giovedì 30 settembre 2021

Woroschilowa, parte 3

Woroschilowa: un buco senza speranza, di Giulio Ricchezza - terza parte.

"Giuseppe Nigra era appena venuto al reggimento; s’era subito interessato del 'suo' battaglione; era un sardo, un bell'uomo, magro, aitante e deciso, di pochissime parole. Non faceva molte considerazioni, non aveva insomma quell'esperienza di cose di guerra che si ha solo combattendo in fronti come quello russo dove, dopo qualche tempo, si impara a filtrare, per così dire, gli ordini che si ricevono. Ci sono dei comandanti intelligenti che sanno valutare la situazione, non prendono decisioni affrettate; obbediscono, ma sempre con una certa riserva; anzi, non è nemmeno una riserva, è come una piccola autonomia che si prendono rispetto al comando di reggimento o di divisione; così, pur portando lo stesso a termine i propri compiti non espongono inutilmente gli uomini. Nigra, invece, di Russia non sapeva niente e non certo per colpa sua. Nessuno gli aveva spiegato che razza di guerra si combatteva lì. Ricordo di aver letto, non so più dove, di quel colonnello che aveva combattuto in durissime circostanze nella prima guerra mondiale. Un Tedesco. T'incontra un collega italiano, questo in Russia, e gli dice pressappoco così: 'Vedrai; quello era niente; non mi sono mai trovato in vita mia a dover combattere in simili condizioni'".

"Alla situazione materiale, che più cattiva di così è difficile immaginare, vanno aggiunte considerazioni di carattere morale: quando si sta al gelo per due o tre ore di fila e anche più, cercando di sparare, quando c'è già stata una battaglia come quella di Natale che ha impegnato per quattro, cinque o sei giorni tutti, senza distinzione, spremendoli fino all'osso, e quando si è sempre sotto l'incubo di attacchi nemici, questo non permette certo di agire con chiarezza di spirito o con quella volontà che si ha quando si parte, pieni di entusiasmo, per un'azione ben diretta e sul cui esito si nutre completa fiducia".

Di fiducia sull'esito dell'azione nessuno ne aveva; meno che mai ne avevano i legionari della Tagliamento che al solo sentir parlare di Woroschilowa vedevano nero. In fondo era stato proprio a causa del loro pessimismo se quella generale incertezza aveva finito per contagiare un po' tutti. Ma era difficile dar loro torto. I Russi erano laggiù, oltre la cortina di neve, oltre le nuvole di pulviscolo ghiacciato sollevate dal vento. Ma da lì, da Iwanowski, dalle isbe in cui erano rintanati quelli della Celere, non si vedeva niente. Sembrava, anzi, che del nemico non vi fosse neppur l'ombra. Anche questo faceva parte del tradizionale quadro della guerra russa. Si annusava, si avvertiva la presenza dell'altro per una specie di sesto senso; ma quasi mai gli Italiani riuscivano a scorgere in faccia i loro avversari. L'attacco alle isbe di Woroschilowa era previsto per la primissima alba del 25 gennaio. Testimone di quella notte insonne, fra il 24 e il 25, fra gli altri, il sottotenente Ratti, uno dei pochi che riuscirà a tornare dall'inferno russo, insegnando poi per anni al Leone XII di Milano come professore di educazione fisica.

Fra quelli più indaffarati appariva il Nigra che sentiva il bisogno, si vede, di dimostrare di poter essere un valido sostituto del maggior Ercolani. Bisogna capire certe situazioni. Occorre sapersi conquistare subito la fiducia degli uomini, altrimenti è un disastro. E l'ufficiale che non ci riesce di primo acchito, dopo non ce la fa più; il giudizio iniziale, l'impressione, per quanto superficiale possa essere, dei primi momenti, non si cancella; se essa è stata favorevole, tutto bene, ma se è risultata negativa allora son dolori. Il Nigra, perfettamente consapevole di ciò, faceva il possibile per non... sfigurare, lui, novello di Russia, in mezzo a quei... veterani. Ma veniamo alla voce diretta, alla testimonianza: "Eravamo allora di stanza a Iwanowski, cioè in un posticino situato tra i sette e i dieci chilometri da Woroschilowa. Ci siamo messi in marcia di notte, alle tre, con un freddo siberiano. Si faceva sì e no un paio di chilometri l'ora in quelle condizioni. Sì perché bisogna tener presente che si doveva procedere in fila indiana lungo una sorta di sentierino battuto nella neve, appesantiti dalle armi, semiparalizzati da quelle temperature... saranno dunque stati, sette-otto chilometri a dire il vero. Abbiamo camminato fino alle sei del mattino circa... Io, quella mattina, non avevo nessun compito; non dovevo comandare nessuna compagnia; per cui mi sentivo un po' come uno che partecipi a un'azione essendone al di fuori. C'era, ricordo, appena arrivato anche lui dall'Italia coi complementi, come il Nigra, il capitano Tedeschi; c'era l'aiutante maggiore, tenente Supino, o forse era già diventato capitano... chissà, comunque c'era, appunto Supino, e c'era, lui sì, lo rammento benissimo, il tenente di complemento Guglielmo Taralli che era stato posto al comando di uno dei tre gruppi che erano stati imbastiti la sera prima proprio per partecipare a quell'azione...".

