martedì 27 ottobre 2020

I giorni e gli anni, parte 2

Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. Danilo Ferretti fu fatto prigioniero nel Dicembre 1943 e scrisse questo libro solo nel 1979. L'immagine è stata scattata dal sottoscritto nell'estate del 2019 dalle postazioni italiane sopra Ogolewka, di cui si vedono ormai solo i poveri resti.

OGOLEWKA.

Il 10 dicembre era andato all'attacco il 30°. La sera prima, a mensa, un ufficiale di grossa mole aveva detto: "Non siamo siamo fortunati, noi del 6°. Siamo il miglior battaglione di tutto il raggruppamento e per un’azione facile che darà molta gloria e trascurabili perdite viene scelto il 30°. È un vero peccato! Forse dovevamo farci avanti".

La sera del 10, ancora a mensa, fummo messi al corrente dell’azione compiuta dal 30°. Nel vano tentativo di occupare Ogolewka il battaglione era stato completamente distrutto. L'ufficiale grasso, per tutto il tempo che durò la cena, rifletté in silenzio sul piatto. Il 12 toccò a noi.

Che cosa era Ogolewka? Un villaggio, un pugno di povere case quasi tutte in legno, sulla riva destra del Don, annidato in una piccola insenatura, una cucchiaiata di terra sovrastata da una gobba pelata di terreno alta una cinquantina di metri, su cui passavano le prime linee "fortificate" dell’ARMIR. Oltre il Don, sulla riva sinistra, si stendevano terreni piatti, paludosi e fitti di vegetazione.

Per tutta l’estate Ogolewka era stata presidiata da piccoli reparti dell’ARMIR senza il minimo segno di disturbo da parte dei russi, le cui posizioni, al di là del fiume, neppure si vedevano. A metà novembre, alla prima neve, le cose cambiarono. Le tranquille, sbilenche casette di Ogolewka cominciarono ad essere fatte segno sistematicamente, metro, da precisi colpi di mortaio pesante e da intense raffiche di mitragliatrice: un tiro a bersaglio fisso. Ogolewka non poteva essere più tenuta; ciò nonostante fu riconfermato l'ordine di non abbandonarla. Centinaia di vite furono sacrificate, finché Ogolewka si evacuò da sola e fu tenuta solo dai morti.

Allora i comandi mutarono parere. Il possesso materiale del villaggio non aveva alcun significato; le nostre posizioni, tutte saldamente ancorate sulle alture della riva destra del Don, dominavano come volevano la piccola piana col suo gruppo di case. Ogolewka, anche senza essere presidiata rimaneva virtualmente nelle nostre mani.

Con sbalorditiva coerenza, il giorno 8 dicembre dal Comando di settore venne ordinato di rioccupare Ogolewka e nel corso di una settimana furono sacrificati interi battaglioni per un obiettivo inutile e Impossibile. "Perché?" - chiedemmo.

"A giorni verrà a darci il cambio una divisione corazzata tedesca. Ogolewka deve essere nelle nostre mani. Dobbiamo essere noi a consegnarla ai tedeschi". Questa fu la giustificazione che giunse ai reparti. Il giorno 12, dunque, toccò al 6°.

Avevamo passato una nottata insonne, parte all’addiaccio, parte in disgraziate baracchette di legno a Getreide Swiss, fino a poco prima occupata da alcune compagnie della Pasubio, dove il fuoco e il fumo delle stufette di ferro inutilmente lottavano col gelo che penetrava da mille fessure. Alle 4 del mattino partimmo in camion per il caposaldo Olimpo.

Mulinava nell'aria un sottile nevischio ghiacciato che tagliava la faccia. Il nostro camion, che si era messo in moto per ultimo, viaggiava in coda alla colonna. Aveva appena superato arrancando la discesa e la risalita di un profondo avvallamento, quando il motore si arrestò. Una tragedia date le circostanze, tanto più che lì imbarcati c'erano portaordini, esploratori, segnalatori e alcuni militi dalle facce magre e pallide giunti pochi giorni prima dall’Italia. L'autista sollevò il cofano bestemmiando e cominciò a smanettare dentro il motore. Ogni tanto sollevava la testa, mi rivolgeva uno sguardo desolato, allargava le braccia e, mostrandomi le grosse mani nere di morchia, ripeteva macchinalmente: "Qui ci vuole un meccanico, qui ci vuole un meccanico...".

