessario far credere che le molte decine di migliaia di soldati dell'ARMIR sono morti tutti nella sacca del Don e non di fame, di sete, di tubercolosi nell’orrendo carnaio dei campi di concentramento.

Avv. Mastino Del Rio: 'E poi ci si accusa di speculazione e ci dicono che noi abbiamo suscitato la polemica alla vigilia delle elezioni politiche. Vi ricordate cosa dicevano i 'falsi reduci' in quei giorni di lotta elettorale: 'Mamme d'Italia se volete che i vostri figli tornino dalla Russia votate per il Fronte Popolare?'.

L’avv. Mastino Del Rio ritornando alla situazione dei prigionieri italiani ha osservato che sì, è vero, che il trattamento venne migliorato, ma l'ordine, partito da Stalin, fu dato solo in omaggio all’arrivo nei campi di concentramento di una delegazione della Croce Rossa Internazionale che, come è stato detto qui in udienza, fuggì via inorridita per le impossibili condizioni in cui versavano gli internati.

Avv. Mastino Del Rio: 'L’arrivo degli emigrati politici distrusse la concordia e la fratellanza fra i prigionieri. È proprio in questo momento che sulla scena appare il D'Onofrio. Io mi inchino al passato politico di questo combattente dell’antifascismo, ma debbo aggiungere che vi è un profondo abisso fra il D'Onofrio esule dalla Patria e perseguitato e il D'Onofrio commissario politico, persecutore dei suoi fratelli prigionieri, accecato dall’odio di parte.

Come potevano i soldati italiani non pensare che si trovassero di fronte a dei veri e propri nemici? Cosa fecero gli emigrati perché i loro fratelli non pensassero questo? Nulla fecero: essi si presentarono ai prigionieri come giudici ansiosi di fare il processo alla guerra sui vinti, a coloro i quali si erano battuti per obbedire alle leggi dell’onor militare, essi tacciarono i prigionieri di ladri e di rapinatori, li umiliarono, li minacciarono, li derisero'.

Il difensore, polemizzando con l'avv. Sotgiu, ha quindi affermato, documenti alla mano, che in Russia la Chiesa Cattolica è considerata alla stregua di una organizzazione spionistica alle dipendenze del Vaticano e i preti, naturalmente, delle spie pagate dal Vaticano. Non è vero che in Russia ci sia libertà di culto.

L'avv. Sotgiu aveva letto, nel corso della interminabile arringa, brani tolti da un libro di un cappellano militare, padre Bonadeo, il quale descrive, con accenti di profondo misticismo, una messa che egli aveva celebrato nel campo di Oranki. Il patrono di Parte Civile ne aveva tratto motivo per esclamare, rivolto al Tribunale: 'Ecco l'asserita avversione dei sovietici alla religione' e ciò doveva dimostrare, secondo lui, la falsità dei reduci i quali avevano detto essere proibita laggiù ogni forma di culto esterno. Ma l'on. Mastino Del Rio ha ripreso quella lettura, e l'ha ripresa proprio dal punto dove il prof. Sotgiu l'aveva lasciata. Il sacerdote racconta nel libro che il giorno dopo aver celebrato la Messa fa chiamato a rapporto dal comandante del campo ed accusato di tradimento e di spionaggio e diffidato dal ricadere nello stesso reato.

Anzi nei due reati. I quali, come ebbe a spiegargli lo stesso comandante, consistevano nell’aver celebralo la Messa e nell’aver invitato i prigionieri, che avevano assistito al rito, a pregare. Don Bonadeo fu minacciato di gravi sanzioni se avesse celebrato ancora la Messa. L'on. Mastino Del Rio ha poi ribattuto a lungo le dichiarazioni fatte dai testi di Parte Civile. Di alcuni di essi ha voluto mettere in evidenza il loro passato di fascisti e di volontari di guerra.

Avv. Mastino Del Rio: 'Vorrei dire con Angelo Musco, a questi signori: amico, ogni uomo ha il diritto di essere un buffone, ma tu esageri. Anche questi uomini possono essere giustificati. Diciotto dei venticinque testi d'accusa, in Russia, erano tutti gravemente malati ed avevano urgente necessità di cure e di un miglior trattamento. Per questo essi si piegarono alla propaganda di D'Onofrio, perché erano costretti a mendicare i medicinali. Chi resisteva alla propaganda, infatti, anche se in condizioni di salute pietose, come Padre Turla, veniva scacciato dagli ospedali o dai convalescenziari'.

LA TRENTUNESIMA UDIENZA.

21 luglio 1949. - L’avv. Mastino Del Rio non è riuscito a mantenere la promessa fatta al Tribunale come premessa all’arringa. E del resto non è facile essere brevi quando gli argomenti da esaminare sono tanti e di tanta importanza. Così neppure all'ultimo difensore sono state sufficienti due udienze per concludere. L'on. Del Rio ha spiegato al Tribunale il programma, la struttura, l' essenza e soprattutto gli scopi che la propaganda di D'Onofrio nei campi di concentramento si prefiggeva di raggiungere, ha detto quale dovizia di mezzi fosse stata messa a sua disposizione per dimostrare come su quella propaganda fossero puntate molte grandi speranze.

Avv. Mastino Del Rio: 'D'Onofrio disponeva di un giornale, di una tipografia, di una attrezzata redazione, della energia elettrica e di molto denaro. L'obiettivo era chiaro: diffondere al massimo l'idea comunista fra i prigionieri per creare agenti specializzati da inviare in Italia. La maggior parte di coloro che aderivano lo facevano per porre un rimedio alle miserevoli condizioni di vita e non perché spinti dalla convinzione nella ideologia predicata. Le promesse di vitto, il miraggio di miglioramenti, le minacce, alternate, alle lusinghe erano un ottimo mezzo per attirare i prigionieri, stremati dalla fame. La parola d'ordine era: convertire al comunismo il maggior numero di internati italiani. I mezzi non contavano e chi si opponeva ne subiva le conseguenze come Magnani, Ioli, Don Brevi e tanti altri. Ricordate che Padre Turla ha detto in udienza che l’attuale querelante voleva costringerlo a firmare quello stesso ordine del giorno che il cap. Magnani si rifiutò di sottoscrivere'.

D'Onofrio: 'Non è vero. Io non ho mai costretto nessuno a firmare niente. E poi Padre Turla io non l'ho mai visto... Non stia a raccontar storie...'.

Presidente: 'Lei, egregio senatore, non può e non deve intervenire mentre un avvocato sta parlando. La prego di far silenzio e di non interrompere più la discussione'.

Avv. Mastino Del Rio: 'La ringrazio, signor Presidente, ma mi permetta di chiedere al sen. D'Onofrio che mi spieghi allora per quale ragione i nostri testimoni avrebbero mentito e perché non si debba dar credito alle loro deposizioni. Si tratta, lo sappiamo tutti, di oneste persone da Padre Turla a Don Franzoni, dai col. Russo e Zingales, via via fino agli imputati, tutti valorosi ufficiali.

Piuttosto perché non ci spiega D'Onofrio con maggiore chiarezza di quanto non ha fatto le ragioni per cui voleva sapere tante cose dai nostri prigionieri? La spiegazione posso darla io'.

E qui l'avvocato legge un brano del libro di Kravchenko: 'Tu sei comunista e devi portare a conoscenza della direzione del partito tutto ciò che può interessare la direzione del partito stesso, ti piaccia o no'. D'Onofrio non ha potuto sottrarsi a questo imperativo. Ha fatto il suo dovere di comunista.

Avv. Mastino Del Rio: 'D’altro canto lo stesso D'Onofrio ha dichiarato l’obiettivo preciso della propaganda da lui svolta quando, durante la polemica giornalistica, scrisse, nel compiacersi del fatto che molti ex prigionieri erano andati ad ingrossare le file del P.C.I., che tale fenomeno stava a significare che lui e i suoi compagni avevano seminato bene. Ma chi semina vento raccoglie tempesta. E l'attuale querelante la tempesta l'ha raccolta in questa aula di tribunale.

Ma poiché siete stati smascherati nel tentativo di dissimulare i vostri scopi, ora voi volete ripagarvi gettando il discredito su questi ragazzi e non solo su questi ma su tutti i reduci i quali non hanno voluto piegarsi alla vostra volontà e li tacciate di fascisti e di nostalgici, non si sa poi di che'.

E l'on. Mastino Del Rio, esibendo documenti, ha fornito le prove irrefutabili della attività partigiana degli imputati.

Avv. Mastino Del Rio: 'Il teste d'accusa Fidia Gambetti, prima fascista ora comunista, fece delle insinuazioni, in udienza, sulle decorazioni di questi reduci e su quella dell’avv. Taddei, disse che le decorazioni non contano. Ma forse non si ricordava che nel settimanale 'L'Alba', di cui pure egli era attivo collaboratore, campeggiava una grande fotografia di un Primo Maresciallo con il petto coperto di medaglie.