Taralli era un ragazzone grande e grosso, un bell'ufficiale dal viso franco; alla vigilia della battaglia di Natale comandava un plotone del XVIII battaglione. Nei primi giorni di dicembre si era "beccato" una brutta ferita alla gamba, ma non per questo aveva abbandonato il comando; lui voleva continuare a combattere, tant'è che quando un suo commilitone gli aveva consigliato di farsi operare al più presto - o per lo meno di farsi inviare all'ospedale - gli aveva risposto tranquillamente: “Qui, la guarigione è più rapida. Non conosci dunque l’ibernazione?”. Parole scherzose, ma che erano state dette con aria terribilmente seria. Nessuno tuttavia aveva supposto che sotto quell'aria tranquilla, Taralli nascondesse un coraggio da vendere. Quand'era stato addetto al servizio vettovagliamento, il capitano lntrozzi, ufficiale richiamato, dai molti capelli grigi, se l'era visto capitare davanti con un'aria un po' strana. Taralli gli aveva confidato che era venuto in Russia solo per potersi guadagnare la medaglia, ma che non ne voleva una qualunque; intendeva conquistarsi quella d'oro al valor militare.

Introzzi l'aveva guardato un po' di sotto in su, poi aveva sorriso: "Va bene, va bene", gli aveva risposto bonario, soggiungendo subito dopo con aria un po' cattiva e maligna: "Ma pensa per ora a far la spesa". Una risposta logica; mentre tutti, chi più chi meno, creavano di sottrarsi ai combattimenti di prima linea in cui, date le note condizioni di inferiorità, non c'era da augurarsi nulla di buono, un uomo come Taralli, con le sue idee e le sue proposte fuori dell'ordinario, dava l'impressione di essere una testa calda o, nel migliore dei casi, un... eccentrico.

Per cui, da quel giorno, Taralli aveva pensato che sarebbe stato meglio non parlare dei suoi progetti e delle sue aspirazioni con nessuno. Sarebbe così rimasto "a far la spesa" per tutto il tempo della campagna di Russia, se gli avvenimenti del fronte non avessero obbligato i comandi a richiamare in linea anche quelli dei servizi, fra i quali c'era lui, il nostro Taralli. Al comando di un plotone, il giovane s'era subito distinto nell'occupazione di Mikailowka e nella presa di Iwanowski, il villaggetto da cui sarebbe partito poi quel mattino per il viaggio senza ritorno in direzione di Woroschilowa, e s'era guadagnato una bella medaglia d'argento, seguita poi da una seconda proprio nel giorno di Natale. Appunto nell'azione per la conquista di Mikailowka, Taralli era stato ferito alla gamba, mentre, insieme ad altri uomini del maggiore Scarponi, faceva irruzione fra le isbe.

"Taralli" racconta un teste, "aveva in sé una carica di entusiasmo davvero invidiabile. Quella mattina dell’attacco contro le isbe di Woroschilowa s’era porto dietro un tizio, mi pare fosse un sergente, uno che ne aveva combinate di cotte e di crude, un tipo da compagnia di disciplina, e che avevano spedito lì per per punizione: ebbene Taralli, con il suo entusiasmo, l’aveva saputo galvanizzare, facendone un’altra persona…".

Fotografia dell'archivio storico della Legione Tagliamento: Woroschilowa - Quota 331.

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