mercoledì 15 settembre 2021

Rapporto sui prigionieri, parte 4

Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

I PRIGIONIERI.

Ufficialmente, fino al 1990, l'URSS non aveva mai comunicato il numero dei prigionieri italiani catturati, ne tanto meno i loro nomi. Esistevano, tuttavia, dati di fonte russa divulgati dalla radio e dalla stampa sovietiche. Palmiro Togliatti, che in quell'epoca curava una trasmissione in lingua italiana da Radio Mosca con lo pseudonimo di Ercole Ercoli, in tre successivi interventi diede notizie sul numero degli italiani catturati dall'esercito sovietico. II 5 marzo del 1943 annunciò che essi erano 40 mila, che divennero 73 mila in una trasmissione successiva del 14 marzo e poi salire a 115 mila il 19 dello stesso mese.

Altra fonte russa è il giornale "L'ALBA", stampato a Mosca per i nostri prigionieri. La redazione era curata da un gruppo di emigrati comunisti italiani coordinati da Robotti e D'Onofrio. Il primo numero del giornale, in data 10 febbraio 1943, informava: "... dal 16 al 30 dicembre 1942, le Divisioni "Cosseria", "Pasubio", "Torino", "Sforzesca" e "Celere" furono disfatte. Più di 50 mila ufficiali e soldati italiani vennero fatti prigionieri. Nel gennaio le Divisioni "Julia", "Tridentina" e "Cuneense", la 156a Divisione di Fanteria [la Divisione "Vicenza" - n.d.r.] sono stare a loro volta disfatte sul fronte di Voronez ed altri 33 mila soldati ed ufficiali sono stati fatti prigionieri.....". Nel secondo numero dello stesso giornale, in data 20 febbraio, si leggeva: "... circa 50 mila soldati italiani sono morti Russia e quasi 80 mila sono prigionieri dell'Unione Sovietica...".

Un capitano russo, nel luglio del 1945, dichiarò al generale Geloso, "liberato" dall'Armata Rossa da un lager tedesco, che il numero dei prigionieri italiani catturati durante la campagna ammontava a circa 60/80 mila, ma che al momento erano ridotti a 20 mila. In questo balletto di cifre era problematico sapere quale fosse veramente il numero dei nostri prigionieri. Probabilmente, un primo approssimativo conteggio venne fatto quando le colonne - di solito formate da mille prigionieri - attraversarono il Don, ma numerosi prigionieri vennero rastrellati e recuperati anche molto tempo dopo.

I russi, in un primo tempo, non si preoccuparono di redigere liste nominative: soldati ed ufficiali, italiani e tedeschi e ungheresi, tutti mescolati erano solo dei numeri, delle entità che venivano contate e basta. Solo in seguito, quando i prigionieri vennero introdotti nei campi, furono rilevati i dati personali di ogni singolo individuo; tuttavia ciò non si verificò in tutti i campi oppure non regolarmente tutti i trasporti che vi affluivano. Di conseguenza, moltissimi prigionieri che erano morti durante i trasferimenti a piedi e poi in ferrovia, non poterono essere censiti ed è impossibile conoscere il loro numero e, tanto meno, la loro identità se non per qualche caso, grazie alla testimonianza dei sopravvissuti.

Un primo debole squarcio nel buio fitto che circondava la sorte dei nostri soldati, si ebbe quando Radio Mosca, alla fine della trasmissione giornaliera curata da Togliatti, cominciò a dare un breve elenco di nomi di prigionieri che, secondo l'annunciatore, stavano bene e salutavano le famiglie. Queste trasmissioni erano captate dalla Radio Vaticana che si premurava di darne notizia alle famiglie. La quantità dei nominativi segnalati (circa un migliaio nel corso di un anno) era insignificante rispetto alla massa degli assenti e diede più preoccupazioni che speranze. Arrivarono un centinaio di cartoline, spedite nel marzo del 1943 dal campo 188 di Tambov, ma quasi tutti quelli che le avevano scritte erano morti nel frattempo ed i russi non ripeterono l'esperimento. Questi, fino al 1945, furono gli unici canali, oltre tutto non ufficiali, attraverso i quali, in Italia, si ebbero notizie sui nostri prigionieri.

Nell'autunno del 1945, l'URSS restituì i soldati italiani prigionieri sul suo territorio e nel luglio del 1946 fece rimpatriare gli ufficiali. In totale, rimandava a casa 21.122 militari e dichiarava che in Russia non rimaneva nessun altro prigioniero, salvo 28 casi per i quali erano in corso provvedimenti giudiziari. Tale perentoria dichiarazione produsse nell'opinione pubblica un comprensibile choc, ma lo sbalordimento fu completo quando fu appurato che la metà dei rimpatriati non era stata catturata dai russi sul Don, cioè non apparteneva all'ARMIR.

