sabato 31 ottobre 2020

L'aurora a occidente

Riporto una parte dell'introduzione scritta da Mario Bellini nel suo "L'aurora a occidente", bellissimo libro che consiglio a tutti; grazie ai suoi racconti dettagliati di vita vissuta, ho potuto comprendere meglio le vicende belliche ed umane che si svolsero sul "cappello frigio" e nella "valle della morte" ad Arbusovka, ma soprattutto recatomi di persona in quei luoghi sia nel 2016 che nel 2019, ho potuto vivere quei momenti per me molto intensi con una "partecipazione" che ricorderò per tutta la vita... ero lì, ero esattamente in quei posti che lui descrisse così tanto bene e appassionatamente nel suo bel libro. Ma riporto in particolare questo brano per rendere giustizia alla verità, verità che io cerco sempre anche se a volte è dolorosa per qualcuno o fastidiosa per qualcun altro.

Nel quadro della gigantesca battaglia si svolsero le vicende personali che mi accingo a raccontare. Fui partecipe dell'accanita resistenza sul Don dall'11 al 19 dicembre e del successivo ripiegamento del cosiddetto "blocco nord", costituito dalle divisioni Pasubio e Torino e da parte della divisione Ravenna.

Mi trovai in due occasioni a operare con reparti germanici. Non intendo dimenticare gli episodi di arroganza e di brutalità dei quali si resero protagonisti i tedeschi a danno degli italiani, alleati che avevano compiuto il loro dovere e meritavano la loro gratitudine e il loro rispetto. In mancanza di una leale autocritica, della quale i tedeschi non sono stati capaci, la condanna per tali episodi non ha attenuanti. Ritengo doveroso, nel contempo, per un'esigenza di verità, rendere omaggio al valore degli ufficiali e dei soldati, alla capacità combattiva, alla genialità tattica dei reparti della 298a divisione di fanteria germanica. Questa divisione, a ranghi incompleti, fu protagonista di una manovra di ripiegamento semplicemente prodigiosa. Nell'arco di un mese portò in salvo la colonna del 'blocco nord", con il contributo di sangue dei combattenti italiani, dalle rive del Don fino a Belovodsk, attraversando un vasto territorio occupato dalle armate russe, superando accerchiamenti, sbarramenti, assedi, attacchi di ogni tipo sferrati da un nemico agguerritissimo; soprattutto impegnando e ritardando l'avanzata di numerose divisioni sovietiche. I soldati italiani del "blocco nord" non possono dimenticare che il merito dell'esito vittorioso del loro terribile ripiegamento è da attribuire, in massima parte, alla 298a divisione di fanteria germanica.

A titolo personale rendo onore agli ufficiali tedeschi che ho incontrato, dai quali ho ricevuto considerazione e rispetto. lntendo ricordare con gratitudine il sergente Cühy, furiere della 1a compagnia del 20 battaglione del 425° reggimento di fanteria, mio paterno amico nel caposaldo dello scalo merci della stazione ferroviaria di Certkovo. Al suo fermo e appassionato consiglio debbo la decisione di uscire dall'assedio, pur in condizioni di salute penosissime, e di gettarmi con una temperatura di oltre 40° sottozero sulla pista verso Belovodsk, in fondo alla quale, dopo aver attraversato quattro linee di sbarramento nemiche, trovai la salvezza.

Consapevole di aver militato in un'armata che ha combattuto fieramente, rendo omaggio al valore, alla capacità di sacrificio e al religioso amore per la patria del nostro implacabile nemico di allora. Nel contempo ricordo con commozione uomini e le donne russe che ho incontrato: la dolce Sonia, maestrina di Verch Grekovo; Nina e Gregorio, che mi ospitarono con geloso affetto nella loro casa; la donna del pozzo a Man'kovo nell'orrenda notte di Natale, che pianse temendo per la mia vita; la babuska di Belovodsk, che mi accolse con sollecitudine materna alla fine del mio calvario; e tanti, tanti altri. Tutti sono nel mio cuore, per l'amore che hanno avuto per me e che io ho ricambiato.

Al vertice dei miei pensieri, nel pubblicare questa mia testimonianza, ci sono coloro che caddero nella steppa gelata, con lo sguardo rivolto verso l'occidente immensamente lontano, senza veder l'aurora della salvezza. Il tempo non ha cancellato niente di quella tragedia.

Nuova programmazione

A malincuore, davvero a malincuore il "cammino della memoria" che avremmo voluto organizzare per Gennaio 2021 non potrà essere effettuato a causa della situazione internazionale, venutasi a creare con i contagi causati dal Covid, e dalle conseguenti restrizioni. Tantissime richieste anche per questa edizione... Se non sarà il 2021, allora sarà il 2022. Intanto e nella speranza che tutto possa cambiare per il meglio, stiamo lavorando ad un viaggio estivo (agosto/settembre) alla portata di tutti quanti che ci permetterà di andare a visitare tante località del fronte e non solo: le zone tenute dagli Alpini e quelle tenute dalla Fanteria, i paesi ed i villaggi più famosi delle ritirate, i campi di prigionia, la navigazione del Don per una giornata in modo da vedere parte del fronte direttamente dal fiume...

Se interessati scrivetemi in privato e senza alcun impegno al momento opportuno fornirò tutte le informazioni necessarie per un'attenta valutazione.

venerdì 30 ottobre 2020

I giorni e gli anni, parte 3

Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. La cartina riportata è stata ricavata da Google Earth dopo le opportune verifiche sul campo e riporta la posizione del Raccordino rispetto agli altri punti di riferimento citati nel libro.

IL RACCORDINO.

La notte del Raccordino fu la notte del freddo, del sonno, della rassegnazione. Ci accanivamo a battere i piedi a terra o contro le pareti del trincerone, dove si era raccolto tutto il gelo di Russia, o ci picchiavamo sulle braccia incrociando le mani guantate. Fermarsi per la stanchezza significava sentire subito le ossa scricchiolare come legna secca. A turno ci buttavamo sui tavolacci umidi e sporchi dell’unico rifugio. Il fumo della stufa rendeva l’aria irrespirabile. Appena entrati gli occhi lacrimavano e la tosse prendeva alla gola, poi ci si abituava al fumo e all’aria pestilenziale. Si era al caldo, dopo tutto, e si aveva l’impressione di sentirsi quasi al sicuro.