Voi avete aggiunto al danno lo scherno quando avete pensato di farvi forti della lettera che il cap. Magnani riuscì a far pervenire alla propria famiglia e avreste voluto inchiodarlo ad una frase di quella missiva: 'Non ho fatto nulla di cui debba vergognarmi davanti a te e ai miei figli'. Voi avete preso questa occasione per dire che, dunque, Magnani era stato trattenuto chissà per quali colpe misteriose e non per responsabilità di D'Onofrio. E ammesso che sia stato così, perché non ci dite la ragione per la quale il D'Onofrio si rifiutò di dire una sola parola per il Magnani come per tutti gli altri ufficiali trattenuti in Russia? Eppure avrebbe potuto farlo. Si è detto ancora, dalla parte civile, che il D'Onofrio fece pervenire alla famiglia del cap. Magnani un radio messaggio di saluto. Ma quando il messaggio di cui si dice fu radiotrasmesso D'Onofrio e Magnani ancora non si conoscevano, basta confrontare le date'.

Via via che l'arringa si addentra a sviscerare prove, motivi, accuse, episodi, essa si fa più serrata, più demolitrice. Ora l'avv. Mastino Del Rio è tornato a parlare degli interrogatori. La parie civile li ha giustificati adducendo la necessità di raccogliere dati anagrafici dei prigionieri e tutte le notizie, inerenti alla loro posizione sociale, all'educazione, al titolo di studio.

Avv. Mastino Del Rio: 'Sciocchezze! Ipocrisie! Menzogne! Non esistevano già tutti questi dati nei campi di concentramento? E quale necessità c’era che D'Onofrio fosse accompagnato da un ufficiale della polizia di Stato Sovietica per rilevare dei dati anagrafici? E poi perché quei dati seguivano i prigionieri nei vari trasferimenti da un campo all’altro? E che ciò fosse avvenuto è indiscutibile perché ad alcuni prigionieri furono contestate parole dette in sede di interrogatorio in un altro campo alcuni mesi prima. Come vorreste chiamarli questi se non interrogatori di polizia? Se non vere e proprie investigazioni? Non certo 'conversazioni' come sostiene la Parte Civile'.

LA TRENTADUESIMA UDIENZA.

22 luglio 1949. - L’aula non poteva assolutamente contenere più gente di quanta ne contenesse all’inizio dell’udienza, l'ultima di questo, si può ben dire, strepitoso processo, che ha polarizzato la attenzione dell’opinione pubblica di tutta la nazione. Decine e decine di persone sono state costrette a rimanere fuori nei corridoi nell'attesa che il Tribunale pronunciasse la sua sentenza: attesa silenziosa, tranquilla, sicura; la giustizia non poteva fallire. La verità sarebbe finalmente apparsa nella sua luce sfolgorante.

L'avv. Mastino Del Rio ha concluso rapidamente la propria arringa. Egli ha discusso con chiara oratoria la pura questione di diritto della causa prendendo in esame le asserzioni apparse nel numero unico incriminato ed ha sostenuto che è emersa, nel corso della istruttoria dibattimentale, la prova più completa dei fatti attribuiti al sen. D'Onofrio. E cosi ha proseguito polemizzando con l'avv. Sotgiu.

Avv. Mastino Del Rio: 'Non so se quello che ha affermato il mio illustre contraddittore risponda a verità. Non so se sia vero che, come lui ha detto, l’Unione Nazionale Reduci dalla Russia ha avuto la sovvenzione di un milione dal Ministero dell'Assistenza Post-bellica. Ma mi auguro che sia così perché quel denaro sarà servito ad alleviare le sofferenze di questi sventurati i quali sono rimpatriati nudi e ammalati, perché quel denaro avrà forse potuto sollevare quelle madri e quelle vedove lasciate nella più squallida miseria'.

L'accenno fatto dall’oratore al fatto che tali informazioni furono fornite dai numerosi agit-prop, che si annidano in tutti i ministeri violando i segreti d'ufficio, ha suscitato l'ennesimo e ultimo incidente di questo processo. L'avv. Paone è saltato su eccitatissimo gridando frasi sconclusionate e senza senso: deve aver perduto la testa nell’imminenza della sconfitta.

Avv. Paone: 'Anche i peculati sono segreti d'ufficio?'.

Ma il Presidente è intervenuto con energia e tutto è finito lì. La conclusione dell’on. Mastino Del Rio ha vivamente commosso i presenti.

Avv. Mastino Del Rio: 'Io sento nel mio spirito una calma divina. Sento di aver compiuto fino in fondo il mio dovere. Se nei miei ventisette anni di professione nulla avessi fatto, nessun’altra causa avessi discusso, sarei ugualmente soddisfatto per la mia opera. Oggi il mio sguardo va lontano, oltre i confini della Patria, in uno squallido campo dove vedo tremolare ventisette fiammelle di vita'.

Avv. Mastino Del Rio: 'Signori, voi avete una delicata causa da risolvere, una causa grondante di sangue e di dolore. Se voi condannerete questi giovani, essi usciranno da quest'aula a fronte alta, da soldati quali sono stati e quali sono. Se voi condannerete questi giovani, condannerete a morte i ventisette ufficiali che non hanno fatto ritorno, spegnerete quelle ventisette fiammelle che ancora brillano e sperano. Se voi invece assolverete, non spezzerete quest’ultimo filo di speranza e Iddio e la Patria vi benediranno. Perché la vostra sentenza deve dire a quella Nazione che è preferibile, per gli stessi interessi della sua propaganda, che rimandi i figli alle madri, gli sposi alle mogli'.

In silenzio i giudici si sono alzati e si sono ritirati in camera di consiglio. Sono le 9,45. Il Tribunale rientra nell’aula alle 14,40. Nel più profondo silenzio il presidente dott. Carpanzano si alza e legge il dispositivo della sentenza.

Visti gli articoli 479 e 482 del C. P. P. il Tribunale assolve gli imputati Luigi Avalli, Domenico Dal Toso, Ivo Emett, Giorgio Pittaluga, Ugo Graioni dal reato di diffamazione loro ascritto in ordine ai fatti specificati nei numeri 1 e 2 dell’opuscolo 'Russia' essendo provata la verità dei fatti stessi, e dalle diffamazioni relative ai fatti specificati dai numeri 3 e 4 e dall'ultima pagina dell’opuscolo perché il fatto non costituisce reato. Condanna inoltre il querelante sen. Edoardo D'Onofrio al pagamento delle spese processuali.

A titolo di curiosità ci piace qui ricordare che, durante la sospensione dell’udienza e mentre i giudici erano riuniti in Camera di Consiglio, D'Onofrio si è avvicinato all'avv. Taddei e gli ha detto con una certa vivacità: 'Avete, fatto male ad insistere sulla mia condanna. Se sarò condannato, non staranno meglio quelli che sono rimasti in Russia'. Chi ha riferito la breve ma significativa frase ha forse capito male? Ce lo auguriamo vivamente. Perché, tra l'altro, è buona regola che chi gioca deve essere pronto a perdere e soprattutto a saper perdere con dignità. Sono i serpi che mordono il piede che ha loro pestato la coda...

Il pubblico ha accolto la sentenza nella più grande compostezza e soltanto quando il Tribunale si è definitivamente ritirato e il sipario è finalmente calato su questa dolorosa vicenda, si sono avute le prime reazioni. I reduci sono completamente assediati da parenti e da amici. Fuori, nei corridoi, la folla si è moltiplicata e quando gli avv. Taddei e Mastino Del Rio escono insieme con i loro 'ragazzi' la folla li circonda, li benedice, vuole toccarli, vuole dir loro tutta la devozione, tutto il ringraziamento. Molte donne piangono di commozione e negli occhi dei giovani brillano le lacrime.

Ma nella gioia di tutti non sono stati dimenticati i compagni lontani, coloro che languono ancora nei campi di Russia. I 'ragazzi' hanno chiesto che il totale di lire 3.256.840 cui assommano le spese processuali venga devoluto al Ministero della Difesa perché lo destini a favore delle famiglie dei militari italiani, non criminali di guerra, tuttora trattenuti come prigionieri dal governo sovietico.

Appuntamento a Busto Arsizio

Finalmente una nuova serata per parlare di Russia... della Campagna di Russia e dei nostri soldati; lo faremo in un modo diverso, raccontando anche quello che abbiamo visto con i nostri occhi e provato nel nostro intimo nel camminare in quei luoghi così tanto lontani dalla vita di tutti i giorni.

Busto Arsizio, venerdì 15 ottobre alle ore 21, presso Comunità Giovanile!

lunedì 27 settembre 2021

Woroschilowa, parte 2

Woroschilowa: un buco senza speranza, di Giulio Ricchezza - seconda parte.