Io mi agitavo con l’animo di chi, in fondo, si sente la coscienza sporca. Non credevo più a nulla di quella guerra, ma ero - mio malgrado - ancora così imbevuto di retorica che non volevo tenermi fuori da una prova che chiaramente si prospettava difficilissima e forse fatale.

Passò una buona mezz'ora. Ormai non si poteva sperare di raggiungere la colonna. Che fare? Andare avanti a piedi? E dove? Tornare indietro a piedi? E dove? "Provo ancora una volta a mettere in moto?" - chiese l'autista. "Prova" - gli dissi. Si mise davanti al radiatore e, spingendo con tutte le forze, cominciò a far girare la dura manovella. Uno scoppio, due scoppi, poi il motore riprese a funzionare.

"Ce l'ho fatta!" - esclamò l’autista e respirò profondamente. Ce l’aveva messa tutta. Ci rimettemmo in movimento seguendo quella che ci sembrava una pista sulla neve ghiacciata. Dopo un tragitto di poche centinaia di metri raggiungemmo la colonna, pure ferma per guasti ai camion di testa. Se non fosse stato che si moriva sul serio, e, anche senza morire, si abbaiava di freddo, si sarebbe potuto cogliere il lato comico di quella guerra. Ma non ci fu tempo per lunghe riflessioni.

Riprendemmo presto la marcia e verso le 10 arrivammo all’Olimpo. Lasciammo i camion e, ricomposti in fretta i reparti, ci avviammo a piedi verso il caposaldo X. Secondo quanto ci avevano assicurato certi ufficiali dell'Olimpo, Ogolewka non era più un problema, essendo stata occupata fin dalle prime ore del mattino da un battaglione della Divisione Pasubio, quindi, molto probabilmente, non ci sarebbe stato più bisogno di noi e forse saremmo potuti tornare subito indietro. Intanto proseguimmo in fila indiana verso il caposaldo X. La marcia era frequentemente interrotta da fermate. Quanto rimaneva del plotone esploratori era in coda alla lunga fila e veniva ripetutamente fatto segno a colpi di mortaio. I russi sembravano vedere solo noi. Alcuni feriti tornarono a Getreide Swiss, dove doveva esserci un posto di medicazione, con lo stesso automezzo che ci aveva portato all’Olimpo.

Finalmente giungemmo al famoso caposaldo X. Sembrava una postazione abbandonata fin dall’estate e riattivata alla bell'e meglio in via del tutto provvisoria. Non c'erano camminamenti; qua e là nel terreno solchi profondi non più di mezzo metro, appena rilevabili per la neve che li copriva. Contro una collinetta, "la gobba" che sovrastava Ogolewka, tre grossi bunker rinforzati da palizzate costituivano il nucleo centrale del caposaldo; dentro c'erano i comandi della Pasubio e della 3 Gennaio, i centralini telefonici, i portaordini e tanti ufficiali che passavano correndo curvi da un bunker all’altro chissà per quali misteriosi compiti. Noi, appena arrivati, con le mani vuotammo della neve i cosiddetti camminamenti e cercammo di ripararci quanto più possibile dai mortai russi che di tanto in tanto scaricavano una bordata. Dalla parte del Don si udiva un’intensa fucileria.

Non tardammo a vedere venir su da Ogolewka i primi feriti e, coi feriti, altra gente che sembrava aver perduto la testa. Ufficiali e soldati venivano "scaricati" davanti ad un bunker, in cui avrebbe dovuto esserci un medico o almeno un posto di medicazione. Non c’era niente. Ufficiali usciti dai ricoveri si raccoglievano attorno ai feriti e sembravano presi anche loro da una ventata di follia. Gesticolavano come si e gridavano: "Un medico, un medico! Dov'è un medico? Vigliacchi tutti!". I feriti, intanto, sacramentando, si tamponavano alla meglio le ferite con i pacchetti di medicazione. Finalmente, dopo tanto sbraitare e gesticolare, si scovò un medico. Arrivò dall’Olimpo, senza ferri chirurgici, senza disinfettante, senza bende. Ordinò di portare tutti i feriti all’Olimpo e fortunatamente si poterono approntare subito alcune carrette per il trasporto. La confusione nei tre bunker era immensa. Intanto non si entrava tanta era la ressa e nessuno sapeva che cosa si doveva fare.