Percorrevo il camminamento-trincea e ad ogni piazzola trovavo la solita domanda: "Non è ancora venuto il nostro turno di andare a scaldarci?". "No, c'è tempo. Battere i piedi e tenere gli occhi aperti". Non avevamo un compito da poco. La nostra posizione, che doveva fungere da raccordo fra due capisaldi, in realtà era una trincea isolata, piazzata non su una "gobba" del terreno, ma in una zona piuttosto piatta. A destra, il caposaldo X rimaneva a più di mezzo chilometro e il collegamento era tenuto da una pattuglia di 8 uomini che tra l’altro aveva il compito di sorvegliare la balka boscosa che scendeva fino a Ogolewka, perché di lì i pattuglioni russi avrebbero potuto infiltrarsi alle spalle del nostro schieramento. A sinistra, a circa due chilometri, il caposaldo Z, con cui "si sarebbe dovuto" mantenere il collegamento per mezzo di una pattuglia di tre uomini, che "avrebbe dovuto" incontrare a metà strada un'altra pattuglia di eguale forza proveniente dal caposaldo Z. C'era tutto per stare insicuri e rassegnati.

I russi non davano tregua con le mitragliere, coi mortai, coi proiettili traccianti che sembravano partire a volte da postazioni oltre il fiume, a volte da armi piazzate a poche decine di metri da noi allo scopo di mantenere il nostro improvvisato schieramento in una costante tensione. I loro razzi colorati illuminavano a giorno tutta la riva destra del Don.

Da noi le Breda ogni tanto si inceppavano, il moschetto 91 era poco più che un bastone ingombrante, le due mitragliatrici pesanti in nostro possesso erano tenute in esercizio, sparando raffiche a casaccio, per non trovarle bloccate dal gelo. Le sentivamo così preziose che, quantunque il trincerone non fosse lungo più di 200 metri, le cambiavamo sovente di postazione per cercare di renderle più difficilmente individuabili dai precisi mortai russi.

Così aspettammo le prime luci dell'alba, l'ora ufficiale delle sorprese, degli attacchi improvvisi. Ancora nelle viscere la sensazione che solo il caso poteva proteggerci.

Il caso (o l'imperscrutabile piano operativo dei russi?) per quella notte fu dalla nostra parte. Estrema tensione degli animi per quanto avrebbero potuto fare gli altri, ma niente di più. Così ancora nelle prime ore del mattino. Il fronte era come caduto in un improvviso letargo, non si udiva nessuno sparo, la calma era assoluta. Il freddo, il sonno, la tensione avevano accasciato anche i più resistenti; poi trascorse qualche ora tranquilla, si vide chiaro, arrivò il caffè caldo e un po' di cognac. Alla tensione subentrò la rassegnazione di fronte alla prospettiva, ritenuta certa, di passare nel trincerone del Raccordino, russi permettendo, ancora giorni e notti. Invece, verso mezzogiorno, una compagnia di guastatori, ravvolti in bianche casacche, venne a darci il cambio. Un quarto d'ora per passare le consegne, per dare alcune indicazioni sommarie all'ufficiale genovese che comandava i guastatori, poi una stretta di mano, "Ciao, Poggi, ti lascio il Raccordino. Buona fortuna!". "Buona fortuna anche a te. Arrivederci".

Nei pressi dell'Olimpo si ricongiungemmo con quanto rimaneva del 6° battaglione e ci mettemmo in marcia nella direzione di Getreide Swiss, rifacendo a piedi la strada percorsa in camion la mattina del 12. Cominciava a scendere la sera quando ci fermammo presso un immenso capannone dai muri di mattone e dal tetto di paglia, forse la stalla o il magazzino di un colcos. Ci buttammo sulla paglia, soddisfatti di quanto avevamo trovato. I combattimenti dovevano aver ripreso ad infuriare a pochi chilometri di distanza, perché ne giungeva l’eco chiarissima; ma a noi pareva già di essere lontanissimi, fuori tiro.

Restammo nel capannone il 14 e il 15 dicembre. Dormimmo e riorganizzammo alla meglio i reparti, equilibrando i vuoti. Da casa era giunta molta posta; a me anche un pacco con l’uva augurale per il primo dell’anno. Occupai varie ore a rispondere ai miei. Mi piaceva scrivere singolarmente a mia moglie, ai miei genitori, a mia nonna, anche se sapevo che le lettere differenziate sarebbero state lette collegialmente, riuniti tutti alla sera attorno al tavolo su cui troneggiava Laura addormentata o sgambettante nella piccola culla. Del resto, lo schema degli scritti era unico: assicuravo che il battaglione era a riposo nelle retrovie, perciò i miei dovevano stare tranquilli; l'inverno, poi, e tutta la neve che sarebbe caduta, avrebbe impedito le operazioni di guerra, nessuno si sarebbe mosso; il freddo secco e sano si sopportava bene. La mistificazione "pietosa" era conforme alla propaganda del regime.

Noi, forse, cercavamo di esorcizzare la realtà di cui eravamo prigionieri, inseguendo ingenuamente anche l'obiettivo di "ricaricarci", ma sui giornali giunti dall'Italia col solito mese di ritardo leggemmo un discorso di Mussolini che ci parve rivelare, forse per la prima volta in maniera tanto scoperta, che la retorica non poteva più nascondere le difficoltà e le debolezze del regime all’interno e sui fronti di guerra. Ci fu chi disse che ormai la campana dava un suono fesso.

Tuttavia quel po’ di riposo, come sempre accadeva, ridiede confidenza con la vita e riaprì l'animo alla speranza. Speranza di vivere, non di vincere. Elemento determinante per quella generale ritonificazione fu la notizia, fatta circolare la sera del 14, che il generale Troiano, che aveva sostituito nel comando del raggruppamento il gen. Diamanti, tornando in Italia ai primi freddi, era partito in macchina per andare a cercare nelle retrovie gli accantonamenti, dove avremmo trascorso tranquillamente e al caldo tutto l'inverno.

martedì 27 ottobre 2020

I giorni e gli anni, parte 2

Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. Danilo Ferretti fu fatto prigioniero nel Dicembre 1943 e scrisse questo libro solo nel 1979. L'immagine è stata scattata dal sottoscritto nell'estate del 2019 dalle postazioni italiane sopra Ogolewka, di cui si vedono ormai solo i poveri resti.