Il giorno 2 gennaio, dunque, un vento fortissimo investe tutto il settore del CSIR; la faccia più brutta del già duro inverno russo ha fatto la sua apparizione. "Avevamo tutti la barba, ma di ghiaccio", dice un testimone; "era sufficiente uscir fuori dell’isba e subito il fiato si rapprendeva al volto in minuti cristalli che si solidificavano aumentando il volume, fino a creare una vera e propria frangia che dalle nari scendeva oltre il mento; se muovere la bocca diveniva impossibile, perfino il respirare si faceva difficile". Il 6 dello stesso mese il generale Dupont, già comandante dell'artiglieria italiana, assume il comando della divisione Torino sostituendo così il generale Manzi che è stato colto da un improvviso crollo nervoso ed è stato quindi rimpatriato d'urgenza. C'è da osservare che i nervi non saltano solo a lui, ma anche a molti dei soldati.

Il 13 gennaio, in un maldestro tentativo di venire incontro alle richieste del generale Messe, parte da Aosta un battaglione sciatori, il Monte Cervino, per dare ai provati uomini del CSIR quell'aiuto che essi richiedono con voce angosciata. I Tedeschi, dal canto loro, e l'abbiamo già visto attraverso le parole del reduce, sembrano unicamente occupati del mantenimento delle posizioni conquistate; paiono in particolare preoccupati dalla cosiddetta quota 331; essa, infatti, può - grosso modo - venir considerata come una sorta di cerniera per l'intero schieramento difensivo delle truppe italiane. Ed è per questo che in pratica ordinano al CSIR la resistenza ad oltranza.

Abbiamo già parlato, in altre occasioni, delle diversissime concezioni strategiche che regnavano rispettivamente in campo tedesco e in quello italiano. Rammentiamo qui, di sfuggita, che i Tedeschi erano per una difesa mobile e disseminata su ampio fronte (il che era loro permesso dal numero di mezzi corazzati e di autotrasporti a loro disposizione), mentre gli Italiani combattevano in quei giorni con la medesima tecnica e gli stessi criteri operativi già esperimentati alla fine del secondo conflitto mondiale. Resistere ad oltranza significava per loro quindi solo una cosa: rimanere sul posto (con le poche, o nessuna, mitragliatrici pesanti, qualche mortaio, una protezione di artiglieria che era meglio non vi fosse, considerati gli effetti), e prendersi sul capo tutte le gragnuole di colpi che i Russi spedivano regolarmente con un impressionante dispendio di proiettili.

È proprio, dunque, su quota 331 e nel villaggio di Woroschilowa che il modo di combattere italiano vien messo duramente in crisi: "Woroschilowa è una delle cose più tristi e tragiche; perché era già nata sotto una cattiva stella, con il presagio indefinibile che dovesse andar male per forza, perché c'erano le condizioni - oggettivamente parlando - più contrarie possibili e perché il nostro morale era a terra ...". Questa Woroschilowa altro non è se non un gruppetto di isbe che solamente qualche mese prima nessuno avrebbe degnato di uno sguardo; c'è voluta tutta la cocciutaggine del LIX Corpo tedesco per farne un caposaldo di primaria importanza. Il villaggetto è annidato nel fondo della balka, come abbiamo detto; orbene, dato il tipico andamento di questi canaloni che tagliano all'improvviso la steppa e non risultano visibili se non a due passi di distanza (si fa per dire), di lontano non si scorge nulla: di Woroschilowa, delle sue isbe, pare non vi sia nemmeno traccia.

Proprio in mezzo a queste case i legionari della Tagliamento, al comando del console Nicchiarelli, hanno imbastito delle fragili difese, talmente fragili che vanno in pezzi alla prima scarica di obici e granate che piove da parte russa; non è colpa loro, beninteso; è che il villaggio - proprio a causa della sua posizione - è facilmente convertito in una trappola per topi: sono sufficienti delle artiglierie e dei mortai ben piazzati e il gioco è fatto; per gli Italiani non vi è via di scampo. Le Camicie Nere della 63a Legione, già messe a dura prova, logorate, tragicamente ridotte dai combattimenti precedenti trovano qui un ben mesto e triste epilogo.

Il 18 gennaio, infatti, i Russi premono in forze contro quelle case; intendono spazzar via l'improvvisata resistenza italiana. Nicchiarelli e i suoi riescono però a tener duro, anche se la balka è piuttosto stretta, offre ben scarso campo di tiro ed è soggetta - come intuibile - alle offese provenienti dai costoni dominanti. Le considerazioni strategiche che hanno fatto di quel villaggio il cardine della difesa Nowo Orlowo-Timofiewski non banno preso in considerazione un piccolo particolare: con uomini mal ridotti come quelli di Nicchiarelli e in quelle particolari circostanze resistere non è la cosa più agevole. Ma torniamo alla testimonianza diretta, al ricordo di chi può dire "io c’ero": "La difesa, rammento, era appoggiata proprio al gruppetto di case, in quella sorta di canalone che si snodava a circa cinque o forse sei chilometri dalla quota. Le case di Woroschilowa, insomma, avevano almeno il vantaggio di dare una parvenza se non altro di ricovero, di sicurezza; ma, intendiamoci, era un fatto puramente psicologico. Quei poveri diavoli della Tagliamento, come vivevano? È una cosa impossibile a dirsi: stavano sotto un muricciolo, vicino a uno spuntone di isba rimasto ancora in piedi, all'addiaccio, senza un riparo. Nicchiarelli viveva in una sorta di buca in cemento, uno di quei pozzi in cui i Russi cacciano il materiale, le provviste invernali (dev'essere in cemento o qualcosa di simile, altrimenti i topi fan fuori tutto).

Mi ricordo che quando sono andato a trovarlo - quattro o cinque giorni prima del 25 (eravamo andati a stabilire una sorta di contatto per sapere come avremmo dovuto sistemarci noi, in previsione di un loro rientro; essi erano, infatti, allo stremo) - quando, dunque, mi sono recato da lui, se ne stava tutto chino dentro quel buchetto di due o tre metri quadrati. Si doveva scendere qualche gradino, si andava sotto: là, almeno, c'era un certo qual effettivo riparo; e lui, curvo sulla carta a studiare la situazione. Ma i colpi di artiglieria russa arrivavano fin lì; un vero inferno. In quelle poche ore che son stato lì, devo aver fumato due o tre sigarette; non per altro, ma perché era appena stato scatenato dai Russi uno di quei bombardamenti da far paura; non c'era niente da fare; solo si doveva aspettare di crepare; la cosa poteva avvenire da un momento all'altro. Io, dunque, mi ero messo a fumare, cosa che non era nelle mie abitudini; e fuma una sigaretta, poi accendine un'altra, mentre quegli scoppi facevano tremare ogni cosa; sembrava che il suolo dovesse sollevarsi, ondeggiare, spaccarsi in due. Era come un modo di far testamento, di riflettere attraverso il fumo azzurrognolo sulla propria situazione; allora non avevo ancora moglie; ero un tenente giovane, come si diceva allora, 'di belle speranze': ma mi chiedevo come avessero fatto a starsene lì, quelli della Tagliamento, tutti quei giorni, in quell'anticamera della morte".

Nicchiarelli, dal canto suo, sfinito anche lui come tutti i suoi uomini, fa pietà a vedersi: "Poveretto: si grattava la testa in continuazione: aveva il collo pieno di pidocchi; il suo volto era tirato, gli occhi arrossati, segnati dalla fatica, dalla veglia". Non ci si lava, non si può dormire, è già molto se si ha il modo di mettere una frolla galletta immersa un attimo nell’acqua calda (un po’ di neve fatta sciogliere nella scatoletta vuota della carne della sera prima) e di cacciarsi quella in bocca masticando meccanicamente senza badare al sapore nauseabondo. Davanti al villaggio, sulla steppa gelata, insepolte, giacciono molte Camicie Nere. Accanto a quel gruppo di macerie, c'è un numero impressionante di morti. E le perdite aumentavano di giorno in giorno senza che si potesse arrestare in una maniera o nell'altra quella continua emorragia. Nicchiarelli decide infine di abbandonare quel buco senza speranza. È una soluzione perfettamente accettabile, anche da un punto di vista puramente tecnico; è vero che su Woroschilowa si basa tutta la difesa di quota 331 - altrimenti intenibile, come si è già detto - ma è altresì vero che non ha senso resistere in quel modo; tanto vale uccidersi con la propria arma.

Così il 23, a sostituire quelli della Tagliamento che abbandonano il posto, si muovono i bersaglieri del XVIII Battaglione; ma non fanno in tempo ad andare avanti che un concerto d'artiglieria russo seguito da un violentissimo attacco li arresta e li obbliga, in seguito, a ripiegare. I Tedeschi sono furibondi: impongono agli Italiani di "lavar subito l'onta", di rioccupare al più presto quel buco dissanguatore. E Nigra, il tenente colonnello Nigra che è arrivato fresco fresco dall'Italia per sostituire temporaneamente il maggiore Ercolani (ammalato) e che adesso comanda il XVIII, dice di sì e si mette sull'attenti. Agli ordini si obbedisce senza giudicare.