Si trattava, infatti, di militari italiani sorpresi dai tedeschi l'otto settembre in Italia, in Jugoslavia, in Grecia o nelle Isole dell'Egeo ed internati nei lager nazisti: l'esercito sovietico li aveva "liberati" tra la fine del 1944 ed i primi mesi del 1945. Anziché mandarli in Italia (che era diventata cobelligerante degli alleati e quindi anche dei russi) furono rinchiusi nei lager sovietici e rimpatriati assieme ai soldati dell'ARMIR dopo dodici mesi dalla loro "liberazione". Che ritornassero appena diecimila uomini dell'ARMIR rispetto agli 85 mila che ufficialmente mancavano (oggi si è riscontrato che erano 95.000), destò l'assoluta incredulità dell'affermazione russa che in Russia non vi fosse più nessun italiano. Per chi non sapeva come erano andate le cose, era qualcosa di inconcepibile: veniva restituito poco più del 10% degli italiani che gli stessi russi avevano dichiarato di aver catturato.

La cosa sembrava tanto più inverosimile se si faceva il confronto con i prigionieri restituiti dalle altre nazioni. Inglesi, americani e francesi avevano catturato 614 mila uomini ne restituirono 607 mila (99%). Dei settemila mancanti, tremila erano rimasti in loco di loro volontà e quattromila erano morti, ma le famiglie erano state immediatamente informate. In Germania dopo l'otto settembre, erano stati internati 642 mila militari italiani, ne sono rimpatriati 606 mila cioè il 94%. Dalla Jugoslavia, Romania, Bulgaria, Grecia, Svizzera veniva restituito il 91% degli uomini nelle loro mani. Nelle famiglie degli assenti vi era la convinzione che moltissimi soldati si fossero creata una famiglia russa ed avessero rinunciato al rientro in patria. Tale ipotesi era abilmente sostenuta dagli ambienti filorussi, ma simile evenienza - che i reduci considerano estremamente remota per i motivi che saranno chiariti più avanti - non poteva certo spiegare il mancato ritorno di decine di migliaia di prigionieri. Un'ipotesi opposta era formulata dagli ambienti anticomunisti: migliaia di italiani, come del resto è avvenuto per i prigionieri tedeschi e giapponesi, erano trattenuti quali schiavi nei campi di lavoro dell' "Arcipelago Gulag". I prigionieri reduci respingono anche questa possibilità.

Più o meno in buona fede, i comunisti ed i simpatizzanti della Russia di Stalin, che allora erano quasi la metà degli italiani, non potevano ammettere che le cose raccapriccianti raccontate dai reduci, fossero accadute nel paese da loro ritenuto il modello della società futura. Le polemiche sulla stampa delle due opposte tendenze, in particolar modo quella locale, divenne infuocata e la questione dei prigionieri fu strumentalizzata a scopo elettorale. Il passare degli anni non ha mutato molto queste posizioni, le ha solo attenuate. Una larga fascia di nostri giornalisti, sedicenti storici, intellettuali e commentatori televisivi ha continuato fino a ieri a metter l'accento sul disastro della ritirata, unica responsabile della morte di tutti i nostri soldati, ignorando volutamente ciò che era avvenuto in prigionia.

A questa distorsione dell'informazione ha contribuito la mancanza, nella pur vasta memorialistica sulla prigionia di Russia, di un libro valido stilisticamente e di effetto, che avesse successo editoriale, cosa che invece avevano trovato le vicende della ritirala degli alpini. Ne è derivato che la maggior parte degli italiani hanno, della tragedia di Russia, il concetto di una ecatombe dovuta al freddo ed alle battaglie, piuttosto del fatto più realistico - anche se meno glorioso e meno retorico - di decine di migliaia di soldati costretti ad arrendersi per poi morire nel modo più incivile in mano a chi li aveva catturati.

Ora gli stessi russi ci hanno consegnato i nomi di 50 mila prigionieri italiani dell'ARMIR e ci dicono anche che 40 mila sono morti nei loro campi, il che vuol dire che su cento, solo venti sono sopravvissuti. E sono cifre parziali, perché - come si è detto sopra - migliaia di prigionieri dell'ARMIR sono morti prima di arrivare ai campi e prima di essere censiti. Migliaia, che vanno ad accrescere il numero dei catturati e quello dei morti in prigionia. Sono quelli che furono sbrigativamente passati per le armi al momento della cattura, quelli che sono crollati per sfinimento o sono stati uccisi durante le marce di trasferimento verso le retrovie. Innumerevoli poi sono morti negli inumani trasporti ferroviari protrattisi per settimane. Infine migliaia di prigionieri morirono d'inedia, di dissenteria, di setticemia per i congelamenti o le ferite non curate, nei primi centri di smistamento, nei quali non si effettuava, inizialmente, alcuna identificazione. Da quanto si è detto, risulta chiaro che il numero dei prigionieri fu altissimo ed altrettanto imponente il numero dei morti in prigionia.

Oggi, in base ai più recenti elementi a nostra disposizione, si può formulare il seguente consuntivo. Dei 95 mila uomini assenti alla fine della ritirata: 25 mila sono morti nel corso della medesima, 70 mila sono stati catturati. Di questi ultimi: 60 mila sono morti in prigionia, cosi ripartiti: 38 mila censiti dai russi nei lager, 22 mila durante le marce, i trasporti ferroviari e non censiti nei primi mesi; 10 mila sono sopravvissuti e sono stati rimpatriati. Preme ora l'interrogativo del perché e del come sia avvenuta tale immane ecatombe.

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