OGOLEWKA.

Il 10 dicembre era andato all'attacco il 30°. La sera prima, a mensa, un ufficiale di grossa mole aveva detto: "Non siamo siamo fortunati, noi del 6°. Siamo il miglior battaglione di tutto il raggruppamento e per un’azione facile che darà molta gloria e trascurabili perdite viene scelto il 30°. È un vero peccato! Forse dovevamo farci avanti".

La sera del 10, ancora a mensa, fummo messi al corrente dell’azione compiuta dal 30°. Nel vano tentativo di occupare Ogolewka il battaglione era stato completamente distrutto. L'ufficiale grasso, per tutto il tempo che durò la cena, rifletté in silenzio sul piatto. Il 12 toccò a noi.

Che cosa era Ogolewka? Un villaggio, un pugno di povere case quasi tutte in legno, sulla riva destra del Don, annidato in una piccola insenatura, una cucchiaiata di terra sovrastata da una gobba pelata di terreno alta una cinquantina di metri, su cui passavano le prime linee "fortificate" dell’ARMIR. Oltre il Don, sulla riva sinistra, si stendevano terreni piatti, paludosi e fitti di vegetazione.

Per tutta l’estate Ogolewka era stata presidiata da piccoli reparti dell’ARMIR senza il minimo segno di disturbo da parte dei russi, le cui posizioni, al di là del fiume, neppure si vedevano. A metà novembre, alla prima neve, le cose cambiarono. Le tranquille, sbilenche casette di Ogolewka cominciarono ad essere fatte segno sistematicamente, metro, da precisi colpi di mortaio pesante e da intense raffiche di mitragliatrice: un tiro a bersaglio fisso. Ogolewka non poteva essere più tenuta; ciò nonostante fu riconfermato l'ordine di non abbandonarla. Centinaia di vite furono sacrificate, finché Ogolewka si evacuò da sola e fu tenuta solo dai morti.

Allora i comandi mutarono parere. Il possesso materiale del villaggio non aveva alcun significato; le nostre posizioni, tutte saldamente ancorate sulle alture della riva destra del Don, dominavano come volevano la piccola piana col suo gruppo di case. Ogolewka, anche senza essere presidiata rimaneva virtualmente nelle nostre mani.

Con sbalorditiva coerenza, il giorno 8 dicembre dal Comando di settore venne ordinato di rioccupare Ogolewka e nel corso di una settimana furono sacrificati interi battaglioni per un obiettivo inutile e Impossibile. "Perché?" - chiedemmo.

"A giorni verrà a darci il cambio una divisione corazzata tedesca. Ogolewka deve essere nelle nostre mani. Dobbiamo essere noi a consegnarla ai tedeschi". Questa fu la giustificazione che giunse ai reparti. Il giorno 12, dunque, toccò al 6°.

Avevamo passato una nottata insonne, parte all’addiaccio, parte in disgraziate baracchette di legno a Getreide Swiss, fino a poco prima occupata da alcune compagnie della Pasubio, dove il fuoco e il fumo delle stufette di ferro inutilmente lottavano col gelo che penetrava da mille fessure. Alle 4 del mattino partimmo in camion per il caposaldo Olimpo.

Mulinava nell'aria un sottile nevischio ghiacciato che tagliava la faccia. Il nostro camion, che si era messo in moto per ultimo, viaggiava in coda alla colonna. Aveva appena superato arrancando la discesa e la risalita di un profondo avvallamento, quando il motore si arrestò. Una tragedia date le circostanze, tanto più che lì imbarcati c'erano portaordini, esploratori, segnalatori e alcuni militi dalle facce magre e pallide giunti pochi giorni prima dall’Italia. L'autista sollevò il cofano bestemmiando e cominciò a smanettare dentro il motore. Ogni tanto sollevava la testa, mi rivolgeva uno sguardo desolato, allargava le braccia e, mostrandomi le grosse mani nere di morchia, ripeteva macchinalmente: "Qui ci vuole un meccanico, qui ci vuole un meccanico...".

Io mi agitavo con l’animo di chi, in fondo, si sente la coscienza sporca. Non credevo più a nulla di quella guerra, ma ero - mio malgrado - ancora così imbevuto di retorica che non volevo tenermi fuori da una prova che chiaramente si prospettava difficilissima e forse fatale.

Passò una buona mezz'ora. Ormai non si poteva sperare di raggiungere la colonna. Che fare? Andare avanti a piedi? E dove? Tornare indietro a piedi? E dove? "Provo ancora una volta a mettere in moto?" - chiese l'autista. "Prova" - gli dissi. Si mise davanti al radiatore e, spingendo con tutte le forze, cominciò a far girare la dura manovella. Uno scoppio, due scoppi, poi il motore riprese a funzionare.

"Ce l'ho fatta!" - esclamò l’autista e respirò profondamente. Ce l’aveva messa tutta. Ci rimettemmo in movimento seguendo quella che ci sembrava una pista sulla neve ghiacciata. Dopo un tragitto di poche centinaia di metri raggiungemmo la colonna, pure ferma per guasti ai camion di testa. Se non fosse stato che si moriva sul serio, e, anche senza morire, si abbaiava di freddo, si sarebbe potuto cogliere il lato comico di quella guerra. Ma non ci fu tempo per lunghe riflessioni.

Riprendemmo presto la marcia e verso le 10 arrivammo all’Olimpo. Lasciammo i camion e, ricomposti in fretta i reparti, ci avviammo a piedi verso il caposaldo X. Secondo quanto ci avevano assicurato certi ufficiali dell'Olimpo, Ogolewka non era più un problema, essendo stata occupata fin dalle prime ore del mattino da un battaglione della Divisione Pasubio, quindi, molto probabilmente, non ci sarebbe stato più bisogno di noi e forse saremmo potuti tornare subito indietro. Intanto proseguimmo in fila indiana verso il caposaldo X. La marcia era frequentemente interrotta da fermate. Quanto rimaneva del plotone esploratori era in coda alla lunga fila e veniva ripetutamente fatto segno a colpi di mortaio. I russi sembravano vedere solo noi. Alcuni feriti tornarono a Getreide Swiss, dove doveva esserci un posto di medicazione, con lo stesso automezzo che ci aveva portato all’Olimpo.