Fotografia dell'archivio storico della Legione Tagliamento: Camicie Nere nella steppa intorno a Woroschilowa.

mercoledì 22 settembre 2021

Con la morte sul berretto

Artigliere alpino Bruno Rizzi, Reparto Munizioni e Viveri, Gruppo Vicenza, 2° Reggimento Artiglieria Alpina

[...] Il giorno il 30 gennaio si camminava su una pista in lunga salita, avevo i piedi gravemente congelati, la stanchezza mortale fece sì che a un dato momento io cadessi sulla neve, l'ufficiale di coda tenente Michele Milesi mi invita a rialzarmi, è pericoloso fermarsi qui mi dice, ma io non mi mossi, e il reparto proseguì la sua strada.

Rimasi sulla neve lungo disteso, come morto, tutta la colonna mi sorpassò senza che nessuno si degnasse di uno sguardo tanto erano frequenti questi ritardi sulla direzione di marcia, io non pensavo altro che a riposare, ero rassegnato a tutto, del resto non potevo più camminare, e così piano piano la morsa del gelo mi pervase, sentivo uno strano torpore di benessere invadere tutto il corpo, e nel frattempo sopraggiunse la notte, quasi per istinto tenevo a fatica gli occhi aperti, le ore passavano, rimasi completamente solo sulla immensa distesa nevosa...

Si avvicinava la morte bianca! Poi due alpini isolati, vestiti di bianco, ed essi pure congelati passarono lentamente accanto a me. "Paisà, guarda come si fa a morire...". Io devo la vita a questi sconosciuti alpini bresciani, perché quella frase che sapeva di morte mi risvegliò alla vita.

Quella notte stessa tra il 30 e il 31 gennaio una sezione di carristi tedeschi della divisione corazzata Das Reich operante nella zona, mi raggiunse nella notte fonda in un'isba dove mi ero rifugiato assolutamente immobilizzato; cercavano un luogo adatto per stabilire il comando di sezione e lo trovarono proprio alla maniera tedesca; con un calcio si spalancò la porta della mia isba. Ma devo anche riconoscere di essere stato fortunato, perché evidentemente per questo lavoro avevano incaricato l'ufficiale medico del reparto; appena mi vide mi illuminò con la potente lampada, e nel medesimo istante mi puntò la rivoltella, forse nel timore di trovare un soldato russo armato, poi cautamente si avvicinò a me, e disse: "Da... italiano...".

Volle sapere le mie generalità, e a quale reparto io appartenevo. In quel momento, confesso, mi batteva il cuore, cosa avrebbe fatto il tedesco vedendomi immobilizzato? Era risaputa da tutti noi la crudeltà del SS tedesche... Invece, con grande mia meraviglia, il tono della sua voce si fece più tranquillo, forse per il rispetto che avevano nella zona per gli appartenenti alle truppe alpine. Come era possibile che un ufficiale tedesco si interessasse a fondo per un soldato italiano in una zona dove scorrazzavano ancora i carri armati T 34?

Quando ero solo nella mia isba non sentivo forse il cannone tuonare continuamente come un avvertimento alla estrema pericolosità della situazione? O forse una madre pregava per me da molto lontano? Io devo la vita anche a questo ufficiale tedesco vestito di nero, con la morte sul berretto, allo stesso modo come qualche tempo prima la voce stanca del due alpini bresciani risvegliò in me il senso della conservazione. Questo ufficiale ebbe per me parole di conforto, mi medicò in modo energico, ed infine mi fece caricare su un treno che, appena carico, parti immediatamente.

Si concludeva così in modo miracoloso la mia personale avventura, non senza però aver lasciato sul mio corpo i segni indelebili delle basse temperature, a perenne ricordo della campagna di Russia.

RICCARDO

Ricerca dei cimiteri italiani in Russia

Pubblico un interessantissimo documentario relativo alle sepolture dei nostri caduti in Russia. Grazie Stefano Olivieri per il contributo graditissimo; sono convinto che molti lo apprezzeranno.

sabato 18 settembre 2021

Onori a Dorligo Albisetti

Domani non sarò a Cargnacco come tante altre volte gli anni scorsi... ho quindi deciso di "andare a trovare" uno dei tanti caduti di Russia.

Ho trovato anni fa per caso la tomba del Capitano Albisetti quando mi recai a visitare il Sacrario dei Paracadutisti di Tradate; non conoscevo nulla di questo caduto, ma mi aveva colpito il fatto che fosse uno dei purtroppo pochi "rientrati" tanti anni dopo la fine della guerra.

Dorligo Albisetti (8/12/1912 - 11/12/1942), comandante della 112ª Compagnia del battaglione “Val Chiese” (6º Reggimento Alpini - Divisione “Tridentina”) cadde in Russia nel dicembre del 1942 dopo aver meritato la medaglia d’argento al Valor Militare durante la battaglia di Kotowsky (settembre 1942), a cui partecipò, nei ranghi del Battaglione “Vestone” (lo stesso di Mario Rigoni Stern), anche un giovane sottotenente, Raffaele Pansini, destinato a divenire un illustre clinico nonché preside dalla Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università ferrarese. Pansini avrebbe poi descritto in maniera particolareggiata il combattimento nel suo libro “Martino e le stelle- Storie di uomini e di penne d’aquila” (Grafiche Zanini, Bologna, 2002).

Come dice la motivazione della medaglia, Albisetti “caduto il comandante di una compagnia fucilieri con la quale si trovava a cooperare, ne assunse il comando, riuscendo a raggiungere le ultime difese nemiche, dopo aver espugnato numerose posizioni”. E il capitano Biagio Festini, suo commilitone, nel secondo volume di “Fronte russo: c’ero anch’io” (Mursia, 1983), curato da Giulio Bedeschi - indimenticato autore di “Centomila gavette di ghiaccio”- lo definisce «valido ufficiale, solidamente tempratosi nella campagna d’Albania».





Aggiornamenti 2021

Quasi certamente anche quest'anno il previsto trekking invernale lungo il percorso della ritirata della Divisione Tridentina dal Don a Nikolajewka non verrà effettuato; l'attuale situazione internazionale legata alla diffusione del virus Covid impedisce al momento di potersi recare nella Federazione Russa per motivi di turismo.

Attualmente la Farnesina ha inserito la Federazione Russa nei paesi dell'elenco "E" per i quali vige la seguente normativa:

SPOSTAMENTI VERSO PAESI DELL’ELENCO E – FINO AL 25 OTTOBRE 2021

In base all’Ordinanza 29 luglio 2021, prorogata fino al 25 ottobre con Ordinanza 28 agosto 2021, gli spostamenti dall’Italia verso tutti i Paesi dell’elenco E sono consentiti solo in presenza di precise motivazioni: lavoro; motivi di salute; motivi di studio; assoluta urgenza; rientro presso il domicilio, l’abitazione o la residenza propri o di persona, anche non convivente, con cui vi sia una relazione affettiva stabile e comprovata. Non sono quindi consentiti spostamenti per turismo verso Paesi dell’elenco E.

Dubito che con l'approssimarsi dell'inverno la situazione possa migliorare, anzi... se mai dovesse cambiare in tempo utile ne darò notizia. Al momento in ogni caso i posti a disposizione sarebbero pochissimi, in quanto diverse persone si sono già prenotate.

Se questo trekking invernale non si farà, sarò costretto a rimandare tutto ancora di un anno, esattamente a gennaio 2023, 80° anniversario della ritirata di Russia, quella più famosa ma non l'unica considerando che esattamente un mese prima, furono le divisioni di fanteria a sganciarsi dal Don direzione ovest o sud-ovest in cerca della salvezza.

Anche se a tale data, oggi, manca oltre un anno, e considerando il particolare anniversario, consiglio di opzionare senza impegno un posto, in modo da avere la possibilità di partecipare. Per poterlo fare è sufficiente scrivermi e fare presente il desiderio di essere inclusi nella lista in definizione. I miei riferimenti sono tutti presenti su questa pagina.

Ricordo che questa iniziativa, come altre in fase di definizione, è possibile grazie all'Associazione Culturale "Sulle orme della Storia".

venerdì 17 settembre 2021

Woroschilowa, parte 1

Woroschilowa: un buco senza speranza, di Giulio Ricchezza - prima parte.

"Son passati tanti anni da allora, ed entrar adesso nei particolari è abbastanza difficile: comunque la sostanza dei fatti è grosso modo questa: dopo la famosa battaglia di Natale, la Celere, e in particolare il 3° Reggimento bersaglieri, era davvero ridotta a quattro gatti...". È il racconto di un reduce, una lunga narrazione che abbiamo registrato su nastro e poi trascritta sintetizzandola; è la cronaca minuta di un'amara sconfitta, di una battaglia che ha nome Woroschilowa, combattuta e persa il 25 gennaio 1942...