Un capitano venuto su da Ogolewka, ferito ad una spalla e ad una mano, ma ancora in grado di ragionare, si ostinava a sostenere di fronte ad altri ufficiali dei comandi, che gli si erano fatti attorno, che non era difficile arrivare al villaggio stando al coperto di una balka boscosa, ma era assolutamente impossibile mantenervisi. Le mitragliatrici, gli anticarro e i mortai russi, piazzati nell'altra sponda in postazioni da tempo preparate e mascherate, nascosti dalla boscaglia, potevano arare e falciare letteralmente il terreno. Tutti erano così convinti che l'azione di "riconquista" di Ogolewka era pazzesca, che un Maggiore, comandante del caposaldo X, decise di telefonare al Comandante della Pasubio chiedendo di sospendere l'azione del nostro battaglione. Venne sul posto il Capo di S.M. della Pasubio, Col. Cangini. Una breve discussione all'interno di uno dei bunker, poi l'ordine: "Costi quel che costi, quando i tedeschi ci daranno il cambio, Ogolewka dovrà essere italiana".

Alle 12 precise si partì all'attacco di un nemico invisibile, perché a Ogolewka non c'erano russi, forse c'era solo qualche cecchino appostato convenientemente, ma il fuoco invalicabile proveniva dall'altra riva del fiume.

Due compagnie avanzate, una di rincalzo coi resti del plotone esploratori. Sulla "gobba" del caposaldo X scese un grande silenzio. Solo lontano sulla destra del fronte si udiva un cupo cannoneggiamento. Le due compagnie in ordine sparso si buttarono giù per il pendio scoperto, vedendo Ogolewka a non più di 300/400 metri di distanza. Pochi alberi e cespugli sul lato sinistro; per il resto terreno nudo, ripido, come predisposto per un'esercitazione di tiro per i russi annidati chissà dove.

I primi cento metri furono percorsi senza che dalle due parti si udisse uno sparo. Anche la compagnia di rincalzo cominciò a scendere. Ancora silenzio, un incredibile silenzio, poi ad un tratto l’aria esplose, si aprirono le cateratte, fuoco di anticarri, mortai, mitragliatrici davanti agli uomini, sugli uomini, una barriera di morte. Soltanto questo ricordo di quell’inferno. Dinnanzi a me, forse a cento metri, un ragazzo di Cremona, Farina, ex-allievo scuola mistica fascista, tenente dei mitraglieri. Con le lunghe gambe avanza a sbalzi brevi, veloci. È nella zona di fuoco. Mi pare che si trascini verso un uomo accosciato a terra con l’arma pesante ribaltata e che lo scuota. Lo vedo alzarsi, scorgo la sua barbetta rossastra, mi pare che gridi, è altissimo, cade giù di schianto, colpito in fronte. Ma qualcuno riesce a passare dallo sbarramento delle armi pesanti russe e si butta al riparo delle prime isbe di Ogolewka. Ci sono morti che stanno in piedi, stecchiti dal gelo.

Alle prime ore della sera i superstiti rientrano all’X. Nei comandi la confusione era aumentata. I reparti si erano dispersi nei vari ricoveri e gruppi di militari di propria iniziativa cercavano di preparare un minimo di riparo per la notte nei luoghi ritenuti più defilati. Dov’era il nemico? Se i russi avessero voluto, avrebbero potuto prenderci tutti senza colpo ferire. Era già buio quando mi mandò a chiamare il Comandante di battaglione affidandomi l'incarico di radunare i superstiti del mio plotone, del plotone comando e delle due compagnie decimate poche ore prima, e di recarmi a dare il cambio ad una compagnia della Tagliamento che da vari giorni teneva una posizione detta "Raccordino", tra il caposaldo X e il caposaldo Z. Uscirono dai bunker e dai camminamenti una trentina di uomini stanchi, malandati. Muovendoci come automi ci avviammo verso il Raccordino. Aveva ripreso a soffiare il vento tagliente che già all’alba di quel giorno ci aveva tormentati.

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