Finalmente giungemmo al famoso caposaldo X. Sembrava una postazione abbandonata fin dall’estate e riattivata alla bell'e meglio in via del tutto provvisoria. Non c'erano camminamenti; qua e là nel terreno solchi profondi non più di mezzo metro, appena rilevabili per la neve che li copriva. Contro una collinetta, "la gobba" che sovrastava Ogolewka, tre grossi bunker rinforzati da palizzate costituivano il nucleo centrale del caposaldo; dentro c'erano i comandi della Pasubio e della 3 Gennaio, i centralini telefonici, i portaordini e tanti ufficiali che passavano correndo curvi da un bunker all’altro chissà per quali misteriosi compiti. Noi, appena arrivati, con le mani vuotammo della neve i cosiddetti camminamenti e cercammo di ripararci quanto più possibile dai mortai russi che di tanto in tanto scaricavano una bordata. Dalla parte del Don si udiva un’intensa fucileria.

Non tardammo a vedere venir su da Ogolewka i primi feriti e, coi feriti, altra gente che sembrava aver perduto la testa. Ufficiali e soldati venivano "scaricati" davanti ad un bunker, in cui avrebbe dovuto esserci un medico o almeno un posto di medicazione. Non c’era niente. Ufficiali usciti dai ricoveri si raccoglievano attorno ai feriti e sembravano presi anche loro da una ventata di follia. Gesticolavano come si e gridavano: "Un medico, un medico! Dov'è un medico? Vigliacchi tutti!". I feriti, intanto, sacramentando, si tamponavano alla meglio le ferite con i pacchetti di medicazione. Finalmente, dopo tanto sbraitare e gesticolare, si scovò un medico. Arrivò dall’Olimpo, senza ferri chirurgici, senza disinfettante, senza bende. Ordinò di portare tutti i feriti all’Olimpo e fortunatamente si poterono approntare subito alcune carrette per il trasporto. La confusione nei tre bunker era immensa. Intanto non si entrava tanta era la ressa e nessuno sapeva che cosa si doveva fare.

Un capitano venuto su da Ogolewka, ferito ad una spalla e ad una mano, ma ancora in grado di ragionare, si ostinava a sostenere di fronte ad altri ufficiali dei comandi, che gli si erano fatti attorno, che non era difficile arrivare al villaggio stando al coperto di una balka boscosa, ma era assolutamente impossibile mantenervisi. Le mitragliatrici, gli anticarro e i mortai russi, piazzati nell'altra sponda in postazioni da tempo preparate e mascherate, nascosti dalla boscaglia, potevano arare e falciare letteralmente il terreno. Tutti erano così convinti che l'azione di "riconquista" di Ogolewka era pazzesca, che un Maggiore, comandante del caposaldo X, decise di telefonare al Comandante della Pasubio chiedendo di sospendere l'azione del nostro battaglione. Venne sul posto il Capo di S.M. della Pasubio, Col. Cangini. Una breve discussione all'interno di uno dei bunker, poi l'ordine: "Costi quel che costi, quando i tedeschi ci daranno il cambio, Ogolewka dovrà essere italiana".

Alle 12 precise si partì all'attacco di un nemico invisibile, perché a Ogolewka non c'erano russi, forse c'era solo qualche cecchino appostato convenientemente, ma il fuoco invalicabile proveniva dall'altra riva del fiume.

Due compagnie avanzate, una di rincalzo coi resti del plotone esploratori. Sulla "gobba" del caposaldo X scese un grande silenzio. Solo lontano sulla destra del fronte si udiva un cupo cannoneggiamento. Le due compagnie in ordine sparso si buttarono giù per il pendio scoperto, vedendo Ogolewka a non più di 300/400 metri di distanza. Pochi alberi e cespugli sul lato sinistro; per il resto terreno nudo, ripido, come predisposto per un'esercitazione di tiro per i russi annidati chissà dove.

I primi cento metri furono percorsi senza che dalle due parti si udisse uno sparo. Anche la compagnia di rincalzo cominciò a scendere. Ancora silenzio, un incredibile silenzio, poi ad un tratto l’aria esplose, si aprirono le cateratte, fuoco di anticarri, mortai, mitragliatrici davanti agli uomini, sugli uomini, una barriera di morte. Soltanto questo ricordo di quell’inferno. Dinnanzi a me, forse a cento metri, un ragazzo di Cremona, Farina, ex-allievo scuola mistica fascista, tenente dei mitraglieri. Con le lunghe gambe avanza a sbalzi brevi, veloci. È nella zona di fuoco. Mi pare che si trascini verso un uomo accosciato a terra con l’arma pesante ribaltata e che lo scuota. Lo vedo alzarsi, scorgo la sua barbetta rossastra, mi pare che gridi, è altissimo, cade giù di schianto, colpito in fronte. Ma qualcuno riesce a passare dallo sbarramento delle armi pesanti russe e si butta al riparo delle prime isbe di Ogolewka. Ci sono morti che stanno in piedi, stecchiti dal gelo.

Alle prime ore della sera i superstiti rientrano all’X. Nei comandi la confusione era aumentata. I reparti si erano dispersi nei vari ricoveri e gruppi di militari di propria iniziativa cercavano di preparare un minimo di riparo per la notte nei luoghi ritenuti più defilati. Dov’era il nemico? Se i russi avessero voluto, avrebbero potuto prenderci tutti senza colpo ferire. Era già buio quando mi mandò a chiamare il Comandante di battaglione affidandomi l'incarico di radunare i superstiti del mio plotone, del plotone comando e delle due compagnie decimate poche ore prima, e di recarmi a dare il cambio ad una compagnia della Tagliamento che da vari giorni teneva una posizione detta "Raccordino", tra il caposaldo X e il caposaldo Z. Uscirono dai bunker e dai camminamenti una trentina di uomini stanchi, malandati. Muovendoci come automi ci avviammo verso il Raccordino. Aveva ripreso a soffiare il vento tagliente che già all’alba di quel giorno ci aveva tormentati.

lunedì 26 ottobre 2020

Noi e loro 3

Altre volte sempre camminando su una strada innevata, pensavamo a come doveva essere stato per loro. Camion, slitte, urla, ordini, scoppi... o solo il silenzio della disperazione e della solitudine. E passo dopo passo ce li immaginavamo, ci immaginavamo di essere in mezzo a loro.