"Davanti a noi" si ode dal magnetofono - il nastro continua a girare, la voce del reduce racconta piana, pacata, come se quei ricordi si fossero, nel frattempo, decantati "... davanti a noi c’era quota 331, quota Trucchi, così chiamata dal nome di un valoroso che vi si era imolato; essa si elevava, a circa tre o quattro chilometri di distanza, in linea d'aria intendo; ma era una quota per modo di dire; era insomma un semplice rilievo del terreno che faceva contrasto con il piatto del paesaggio circostante: una cosa ridicola, in altre parole: eppure serviva ai reparti tedeschi per dominare la zona antistante, per poter controllare ciò che avveniva nella piana. Starvi sopra era praticamente impossibile, però; infatti, era sottoposta a un fuoco continuo da parte avversaria e non offriva nessun appiglio: non c'era un ricovero, un rudere, che so, una pianta: niente di niente.

Eppure i Tedeschi, cocciuti come sempre, volevano tenerla ad ogni costo; da lì avevano intenzione di dilagare ai lati creando insomma una specie di baluardo che proteggesse il retro del fronte. Ma questo fronte non era un fronte: voglio dire che si combatteva dappertutto e che dovunque, in qualunque settore dello schieramento, o anche nelle sue retrovie, poteva sorgere, all'improvviso, il combattimento: potevano essere dei partigiani, o degli irregolari, potevano essere perfino gli stessi contadini, o le milizie locali inquadrate dai Tedeschi, che mostravano ad un tratto il loro vero volto, che brandivano le armi contro di noi o contro i nostri alleati del momento. Ecco, io quello che ricordo soprattutto della Russia è questo: il senso di panico, l'incertezza quotidiana che prendeva noi che si era in linea...".

Non erano solo loro, i bersaglieri, ad essere in linea, evidentemente; tutti quei luoghi all'intorno avevano visto impegnati a turno l'uno o l'altro dei reparti del CSIR e proprio lì, nella zona, c'erano i legionari della Tagliamento. Adesso, tanto per avere un quadro della situazione, provate a immaginare questa piana brulla di cui parla il reduce; laggiù, alle spalle, il villaggio di Michailowka con le case disposte lungo una sorta di tratturo che si diparte, al centro del paese, in tre tronconi: uno di questi, poco più di un sentierino, corre dritto verso nord salendo fino a quota 331 e scendendo poi, mantenendosi più o meno in linea retta, verso una balka. Al fondo di questa le case di Woroschilowa. Sulla sinistra, a ovest insomma, il villaggio di Nowo Orlowo; sulla destra, invece, un secondo villaggio, un poco più grosso del precedente, che ha nome Orlowo lwanowka; lontano, una quindicina e più di chilometri, Petropawlowka, e la linea ferroviaria serpeggiante, sempre verso nord, in direzione di Nikitino.

Gli avvallamenti del terreno non superano mai i trecento metri sul livello del mare; è quindi una vera e propria pianura appena appena ondulata, con qualche lieve depressione (le cosiddette balke). Ecco, qui, il paesaggio. Adesso, però, prima di affrontare la compiuta narrazione dei fatti, vediamo un po' il panorama degli avvenimenti; ma così, in generale, per sommi capi. Con l'arrivo del nuovo anno si era cercato di pompare linfa nuova nel CSIR; quest'ultimo era fortemente ridotto a causa delle perdite subite nei lunghi mesi del 1941.

Era stato perciò deciso di dare maggiore mobilità ai reparti e agli uomini, costituendo dei gruppi tattici più agili e manovrieri. Rimaneva naturalmente il solito problema di fondo, e cioè la cronica mancanza di armi e di equipaggiamenti sufficienti, aggravato per di più da tre grossi nodi rimasti ancora insoluti. Il primo era quello della sistemazione invernale, ancora da completare. Il secondo era l'impossibilità di ricostituire le dotazioni delle unità maggiormente provate; il terzo, infine, quello dell'avvicendamento dei reparti che erano in linea da troppo tempo.

Si tenta di affrontare i rigori dell'inverno trasformando le isbe superstiti dei villaggi in minuscoli ricoveri, sorta di microscopiche e sparpagliate caserme; i comunicati "ufficiali" definiscono questo provvedimento "appoggio di tutti i nuclei operativi e dei raggruppamenti tattici a villaggi"; frase alquanto tortuosa come si vede; non certo chiara. La sostanza è molto più modesta: non esiste niente in Russia, in quella piatta Ucraina, se non il villaggio, l'agglomerato di case lungo il sentiero o lo stradone in terra battuta coperto ora di neve ghiacciata. Qui è l'unico punto in cui si possa stare; lontani di lì si muore: di freddo, di stenti, di fame perfino; perché il gelo rende il pane duro come sasso, e anche la carne in gelatina, dell'immancabile scatoletta, è come pietrificata.

Per il secondo punto, quello delle dotazioni, Messe, il comandante del CSIR, ha già parlato con i Tedeschi: ha detto loro chiaro e tondo che il coraggio individuale non serve a niente, anzi a meno di niente quando mancano i viveri e le munizioni. Pensare di sostituire gli uomini rimasti per sempre in terra ucraina, falciati dal nemico, è un'impresa ardua se si considera che ci vuole un mese per far giungere dall'Italia altri soldati. Il viaggio dalla madrepatria, per di più, a causa dell’intasamento delle scarse linee ferroviarie e della mancanza di trasporti, si svolge in condizioni così precarie che il 90% degli uomini arriva al fronte russo stanco e segnato dalle fatiche.

Neppure sette giorni dopo, congedatosi bruscamente dai Tedeschi, Messe scrive al Comando Supremo queste parole secche secche: "... mancata sostituzione 3a Celere, veramente logora, stremata energie, condizioni igieniche et menomazione efficienza materiale, rende precaria capacità resistenza ulteriori attacchi in forze". La Celere rimane uno dei principali cardini del CSIR, la cui costituzione, all'inizio del 1942, è la seguente: il comando si trova sempre a Jassinowataja; la divisione Pasubio è schierata in un settore alquanto ampio, che arriva sino al fiume Bulawin (è sufficiente dare un'occhiata anche di sfuggita a una qualunque carta della zona per sincerarsene); la divisione Torino (quella rimasta celebre per aver percorso millecinquecento chilometri a piedi da Falticeni al Don, quella che in altre parole passerà alla storia per aver attraversato tutta l'Ucraina sul cavallo di San Francesco - Falticeni è in Romania) la divisione Torino, dicevamo, se ne sta dalle parti di Rikowo; la nostra divisione Celere - i cui uomini sono i protagonisti dell'episodio che dobbiamo narrarvi - si trova come punto base in quel di Rassipnaja. Rimane la Tagliamento: i legionari si trovano a Woroschilowa.

Potremmo anche far punto qui e passare alla cronaca dei fatti, ma vogliamo aggiungere due piccole precisazioni; le parole di Messe che abbiamo testé citato acquistano un significato di monito e, vorremmo dire, anche di presagio se si pensa alla dispersione delle forze italiane su un fronte troppo ampio. La seconda è questa: lo stato maggiore tedesco ha insegnato al mondo in guerra che tutto quello che è stato fino a quel momento detto nelle scuole di applicazione d'arma va, più o meno, gettato nella spazzatura; la seconda guerra mondiale non si combatte con l'ausilio delle carte illustranti le battaglie della prima. Le puntate offensive - dice la nuova scuola di guerra tedesca - vanno effettuale coi corazzati appoggiati dall'aviazione.

Dietro i carri deve però venire la fanteria con il compito di demolire le ultime resistenze e ripulire le sacche create dalla penetrazione delle colonne corazzate. I Russi hanno subito imparato la lezione; hanno creato i cosiddetti desantji cioè unità composte da carri armati che trasportano, appollaiati dietro le torrette, soldati armati di parabellum. Al momento dell'impatto con il nemico i fanti balzano dai carri e impegnano i difensori in un serrato combattimento individuale, mentre i carri provvedono a demolire le postazioni d'artiglieria e i nidi di mitragliatrice. Proprio i desantji avranno ragione del fronte creato dagli Italiani in Russia, sfondandolo sulla linea del Don; questo avverrà beninteso più tardi, circa un anno dopo il fatto che adesso è giunto, davvero, il momento di raccontare.

Cargnacco 2021

Domenica 19 Settembre 2021 - GIORNATA NAZIONALE DEL CADUTO E DISPERSO IN RUSSIA.

Come ogni terza domenica di settembre anche quest'anno si svolgerà la Tempio-Sacrario di Cargnacco (Udine) la cerimonia in ricordo di tutti i caduti e dispersi della Campagna di Russia.

Leggo che Mattarella è stato formalmente invitato a partecipare; sarebbe il primo presidente a farlo in forma ufficiale; solo Cossiga lo fece anni fa ma in forma privata. Mi chiedo... in tutti questi anni non un presidente ha sentito il bisogno di esserci, di presenziare, non solo per i caduti e i dispersi di quella tragica campagna, ma anche e soprattutto per i parenti di quei sfortunati ragazzi. Per dare un segnale, per dire che almeno un giorno all'anno, anche solo per qualche ora, il più importante rappresentante di questo stato si è ricordato del loro sacrificio.