P.S. la fotografia non ha alcun fine nel tentare di accostare la nostra esperienza ai dolori ed alle privazioni che provarono quei ragazzi; è solo un altro modo per sentirli vicino e ricordarli; non ne abbia male nessuno.

Noi e loro 2

Altre volte in mezzo ad una piccola foresta, mentre ci prendevamo una pausa, i rumori del bosco, vicini e lontani, ci davano la fortissima sensazione di non essere soli. Più volte ci siamo bloccati per guardare fra i rami se le nostre fosse solo sensazioni. Te li immaginavi, fermi al freddo anche loro, magari nello stesso identico posto dove noi casualmente ci eravamo fermati.

P.S. la fotografia non ha alcun fine nel tentare di accostare la nostra esperienza ai dolori ed alle privazioni che provarono quei ragazzi; è solo un altro modo per sentirli vicino e ricordarli; non ne abbia male nessuno.

Noi e loro 1

A volte durante il trekking, camminando nella neve o nella tempesta, ci sembrava di avere intorno a noi delle presenze silenziose; certo, era frutto della nostra immaginazione, ma la sensazione in molti di noi era fortissima. Ne abbiamo parlato spesso. E ci piaceva crederlo; ci piaceva pensare che loro silenziosamente ci stessero osservando.

P.S. la fotografia non ha alcun fine nel tentare di accostare la nostra esperienza ai dolori ed alle privazioni che provarono quei ragazzi; è solo un altro modo per sentirli vicino e ricordarli; non ne abbia male nessuno.

sabato 24 ottobre 2020

I giorni e gli anni, parte 1

Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. Il libro non è facilmente reperibile, ma ne consiglio la lettura.

VERSO IL FRONTE DEL DON.

Il convoglio, partito il 22 agosto dalla stazione Tiburtina di Roma aveva attraversato abbastanza velocemente il territorio italiano, recando sulle fiancate dei vagoni grandi scritte spavalde. A San Ruffillo, una stazioncina secondaria di Bologna, avevo appena avuto il tempo di abbracciare mia moglie e mia madre. Nonostante il facile, spesso gratuito, rifornimento di vino, non c’era allegria negli uomini. All’alba del 23 agosto ci svegliammo a Bronzolo, dove la tradotta era stata messa in sosta dalla mezzanotte in poi. E poi anche il vetro dei fiaschi fu buttato a terra.

Dopo il Brennero niente più cordiali gesti di saluto o sguardi affettuosi, anche se preoccupati. I civili tedeschi ci osservavano in silenzio con gelida indifferenza; i militari, terribilmente composti e seri, qualche volta rispondevano al nostro saluto, ma nei loro sguardi si leggeva ironia, forse disprezzo. A Innsbruck sostammo mezza giornata nella stazione, sempre guardati così. Impossibile non sentirsi a disagio. A partire di lì la tradotta del Montebello diventò una tradotta di consegnati, atmosfera punitiva.

Il treno, instradato su una linea secondaria a binario unico, passava attraverso vaste campagne. Era il pomeriggio avanzato e il convoglio procedeva lentissimo. Nei campi si vedevano gruppi di uomini e di donne al lavoro. Erano lavoratori italiani. Come si accorsero che il treno trasportava dei connazionali, interruppero il lavoro, gettarono a terra gli attrezzi e ci salutarono con alte grida. Alcuni, corsero a fianco dei vagoni, gridando "Italia! Italia!", quasi disperatamente e buttandosi a terra sfiniti quando il treno prese velocità. Quei lavoratori, quei braccianti, quegli italiani non sembravano degli uomini liberi, ma dei prigionieri. Discutemmo nei vagoni, con sofferenza, ma si finì per concludere che i tedeschi facevano la guerra sul serio e che le condizioni della guerra imponevano ferree regole di vita, con le quali dovevano fare i conti quanti già soffrivano per la lontananza dal proprio paese. Cresceva così nell’animo la pena dell’esiliato.

Il giorno seguente, all’alba, guardando fuori dal finestrino, sentii pesare ancora di più su di me una soffocante aria di caserma, anzi di luogo di pena. Certo non fui il solo a provare quella sensazione. La tradotta correva lungo le altissime mura di una fabbrica, per chilometri e chilometri, mura grigie e tetre proprio come quelle di un immenso carcere. Ogni tanto una ciminiera tra volute di fumo nerastro: eravamo ad Halle (Saale). Di qui piegammo verso est.

In Polonia subentrarono altre emozioni. Nella grigia, deserta pianura polacca, così povera di case e di uomini, così piena di tristezza, sotto un cielo basso che colava umidità, sembrava che lo sferragliare del treno rompesse e riempisse un pesante silenzio. Poi il silenzio prevaleva e la tradotta si fermava su un binario morto, non in una stazione, ma in aperta campagna. Passavano convogli pieni di soldati, scivolavano sui binari lucidi di pioggia coi loro carichi silenziosi, spettrali. Muti gli uomini, vestiti di acciaio come i cannoni, come le tanks. Lunghe soste inspiegabili. Dai vagoni, che i nostri lasciavano solo per estremo bisogno, soltanto una canzone trovava voce corale: "ta-pum, ta-pum, ta-pum...". Poi, improvvisamente, senza un segnale di preavviso, nulla... magari solo poche centinaia di metri e si ritornava indietro nello stesso posto di prima... senza indizio di ragione. Infine si ripartiva davvero, ma non era finita l'angoscia.

La Polonia cambiava aspetto, non più l'aperta, vuota campagna, ma villaggi, paesi, città e la visione della terribile condizione di miseria della popolazione polacca. Migliaia di bimbi, migliaia di donne ebree, mandrie affamate e perseguitate da guardiani senza ombra di pietà. Nella sosta di alcune ore alla periferia di Varsavia, benché i binari fossero presidiati metro per metro da orrende guardie tedesche dalle vecchie facce pietrificate e dai fucili con baionetta spianati, nugoli di bambini si precipitarono verso la nostra tradotta gridando "Italiano, gaglieta! Prego, italiano, gaglieta!".

Quel grido, quell’invocazione moltiplicò la nostra generosità, ma ferì profondamente i nostri sentimenti. Magra soddisfazione vedere che i bimbi polacchi non avevano paura di noi italiani, mentre i tedeschi erano visibilmente oggetto del loro odio. Che causa servivamo? Si affossarono i nostri residui, incerti, confusi, ideali.

In altre stazioni, negli immensi intrichi di smistamento di strade ferrate, donne ebree con la gialla stella di Davide sul petto lavoravano come schiave a ripulire i binari degli escrementi lasciati da innumerevoli convogli di militari, di prigionieri di guerra, di deportati, di bestie. Erano per lo più ragazze giovani, smunte, denutrite, dai vestiti laceri. Nessuna di loro, però, ci rivolgeva la parola o faceva un gesto per chiederci qualcosa da mangiare. I guardiani tedeschi non l'avrebbero tollerato ed erano pronti a sparare. Esse, al massimo, osavano lanciare uno sguardo furtivo, ed erano occhi di agnello ferito a morte quelli che si posavano per un attimo su di noi.

In una grande stazione, poco prima di entrare nella Russia Bianca, il nostro convoglio si era appena fermato quando un ufficiale del locale comando italiano ci informò che era assolutamente proibito dare cibi o qualsiasi altra cosa alle donne ebree e che la Kommandatur aveva protestato per il comportamento degli alpini, i cui convogli erano transitati alcune settimane prima ed avevano quasi fraternizzato con le donne ebree. La raccomandazione del nostro imbarazzatissimo compatriota, naturalmente, sortì l'effetto contrario, perché subito facemmo a gara nel porgere pane, scatolette, tabacco e quanto altro possedevamo, cercando di eludere la vigilanza dei guardiani tedeschi. Le ragazze ebree erano sveltissime ad afferrare quanto porgevamo o lanciavamo; subito si ricomponevano nel lavoro.

Purtroppo, però, una fu sorpresa dalla guardia appostata dietro un vagone. Era un vecchio dalla faccia di cane che si precipitò contro di noi urlando frasi incomprensibili, schiumando di rabbia, poi a pedate e a colpi di calcio di fucile cacciò davanti a sé, verso la stazione, come fosse una bestia immonda, la povera ragazza, che non tentava neppure di sottrarsi ai colpi, né emetteva un lamento. Le altre ragazze, a testa bassa, in silenzio, continuavano a raccogliere gli escrementi.

"Merci, monsieur!" - aveva mormorato la ragazza, cercando di nascondere in seno il pacchetto di gallette, prima che la guardia l’aggredisse. "Merci, monsieur!". Poco più tardi, mentre stavamo per partire, l'addetto al comando italiano di stazione ci informava che la poveretta era stata fucilata nel fossato che scorreva nei pressi. Questa è la Polonia del mio ricordo.

Poi attraversammo la Bielorussia o Russia Bianca. Non vedemmo più né bambini né ragazze ebree. Sembrava di passare per regioni abbandonate dall'uomo in seguito ad uno spaventoso cataclisma. In tutte le stazioni anche le più piccole e quasi sperdute nel bosco, resti di incendi e distruzioni, vagoni sventrati, treni blindati, che a noi ricordavano immagini della prima guerra mondiale, rovesciati ai lati della strada ferrata, ammassi di lamiere contorte.

Regione di Gomel, zona di partigiani, Nel convoglio correva voce che ancora pochi giorni prima una tradotta di alpini era stata attaccata e gli alpini avevano subito molte perdite. Su ogni vagone piazzammo le mitragliatrici pesanti e appostammo le Breda. In silenzio passammo per una foresta che sembrava non finire mai; l'ombra degli alberi portava nei vagoni folate di fresco che davano i brividi.

Dopo la regione di Gomel, l'Ukraina. Campi immensi di grano e di miglio non ancora mietuti. Non si vedeva un civile né nelle stazioni né nei campi. Dove si era cacciata, o dove era stata cacciata la gente? Chi avrebbe raccolto tutta quella ricchezza?

La nostra tradotta sembrava trovare da sola la strada attraverso la sterminata pianura, quasi scegliesse il passaggio là dove non c'era gente, e lento era il procedere del convoglio, ovattato il fragore ritmico delle ruote sui giunti. Se in Polonia ci avevano irritato le lunghe inspiegabili soste sui binari morti tanto che sembravamo impazienti di giungere, ora, invece, nessuno di noi si spazientiva. Ci si era adattati a dormire sulle tavole nude e rannicchiati in poco spazio. Su tutti passava una strana sonnolenza, un torpore che era stato certamente prodotto dal movimento del treno. Era come se fossimo stati dolcemente, a lungo cullati.

Poi, inaspettatamente, dissero che eravamo arrivati.

Una stazione più desolata delle altre, ovunque rottami di ferro contorti, ovunque ruggine, anche la terra color ruggine. A fianco dei binari i muri devastati e sbrecciati di una grossa fabbrica, recente bersaglio di massicci bombardamenti, che sembravano aver lasciato intatta, assurdamente, solo l'altissima ciminiera. Una strada disselciata si allungava verso una collinetta piatta su cui si intravedevano edifici apparentemente ancora in efficienza, ma gli edifici, come la strada, erano color polvere di carbone.

Dove eravamo finiti? Dov'era la stazione?

Finalmente, portati avanti e indietro dal treno che non smetteva di manovrare, vedemmo la stazione, o meglio, quello che rimaneva: quattro muri barcollanti e sui resti di una tettoia una grande insegna: "JSIUM".

Si dovette scendere dal treno. Gli uomini si muovevano di malavoglia, cercavano di sgranchirsi. Bene o male dentro quei vagoni si era vissuto. Dove si sarebbe andati ora? Fuori ruggine e carbone, poi anche pioggia, una pioggia plumbea da novembre avanzato, in Italia.

Sotto una tettoia sforacchiata dalle schegge cataste di zaini e di altro materiale militare italiano. Sul mucchio, avvolti nelle coperte da campo, stavano dormendo gli ultimi alpini del C.d’A. arrivato in Russia poco prima di noi. Ci fecero l'impressione di gente "anziana", già da molti mesi dentro il meccanismo di quella guerra. Ma già noi eravamo stanchi come loro, quantunque avessimo appena messo piede in Jsium, opprimente e plumbea.