Mattarella sarà a Rivolto per il 60° anniversario delle nostre Frecce Tricolori; senza dubbio un evento importante, ma... più importante del ricordare migliaia di ragazzi mai tornati? Solo 20 km separano la base di Rivolto al Tempio-Sacrario di Cargnacco...

Di seguito il programma della cerimonia:
h 09:30 Raduno partecipanti
h 10:00 Afflusso autorità e invitati
h 10:30 Schieramento reparti - A seguire: ingresso gonfaloni, Medagliere Nazionale U.N.I.R.R., labaro Famiglie Caduti e Dispersi in Guerra e bandiere
h 10:45 Alzabandiera - A seguire: onori ai Caduti - Deposizione corona di alloro Trasferimento all'interno del Tempio-Sacrario
h 10:55 Allocuzioni Presidente Nazionale U.N.I.R.R. e autorità
h 11:00 S. Messa in memoria dei Caduti e dei Dispersi
h 12:30 Onori ad un Soldato Ignoto di Russia e omaggio floreale al sacello di Mons. Carlo Caneva

mercoledì 15 settembre 2021

Il viaggio del 2011, Scheljakino

Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... Scheljakino.



Rapporto sui prigionieri, parte 4

Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

I PRIGIONIERI.

Ufficialmente, fino al 1990, l'URSS non aveva mai comunicato il numero dei prigionieri italiani catturati, ne tanto meno i loro nomi. Esistevano, tuttavia, dati di fonte russa divulgati dalla radio e dalla stampa sovietiche. Palmiro Togliatti, che in quell'epoca curava una trasmissione in lingua italiana da Radio Mosca con lo pseudonimo di Ercole Ercoli, in tre successivi interventi diede notizie sul numero degli italiani catturati dall'esercito sovietico. II 5 marzo del 1943 annunciò che essi erano 40 mila, che divennero 73 mila in una trasmissione successiva del 14 marzo e poi salire a 115 mila il 19 dello stesso mese.

Altra fonte russa è il giornale "L'ALBA", stampato a Mosca per i nostri prigionieri. La redazione era curata da un gruppo di emigrati comunisti italiani coordinati da Robotti e D'Onofrio. Il primo numero del giornale, in data 10 febbraio 1943, informava: "... dal 16 al 30 dicembre 1942, le Divisioni "Cosseria", "Pasubio", "Torino", "Sforzesca" e "Celere" furono disfatte. Più di 50 mila ufficiali e soldati italiani vennero fatti prigionieri. Nel gennaio le Divisioni "Julia", "Tridentina" e "Cuneense", la 156a Divisione di Fanteria [la Divisione "Vicenza" - n.d.r.] sono stare a loro volta disfatte sul fronte di Voronez ed altri 33 mila soldati ed ufficiali sono stati fatti prigionieri.....". Nel secondo numero dello stesso giornale, in data 20 febbraio, si leggeva: "... circa 50 mila soldati italiani sono morti Russia e quasi 80 mila sono prigionieri dell'Unione Sovietica...".

Un capitano russo, nel luglio del 1945, dichiarò al generale Geloso, "liberato" dall'Armata Rossa da un lager tedesco, che il numero dei prigionieri italiani catturati durante la campagna ammontava a circa 60/80 mila, ma che al momento erano ridotti a 20 mila. In questo balletto di cifre era problematico sapere quale fosse veramente il numero dei nostri prigionieri. Probabilmente, un primo approssimativo conteggio venne fatto quando le colonne - di solito formate da mille prigionieri - attraversarono il Don, ma numerosi prigionieri vennero rastrellati e recuperati anche molto tempo dopo.

I russi, in un primo tempo, non si preoccuparono di redigere liste nominative: soldati ed ufficiali, italiani e tedeschi e ungheresi, tutti mescolati erano solo dei numeri, delle entità che venivano contate e basta. Solo in seguito, quando i prigionieri vennero introdotti nei campi, furono rilevati i dati personali di ogni singolo individuo; tuttavia ciò non si verificò in tutti i campi oppure non regolarmente tutti i trasporti che vi affluivano. Di conseguenza, moltissimi prigionieri che erano morti durante i trasferimenti a piedi e poi in ferrovia, non poterono essere censiti ed è impossibile conoscere il loro numero e, tanto meno, la loro identità se non per qualche caso, grazie alla testimonianza dei sopravvissuti.

Un primo debole squarcio nel buio fitto che circondava la sorte dei nostri soldati, si ebbe quando Radio Mosca, alla fine della trasmissione giornaliera curata da Togliatti, cominciò a dare un breve elenco di nomi di prigionieri che, secondo l'annunciatore, stavano bene e salutavano le famiglie. Queste trasmissioni erano captate dalla Radio Vaticana che si premurava di darne notizia alle famiglie. La quantità dei nominativi segnalati (circa un migliaio nel corso di un anno) era insignificante rispetto alla massa degli assenti e diede più preoccupazioni che speranze. Arrivarono un centinaio di cartoline, spedite nel marzo del 1943 dal campo 188 di Tambov, ma quasi tutti quelli che le avevano scritte erano morti nel frattempo ed i russi non ripeterono l'esperimento. Questi, fino al 1945, furono gli unici canali, oltre tutto non ufficiali, attraverso i quali, in Italia, si ebbero notizie sui nostri prigionieri.

Nell'autunno del 1945, l'URSS restituì i soldati italiani prigionieri sul suo territorio e nel luglio del 1946 fece rimpatriare gli ufficiali. In totale, rimandava a casa 21.122 militari e dichiarava che in Russia non rimaneva nessun altro prigioniero, salvo 28 casi per i quali erano in corso provvedimenti giudiziari. Tale perentoria dichiarazione produsse nell'opinione pubblica un comprensibile choc, ma lo sbalordimento fu completo quando fu appurato che la metà dei rimpatriati non era stata catturata dai russi sul Don, cioè non apparteneva all'ARMIR.

Si trattava, infatti, di militari italiani sorpresi dai tedeschi l'otto settembre in Italia, in Jugoslavia, in Grecia o nelle Isole dell'Egeo ed internati nei lager nazisti: l'esercito sovietico li aveva "liberati" tra la fine del 1944 ed i primi mesi del 1945. Anziché mandarli in Italia (che era diventata cobelligerante degli alleati e quindi anche dei russi) furono rinchiusi nei lager sovietici e rimpatriati assieme ai soldati dell'ARMIR dopo dodici mesi dalla loro "liberazione". Che ritornassero appena diecimila uomini dell'ARMIR rispetto agli 85 mila che ufficialmente mancavano (oggi si è riscontrato che erano 95.000), destò l'assoluta incredulità dell'affermazione russa che in Russia non vi fosse più nessun italiano. Per chi non sapeva come erano andate le cose, era qualcosa di inconcepibile: veniva restituito poco più del 10% degli italiani che gli stessi russi avevano dichiarato di aver catturato.

La cosa sembrava tanto più inverosimile se si faceva il confronto con i prigionieri restituiti dalle altre nazioni. Inglesi, americani e francesi avevano catturato 614 mila uomini ne restituirono 607 mila (99%). Dei settemila mancanti, tremila erano rimasti in loco di loro volontà e quattromila erano morti, ma le famiglie erano state immediatamente informate. In Germania dopo l'otto settembre, erano stati internati 642 mila militari italiani, ne sono rimpatriati 606 mila cioè il 94%. Dalla Jugoslavia, Romania, Bulgaria, Grecia, Svizzera veniva restituito il 91% degli uomini nelle loro mani. Nelle famiglie degli assenti vi era la convinzione che moltissimi soldati si fossero creata una famiglia russa ed avessero rinunciato al rientro in patria. Tale ipotesi era abilmente sostenuta dagli ambienti filorussi, ma simile evenienza - che i reduci considerano estremamente remota per i motivi che saranno chiariti più avanti - non poteva certo spiegare il mancato ritorno di decine di migliaia di prigionieri. Un'ipotesi opposta era formulata dagli ambienti anticomunisti: migliaia di italiani, come del resto è avvenuto per i prigionieri tedeschi e giapponesi, erano trattenuti quali schiavi nei campi di lavoro dell' "Arcipelago Gulag". I prigionieri reduci respingono anche questa possibilità.

Più o meno in buona fede, i comunisti ed i simpatizzanti della Russia di Stalin, che allora erano quasi la metà degli italiani, non potevano ammettere che le cose raccapriccianti raccontate dai reduci, fossero accadute nel paese da loro ritenuto il modello della società futura. Le polemiche sulla stampa delle due opposte tendenze, in particolar modo quella locale, divenne infuocata e la questione dei prigionieri fu strumentalizzata a scopo elettorale. Il passare degli anni non ha mutato molto queste posizioni, le ha solo attenuate. Una larga fascia di nostri giornalisti, sedicenti storici, intellettuali e commentatori televisivi ha continuato fino a ieri a metter l'accento sul disastro della ritirata, unica responsabile della morte di tutti i nostri soldati, ignorando volutamente ciò che era avvenuto in prigionia.

A questa distorsione dell'informazione ha contribuito la mancanza, nella pur vasta memorialistica sulla prigionia di Russia, di un libro valido stilisticamente e di effetto, che avesse successo editoriale, cosa che invece avevano trovato le vicende della ritirala degli alpini. Ne è derivato che la maggior parte degli italiani hanno, della tragedia di Russia, il concetto di una ecatombe dovuta al freddo ed alle battaglie, piuttosto del fatto più realistico - anche se meno glorioso e meno retorico - di decine di migliaia di soldati costretti ad arrendersi per poi morire nel modo più incivile in mano a chi li aveva catturati.

Ora gli stessi russi ci hanno consegnato i nomi di 50 mila prigionieri italiani dell'ARMIR e ci dicono anche che 40 mila sono morti nei loro campi, il che vuol dire che su cento, solo venti sono sopravvissuti. E sono cifre parziali, perché - come si è detto sopra - migliaia di prigionieri dell'ARMIR sono morti prima di arrivare ai campi e prima di essere censiti. Migliaia, che vanno ad accrescere il numero dei catturati e quello dei morti in prigionia. Sono quelli che furono sbrigativamente passati per le armi al momento della cattura, quelli che sono crollati per sfinimento o sono stati uccisi durante le marce di trasferimento verso le retrovie. Innumerevoli poi sono morti negli inumani trasporti ferroviari protrattisi per settimane. Infine migliaia di prigionieri morirono d'inedia, di dissenteria, di setticemia per i congelamenti o le ferite non curate, nei primi centri di smistamento, nei quali non si effettuava, inizialmente, alcuna identificazione. Da quanto si è detto, risulta chiaro che il numero dei prigionieri fu altissimo ed altrettanto imponente il numero dei morti in prigionia.

Oggi, in base ai più recenti elementi a nostra disposizione, si può formulare il seguente consuntivo. Dei 95 mila uomini assenti alla fine della ritirata: 25 mila sono morti nel corso della medesima, 70 mila sono stati catturati. Di questi ultimi: 60 mila sono morti in prigionia, cosi ripartiti: 38 mila censiti dai russi nei lager, 22 mila durante le marce, i trasporti ferroviari e non censiti nei primi mesi; 10 mila sono sopravvissuti e sono stati rimpatriati. Preme ora l'interrogativo del perché e del come sia avvenuta tale immane ecatombe.

giovedì 2 settembre 2021

Il processo D'Onofrio, parte 16

Il processo D'Onofrio, sedicesima parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.

LA VENTOTTESIMA UDIENZA.

18 luglio 1949. - In una elegante rilegatura è apparsa sul tavolo dell’avv. Sotgiu, per la prima volta, una collezione completa del settimanale 'L’Alba' e il patrono di Parte Civile se ne è abbondantemente servito per dimostrare false le asserzioni del Pubblico Ministero, secondo il quale su quel foglio non trovavano ospitalità che espressioni del pensiero marxista e comunista.

Avv. Sotgiu: 'È vero che il settimanale era compilato da comunisti, ma ciò non toglie che esso fosse lo stesso 'una tribuna aperta a tutte le idee'. Che il giornale non fosse un organo della propaganda comunista sta poi a dimostrarlo il fatto che nella parte politica di esso voi non troverete mai un attacco al fascismo (perché i redattori sapevano bene che la maggior parte di quanti avevano la tessera non erano fascisti nell'animo) ma molti contro il nazismo. In compenso a quel settimanale collaboravano scrittori di tutte le tendenze politiche, vi si scrivevano articoli in cui si discutevano programmi e direttive di tutti i partiti democratici malgrado l'Italia non fosse stata ancora liberata. Al partito comunista veniva riservato lo stesso spazio eguale a quello riservato agli altri partiti.

Quindi non visioni particolaristiche in senso classista o marxista, ma unico scopo quello di preparare, attraverso la riconciliazione degli animi, quella unità morale degli italiani, indispensabile per affrontare la ricostruzione del Paese alla fine della guerra'.

Ricostruzione, si intende, a base di scioperi, agitazioni, prelevamenti e colpi alla nuca.

Avv. Sotgiu: 'Si è parlato di vita orribile nei campi di concentramento, ma basta sfogliare la collezione de 'L'Alba', per accorgersi della falsità di queste asserzioni. Infatti vi si trovano articoli e fotografie da cui è possibile avere conferma di cerimonie e di feste avvenute nei campi di prigionia. Appare per lo meno strano, dunque, quello che in udienza è stato raccontato dagli imputati e dai loro testi. E voi (puntando un dito accusatore verso il banco degli imputati) avete osato paragonare i campi di Tamboff, Krinovaia ed altri a quelli tedeschi di Mathausen e di Buchenwald? Vergognatevene. E ricordatevi che qualunque potrà essere la sentenza voi dovrete sempre rendere conto delle vostre false accuse alla civiltà di tutto il mondo'.

Avv. Sotgiu: 'Legga, il Tribunale, in Camera di Consiglio la rubrica 'La vita dei campi' alla quale collaboravano gli stessi prigionieri. In questa rubrica, il Tribunale troverà descritti gli svaghi, le provvidenze spirituali e morali che nei campi furono attuate in favore dei nostri prigionieri. Tra l'altro, il Tribunale apprenderà da questa interessante lettura, come cinque ufficiali italiani ebbero addirittura una licenza premio che trascorsero a Mosca. Nella rubrica che indico, questi ufficiali hanno lasciato scritto una descrizione delle meraviglie che videro in quella metropoli'.

L’avv. Sotgiu non spiega perché in Russia si danno licenze per ammirare le meraviglie di Mosca e non quelle d'Italia.

P.M.: 'Perché non ci dice pure che quei cinque ufficiali erano cinque attivisti?'.

L'interruzione, passata forse inosservata all’avv. Sotgiu nella foga oratoria, è stata raccolta a volo dall'avv. Paone il quale è scattato per protestare vivacemente e per rispondere al P. M. Al tentativo fatto dal Presidente di riportare la calma, l'avv. Paone ha replicato che ha creduto necessario intervenire perché il suo collega era stato interrotto.

P.M.: 'Egregio avvocato, io in quest’aula sono sempre presente, mentre lei, avendo già parlato, è scomparso'.

Ma non si è ancora spenta la eco di questo primo battibecco che subito ne sorge un secondo. Infatti l'avv. Sotgiu, proseguendo nell’esposizione della propria tesi, stava consigliando al Tribunale la lettura di una lettera del gen. Pasqualino, pubblicata da 'L'Alba', nella quale si elogia il servizio di assistenza sanitaria praticato nell’ospedale, assistenza di cui egli stesso ebbe occasione di fare esperienza, quando l'avv. Mastino Del Rio è intervenuto'.

Avv. Mastino del Rio: 'Perché non dite pure che il generale Pasqualino è tra i ventisette ufficiali che sono stati trattenuti in Russia?'.

Avv. Sotgiu: 'Vuol dire che il gen. Pasqualino non è stato trattenuto per ragioni politiche...'.

Avv. Mastino Del Rio: 'Diteci allora: perché la Russia non ce lo restituisce?'.

Ma quest’ultima domanda è rimasta senza risposta e l'avv. Sotgiu ha continuato illustrando l'attività degli emigrati politici nei campi di concentramento, e in particolare l'opera svolta dal D'Onofrio. Gli emigrati arrivarono nei campi dopo il periodo delle epidemie e loro prima cura fu quella di portare una parola di conforto a quei disgraziati fratelli. Gli imputati parlano di 'interrogatori', di 'vessazioni', di 'violazioni di coscienza'. Ma D'Onofrio come avrebbe potuto parlare ai prigionieri, dopo dieci anni di esilio, se non avesse prima guardato gli uomini in faccia? Se non avesse esaminato le loro idee?

Ecco, secondo la P. C. in che cosa consistevano gli 'interrogatori' e le 'vessazioni'. Ed una prova la troviamo ancora ne 'L’Alba' dove in uno dei primi numeri si legge un articolo di D'Onofrio dal titolo 'Chiacchierando con i prigionieri'. E quali le precise ragioni di queste conversazioni fra l'emigrato D'Onofrio e i prigionieri? Nient’altro che il desiderio di saggiare la loro coscienza, conoscere in qual guisa le vicissitudini avessero agito su di loro, riportarli alla piena realtà del momento. E del resto le conversazioni furono improntate alla più schietta italianità e patriottismo, alla più pura obiettività.