Scendemmo, dunque, a terra e ci avviammo verso il teatro del paese sulla collinetta piatta, dove il battaglione avrebbe trovato sistemazione per qualche giorno, in attesa degli autocarri che ci trasporterebbero al fronte.

Finalmente vedemmo gente: donne e vecchi in fila sotto l’acqua in attesa della distribuzione del pane. Pane nerissimo intonato al colore di tutte le cose, anche dei vestiti e dei volti della piccola folla. Una scena penosa, tuttavia solo dieci giorni prima saremmo stati segnati da un’impressione ben altrimenti graffiante. Avveniva in noi qualcosa di paradossalmente contraddittorio. La realtà con cui venivamo a contatto allargava i dubbi e smascherava falsi valori e falsi ideali; nello stesso tempo, ognuno di noi, quasi animalescamente, si conformava a vivere la quotidianità dei disastri e degli orrori della guerra.

Libri: "SMALP"

Il libro è stato pubblicato in occasione dell’Adunata degli Alpini tenutasi a Milano nel 2019. Andrea Ferriani, titolare della casa editrice Editoriale Delfino, ha frequentato il 102° corso AUC svoltosi nel 1981 e ha voluto rendere omaggio all’Adunata degli Alpini tenutasi a Milano dal 10 al 12 maggio 2019 con la pubblicazione di questo libro. Attraverso una meticolosa e approfondita ricostruzione storica, rende omaggio agli uomini che hanno avuto l’onore di trascorrere una parte della loro vita in questa Scuola. Una Scuola di vita, che ha lasciato a tutti ricordi ed emozioni ricchi di valori indelebili. Questo volume è dedicato a tutti coloro che in più di sessant’anni hanno frequentato i corsi come Allievi Ufficiali di Complemento dalla Scuola Militare Alpina di Aosta, ma anche a tutti gli appassionati.

Il testo è acquistabile al seguente link https://www.editorialedelfino.it/smalp.html.

giovedì 22 ottobre 2020

Magari un giorno...

Se non lo avete mai visto, guardatelo... e guardatelo fino alla fine. Ed immaginate che un giorno anche in Italia si possa realizzare qualche cosa di analogo, magari sui ragazzi della Russia e magari trasmesso in prima serata al posto di qualche stupida trasmissione e magari proiettato nelle scuole e magari...

lunedì 19 ottobre 2020

Il falso mito delle “scarpe di cartone"

Molto spesso si sente parlare delle famigerate “scarpe di cartone”, con le quali, secondo una diffusa convinzione, i soldati italiani avrebbero affrontato la campagna di Russia durante la Seconda Guerra Mondiale, andando incontro ad esiti terribili per via delle calzature assolutamente inadeguate, addirittura con la suola realizzata in cartone pressato. In realtà questa è essenzialmente solo una leggenda storica.

I soldati italiani combatterono nel secondo conflitto mondiale con calzature di buona qualità, che, almeno nella loro configurazione ottimale, non potevano certo considerarsi pericolose per i piedi dei soldati. Come modello standard era previsto l’uso dello scarpone adottato nel 1937, che aveva un gambaletto più basso dei precedenti, con la tomaia realizzata in cuoio ingrassato e la suola in legno e cuoio, rinforzata da una chiodatura leggera per le armi a piedi e a cavallo, un diverso modello, con chiodatura da montagna, era in uso alle truppe alpine. Questo particolare tipo di calzatura era stato concepito tenendo presente il clima dell’Europa occidentale e, come ipotesi di impiego, il terreno dell’arco alpino italiano.

Indubbiamente, quando questi scarponi si trovarono ad affrontare l’inverno russo, con i suoi meno quaranta gradi, e le particolari condizioni ambientali del fronte orientale, mostrarono dei limiti. In modo particolare, gravi effetti derivarono dalla mancanza di approvvigionamenti e, dunque, dalla capacità di sostituire efficacemente le dotazioni usurate. L’Esercito Italiano era carente di automezzi, rendendo difficile rifornire rapidamente i raparti in prima linea, specie sulle enormi distanze del fronte russo. Le calzature assegnate ai nostri soldati, seppur di buona qualità, utilizzate nelle lunghe ed estenuanti marce a piedi, nel fango e nella neve del fronte orientale, erano sottoposte ad una inevitabile usura, rendendo necessaria la loro sostituzione entro pochi mesi.

L’Intendenza Militare, però, pur avendo i propri depositi nelle adiacenze del fronte, era spesso impossibilitata ad utilizzare i mezzi adeguati per rifornire i reparti. Non è secondario notare come questo tipo di problematica fu assai meno sentita nel 1941, all’epoca in cui era impiegato il CSIR, Corpo di Spedizione Italiano in Russia, che aveva una consistenza numerica piuttosto contenuta e che occupava una porzione ridotta del fronte.

I problemi logistici maggiori iniziarono dal 1942, con la nascita dell’ARMIR, l’Armata Italiana in Russia, una grande unità di notevoli dimensioni composta da una grande moltitudine di soldati, alla quale era assegnato un lungo tratto di fronte, pertanto le linee di comunicazione si allungarono ed il numero di militari da dover rifornire aumentò in modo esponenziale. Un aumento che l’Intendenza non fu in grado di sostenere con dotazioni adeguate, in particolare erano scarsi gli automezzi che avrebbero consentito di portare rapidamente i rifornimenti in prima linea.

Dal punto di vista costruttivo, probabilmente, il principale limite degli scarponi italiani va ricercato proprio nel sistema della chiodatura: aprendo microfori nella suola della scarpa si consentiva il passaggio di una certa quantità di umidità che, ad una temperatura di meno 40 gradi, gelava rapidamente esponendo il piede al congelamento. Per far fronte a tali difficoltà si ricercarono modelli di calzature più efficienti, ad alcuni reparti alpini, in primo luogo al Battaglione “Monte Cervino”, furono dati in dotazione nuovi scarponi con suola gommata in Vibram che risultarono particolarmente adatti a reggere le rigide temperature dell’inverno russo. Allo stesso tempo, studiando un peculiare tipo di stivale utilizzato dalle popolazioni locali, i cosiddetti “valenki”, furono creati stivali in feltro di lana pressato che potevano essere indossati sopra i normali scarponi come una sorta di galosce, oltre ad essere imbottiti di lana o paglia per mantenere gamba e piedi ancor più al caldo ed isolati dal gelo.