Avv. Sotgiu: 'Gli imputati e i loro testi hanno riferito che grande differenza c'era fra le conversazioni che il D'Onofrio teneva in pubbliche adunanze e quelle che aveva in privato con i singoli prigionieri. Ma se questo fosse vero noi ci troveremmo di fronte ad una tale illogicità, ad una tale incoscienza che davvero ne dovremmo rimanere sorpresi. C'è piuttosto da chiedersi: che bisogno aveva D'Onofrio di coartare le coscienze dei prigionieri? Tutti nei campi potevano liberamente esprimere le loro idee e il giornale murale era una palestra su cui ognuno poteva liberamente esercitare la propria critica. Del resto non è stato affatto dimostrato che coloro i quali volevano persistere nelle proprie convinzioni politiche subissero coercizioni morali o materiali'.

E qui l'avv. Sotgiu ha cominciato a parlare del caso del cap. Magnani e del ten. Ioli per dire che non è vero che essi si limitassero a fare dell’opposizione, ma continuarono tranquillamente a fare propaganda fascista senza che nessuno li disturbasse.

Avv. Sotgiu: 'E poi quale pericolo poteva mai rappresentare per la Russia o per il comunismo l'attività del cap. Magnani?'.

Assurda più che temeraria, è dunque da considerarsi l’accusa mossa contro D'Onofrio di aver costretto ufficiali prigionieri a rinnegare il loro credo politico anche con minacce. Ma di ciò si parlerà ancora perché all'avv. Sotgiu non sono state sufficienti neppure tre udienze per esaurire la sua arringa.

LA VENTINOVESIMA UDIENZA.

19 luglio 1949 - L'avv. Sotgiu non è tornato sul tema del cap. Magnani. Ha parlato invece ancora per tutta l'udienza per analizzare scrupolosamente il testimoniale della difesa e la circolare inviata dall’Unione Nazionale Reduci dalla Russia. Diciotto ore di una oratoria impetuosa - che ha reso quasi completamente afono il patrono di parte civile - per concludere che gli imputati non sono riusciti a provare le accuse mosse contro D'Onofrio.

Avv. Sotgiu: 'Pur non facendoci illusioni, attendiamo con tranquilla coscienza la vostra sentenza, signori del Tribunale, non per D'Onofrio, non per noi comunisti, ma per la vostra dignità stessa di cittadini e di magistrati. Io mi auguro, non per noi, ma per l'Italia, per la libertà e per la vostra grande funzione, che la vostra sentenza non sia di quelle che il domani cancella, ma la storia ricorda. La condanna dei diffamatori sarà 'l’orgoglio della magistratura italiana'.

L'avv. Sotgiu ha ripreso la sua arringa affermando che appare evidente dalla dimostrazione fatta, come la prova addotta dagli imputati è miseramente fallita nonostante tutto il testimoniale a discarico fosse stato in precedenza 'organizzato'.

Avv. Sotgiu: 'La posta di questo processo è ben altra che non una semplice campagna diffamatoria. Si tratta di un gioco molto più vasto. Non una delle accuse è stata provata.

Si è parlato di propaganda disfattista di D'Onofrio ed è risultato il contrario; si è parlato di persecuzioni contro coloro che manifestavano idee anticomuniste ed invece è stato dimostrato che nei campi di concentramento si poteva liberamente manifestare il proprio pensiero, si poteva ostentare la divisa fascista e salutare romanamente; non si sono raggiunte prove della verbalizzazione delle risposte date dai prigionieri in sede di conversazioni o di interrogatori come li hanno chiamati gli imputati; si è detto di un proclama invitante il popolo italiano alla ribellione, che è poi risultato essere un ordine del giorno di plauso al Re e a Badoglio; i vostri stessi testimoni che erano delle parti in causa, non hanno potuto confermare le accuse, quando non le hanno smentite, come hanno fatto quei dieci testi, i quali, chiamati a deporre sul fatto che il serg. Montalbano fu condannato a morte per colpa di D'Onofrio, non si sono presentati.

Il col. Longo ha mentito, sotto il vincolo del giuramento, quando è venuto a dire che non faceva parte del gruppo 'Amici dell'Alba'; la prova è nel numero 34 del settimanale e se non ci penserà il pubblico ministero mi assumerò egli stesso il compito di denunciarlo per falsa testimonianza. Il col. Zingales non si è presentato a deporre e ha dichiarato il falso per lettera'.

P.M.: 'Ma il col. Zingales lo avete chiamato voi a deporre!...'.

Avv. Sotgiu: 'Avrei voluto vedere se l’atteggiamento di questi testi sarebbe stato lo stesso e se essi non avrebbero invece rivendicato quanto è scritto, anche da loro, su 'Alba' se l'esito elezioni del 18 aprile fosse stato diverso da quello che è stato'.

Ma forse, in caso di vittoria del Fronte Popolare, sarebbero stati rispediti in Siberia.

Avv. Sotgiu: 'Tutto prova che tutto il processo, come ce lo ha presentato il Pubblico Ministero, viene a crollare e della sua requisitoria non resta neppure la parte relativa alla circolare di Kalinin sui commissari politici'.

Ad un ennesimo appunto mosso dall’avv. Sotgiu al Pubblico Ministero, di non avere cioè approfondito l'indagine dei documenti inerenti al processo e di aver soprattutto accusato D'Onofrio di appartenere alla polizia di Stato sovietica, il dottor Manca è scattato protestando.

Avv. Sotgiu: 'Il Pubblico Ministero, ha parlato di una legge italiana secondo la quale il D'Onofrio avrebbe perduto la cittadinanza, ma ha dimenticato di aggiungere che la stessa legge prevede una intimazione da parte del governo italiano con cui si avverte il cittadino di desistere dalla sua attività all’estero. Del resto sarebbe stato più corretto se il P. M. avesse contestato al querelante l'U.K.S. di Kalinin prima e non proprio all’ultimo momento'.

P.M.: 'Il suo rilievo è ridicolo. Lei sa perfettamente che il numero della 'Pravda' recante quel documento io l'ho avuto dopo'.

Avv. Sotgiu: 'Lei doveva ugualmente contestarlo al D'Onofrio. Non solo non lo ha fatto, ma ha tirato fuori la legge sulla cittadinanza che non riguarda il D'Onofrio, non ricorrendo in ogni caso gli estremi. Per affermare cose tanto gravi occorrono delle prove granitiche e voi non avete portato che falsità'.

C'è stato un vivace scambio di parole fra i due avvocati, è intervenuto anche l'avv. Paone in difesa di Sotgiu, il tutto inframezzato dalle squillanti scampanellate del Presidente che a stento è riuscito a sedare l'incidente, non prima però che Sotgiu avesse tacciato il P. M. di 'antigiuridico'.

L'avv. Sotgiu, ripreso l'argomento, ha poi affermato che la legge italiana sulla cittadinanza non poteva riguardare il D'Onofrio anche per il fatto che essa è applicabile quando l'esule abbia in terra straniera una occupazione retribuita. Il che non riguarda D'Onofrio. Il quale evidentemente in Russia campava d’aria. Ma se anche oggi i gerarchi comunisti sono pagati con rubli sovietici!?! Avv. Sotgiu: 'A nessuno è lecito oltraggiare l'esule che ha voluto mantenere fede alle proprie idee; ciò facendo si offendono tutti gli italiani i quali subirono infami sentenze dei Tribunali Speciali del fascismo'.

E siamo finalmente alla conclusione dell’arringa, con un altro accenno di passaggio al caso del cap. Magnani il quale non sarebbe rimasto in terra di Russia per ragioni politiche e tanto meno per colpa di D'Onofrio.

Avv. Sotgiu: 'Nessuno ha portato prove a questa accusa e del resto come si potrebbe provare che il Magnani, lo Ioli e gli altri furono trattenuti perché accusati di fascismo quando generali dichiaratamente fascisti sono stati rimpatriati? Il contrario è confermato dalle dichiarazioni rese dal sottosegretario agli esteri on. Brusasca e dal ministro Gasparotto in base alle quali ventisette italiani sono ancora trattenuti in Russia perché sospetti di crimini di guerra. C'è solo da augurarsi che l'inchiesta cui sono sottoposti abbia un esito negativo.

Signori, la vostra coscienza non può aderire ad una tesi che, colpendo Edoardo D'Onofrio, colpisce l'Italia. Assolvere costoro significa condannare quanti oggi siedono ai banchi del governo'. Forse l'espressione 'banchi del governo' è frutto di un lapsus linguae, volendo l'avv. Sotgiu alludere al settore di estrema sinistra dei banchi del Parlamento e non ai banchi del governo italiano che è... 'nero e reazionario' per definizione, perché non partecipa al blocco filosovietico dei paesi satelliti. Di 'crimini di guerra' delle truppe rosse in Grecia e in Cina agli ordini del Cominform, nessuno parla: forse quei delitti sono... strumenti progressivi di pace e sono discriminati innanzi alla giustizia bolscevica.

Rapporto sui prigionieri, parte 3

Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

I PERCORSI.







mercoledì 1 settembre 2021