Purtroppo anche queste dotazioni soffrirono la difficoltà dei trasporti per gli approvvigionamenti, gran parte di esse finì per accumularsi nei magazzini militari senza la possibilità di essere distribuite effettivamente alle truppe al fronte.

Nel complesso può considerarsi solo parzialmente vero che i soldati italiani affrontarono i vari fronti della Seconda Guerra Mondiale con dotazioni e vestiario non sempre all’altezza delle esigenze belliche, ma va definitivamente sfatato il mito degli scarponi di cartone e, con esso, il terribile sospetto che possano esserci state gravi speculazioni sulle forniture militari e, quindi, sulla vita dei nostri soldati.

Fonte: articolo di Salvatore De Chiara sul sito Historia Regni.

venerdì 16 ottobre 2020

Un mito da sfatare il T34/76

All'inizio del conflitto, il ben corazzato T-34, pur con la sua imperfetta trasmissione, incapace di sostenere lunghe marce, si dimostrò tuttavia un buon carro armato di supporto alla fanteria. Ma progressivamente perse il suo vantaggio in corazzatura che aveva avuto all'inizio del conflitto.

Alla fine del 1943 o all'inizio del 1944, il T-34 era diventato un obiettivo relativamente facile per i carri tedeschi con i cannoni da 75 mm e per le armi anti-carro, mentre i colpi del cannone da 88 millimetri del Tiger, le batterie anti-aeree e le armi anti-carro PAK-43 risultavano invariabilmente letali.

La torretta era perforata in maniera relativamente facile dalle armi tedesche. La situazione era aggravata dal fatto che spesso le torrette del T-34 erano colpite da pezzi di artiglieria pesante come l'88 mm antiaereo e dai carri tedeschi equipaggiati con cannoni a canna lunga come il 75 mm e il 50 mm.

A ciò si univa una gravissima mancanza di vie di fuga adeguate per l'equipaggio, dal momento che il portellone monoblocco sulla torretta rappresentava l'unica uscita facilmente agibile per i membri dell'equipaggio (il portello davanti alla postazione del pilota, infatti, era fin troppo piccolo e macchinoso da aprire).

Bisogna poi ricordare che la produzione dei carri sovietici divenne numericamente consistente grazie alle macchine utensili (44.600), ai forni elettrici ed alle lastre di acciaio (6.000.000 di tonnellate la maggior parte in lastre pronte per essere tagliate e saldate) inviate dagli USA. Vennero prodotti 35,467 T34/76.

Altro grave difetto era la torretta biposto dove il capocarro era anche servente al pezzo, la visibilità esterna era troppo scarsa ed in più non c'era una radio. Anche i cingoli erano un punto debole. Nel 1941, per il carro russo compiere viaggi di centinaia di chilometri sarebbe risultato letale.

Quando nel giugno del 1941 l'8º Corpo Meccanizzato di D.I. Ryabyshev avanzò verso Dubno, perse metà dei suoi veicoli. A.V. Bodnar, che si trovò in combattimento nel 1941-42 ricordava: "Dal punto di vista dell'operatività, le macchine corazzate tedesche erano più perfette, si rompevano meno spesso. Per i tedeschi, coprire 200 chilometri era nulla, ma con i T-34 qualcosa si sarebbe rotto, qualcosa si sarebbe perso. L'equipaggiamento tecnico delle loro macchine era migliore, l'armamento peggiore".

I cingoli erano un serio punto debole. Erano la parte riparata più di frequente. Gli equipaggi si portavano addirittura le parti di ricambio in combattimento. A.V. Maryevski ricordava: "I cingoli si potevano spezzare anche senza essere colpiti. Quando la terra si incollava tra le ruote dentate, il cingolo, soprattutto durante una curva, si tendeva tanto che i perni e gli stessi cingoli non potevano resistere".

Inoltre la trasmissione dei primi modelli di T-34 era la più primitiva dei suoi tempi. Cambiare marcia nei T-34 dei primi anni del conflitto, con cambio a quattro marce, era molto complicato e richiedeva una grande forza fisica. I veterani carristi russi ricordavano quanto fosse difficile cambiare marcia e di come dovessero aiutarsi con le ginocchia. Inoltre, risultava quasi impossibile, pena la rottura degli ingranaggi, utilizzare III e IV marcia in fuoristrada (la velocità massima effettiva si riduceva così a soli 15-20 km/h).

La frizione, poi, estremamente arcaica (era composta da semplici dischi di ferro), non poteva essere fatta slittare senza incorrere nel rischio di una sua rottura. Era assolutamente necessario che gli equipaggi dei T-34 fossero molto ben addestrati. "Se un guidatore non lo era - ricordava il comandante di plotone A.V.Bodnar - avrebbe potuto ingranare la quarta invece della prima e la terza invece della seconda, la qual cosa avrebbe portato alla inevitabile rottura del cambio".

Per un certo periodo i russi scartarono ogni progetto di miglioria o di modifica del T-34, per mantenere la produzione la più alta possibile, almeno fino all'arrivo del Panzer V Panther e del Panzer VI Tiger. I lunghi cannoni di questi nuovi carri permettevano ai carristi tedeschi di combattere senza preoccuparsi di nascondersi.

Il comandante di plotone Nikolai Yakovlevich Zheleznov ricordava: "Dato che i nostri cannoni da 76 millimetri potevano perforare le loro corazze da non più di 500 metri, essi restavano all'aperto. Perfino i proiettili da 76 millimetri rinforzati al tungsteno non davano alcun vantaggio, dato che potevano perforare corazze di 90 millimetri da una distanza di 100 metri, quando la blindatura frontale del Tiger era spessa 102 millimetri".

Per loro fortuna i Sovietici potevano disporre di aerei anticarro tra i quali gli Hawker Hurricane con 4 cannoni da 20 mm e razzi da 127 mm ed i Bell P39 con cannone da 37 mm.

Fonte: articolo di Sergio Mazzella sul gruppo Le Grandi Battaglie della Storia.