sabato 24 ottobre 2020

I giorni e gli anni, parte 1

Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. Il libro non è facilmente reperibile, ma ne consiglio la lettura.

VERSO IL FRONTE DEL DON.

Il convoglio, partito il 22 agosto dalla stazione Tiburtina di Roma aveva attraversato abbastanza velocemente il territorio italiano, recando sulle fiancate dei vagoni grandi scritte spavalde. A San Ruffillo, una stazioncina secondaria di Bologna, avevo appena avuto il tempo di abbracciare mia moglie e mia madre. Nonostante il facile, spesso gratuito, rifornimento di vino, non c’era allegria negli uomini. All’alba del 23 agosto ci svegliammo a Bronzolo, dove la tradotta era stata messa in sosta dalla mezzanotte in poi. E poi anche il vetro dei fiaschi fu buttato a terra.

Dopo il Brennero niente più cordiali gesti di saluto o sguardi affettuosi, anche se preoccupati. I civili tedeschi ci osservavano in silenzio con gelida indifferenza; i militari, terribilmente composti e seri, qualche volta rispondevano al nostro saluto, ma nei loro sguardi si leggeva ironia, forse disprezzo. A Innsbruck sostammo mezza giornata nella stazione, sempre guardati così. Impossibile non sentirsi a disagio. A partire di lì la tradotta del Montebello diventò una tradotta di consegnati, atmosfera punitiva.

Il treno, instradato su una linea secondaria a binario unico, passava attraverso vaste campagne. Era il pomeriggio avanzato e il convoglio procedeva lentissimo. Nei campi si vedevano gruppi di uomini e di donne al lavoro. Erano lavoratori italiani. Come si accorsero che il treno trasportava dei connazionali, interruppero il lavoro, gettarono a terra gli attrezzi e ci salutarono con alte grida. Alcuni, corsero a fianco dei vagoni, gridando "Italia! Italia!", quasi disperatamente e buttandosi a terra sfiniti quando il treno prese velocità. Quei lavoratori, quei braccianti, quegli italiani non sembravano degli uomini liberi, ma dei prigionieri. Discutemmo nei vagoni, con sofferenza, ma si finì per concludere che i tedeschi facevano la guerra sul serio e che le condizioni della guerra imponevano ferree regole di vita, con le quali dovevano fare i conti quanti già soffrivano per la lontananza dal proprio paese. Cresceva così nell’animo la pena dell’esiliato.

Il giorno seguente, all’alba, guardando fuori dal finestrino, sentii pesare ancora di più su di me una soffocante aria di caserma, anzi di luogo di pena. Certo non fui il solo a provare quella sensazione. La tradotta correva lungo le altissime mura di una fabbrica, per chilometri e chilometri, mura grigie e tetre proprio come quelle di un immenso carcere. Ogni tanto una ciminiera tra volute di fumo nerastro: eravamo ad Halle (Saale). Di qui piegammo verso est.

In Polonia subentrarono altre emozioni. Nella grigia, deserta pianura polacca, così povera di case e di uomini, così piena di tristezza, sotto un cielo basso che colava umidità, sembrava che lo sferragliare del treno rompesse e riempisse un pesante silenzio. Poi il silenzio prevaleva e la tradotta si fermava su un binario morto, non in una stazione, ma in aperta campagna. Passavano convogli pieni di soldati, scivolavano sui binari lucidi di pioggia coi loro carichi silenziosi, spettrali. Muti gli uomini, vestiti di acciaio come i cannoni, come le tanks. Lunghe soste inspiegabili. Dai vagoni, che i nostri lasciavano solo per estremo bisogno, soltanto una canzone trovava voce corale: "ta-pum, ta-pum, ta-pum...". Poi, improvvisamente, senza un segnale di preavviso, nulla... magari solo poche centinaia di metri e si ritornava indietro nello stesso posto di prima... senza indizio di ragione. Infine si ripartiva davvero, ma non era finita l'angoscia.

La Polonia cambiava aspetto, non più l'aperta, vuota campagna, ma villaggi, paesi, città e la visione della terribile condizione di miseria della popolazione polacca. Migliaia di bimbi, migliaia di donne ebree, mandrie affamate e perseguitate da guardiani senza ombra di pietà. Nella sosta di alcune ore alla periferia di Varsavia, benché i binari fossero presidiati metro per metro da orrende guardie tedesche dalle vecchie facce pietrificate e dai fucili con baionetta spianati, nugoli di bambini si precipitarono verso la nostra tradotta gridando "Italiano, gaglieta! Prego, italiano, gaglieta!".

Quel grido, quell’invocazione moltiplicò la nostra generosità, ma ferì profondamente i nostri sentimenti. Magra soddisfazione vedere che i bimbi polacchi non avevano paura di noi italiani, mentre i tedeschi erano visibilmente oggetto del loro odio. Che causa servivamo? Si affossarono i nostri residui, incerti, confusi, ideali.

In altre stazioni, negli immensi intrichi di smistamento di strade ferrate, donne ebree con la gialla stella di Davide sul petto lavoravano come schiave a ripulire i binari degli escrementi lasciati da innumerevoli convogli di militari, di prigionieri di guerra, di deportati, di bestie. Erano per lo più ragazze giovani, smunte, denutrite, dai vestiti laceri. Nessuna di loro, però, ci rivolgeva la parola o faceva un gesto per chiederci qualcosa da mangiare. I guardiani tedeschi non l'avrebbero tollerato ed erano pronti a sparare. Esse, al massimo, osavano lanciare uno sguardo furtivo, ed erano occhi di agnello ferito a morte quelli che si posavano per un attimo su di noi.

In una grande stazione, poco prima di entrare nella Russia Bianca, il nostro convoglio si era appena fermato quando un ufficiale del locale comando italiano ci informò che era assolutamente proibito dare cibi o qualsiasi altra cosa alle donne ebree e che la Kommandatur aveva protestato per il comportamento degli alpini, i cui convogli erano transitati alcune settimane prima ed avevano quasi fraternizzato con le donne ebree. La raccomandazione del nostro imbarazzatissimo compatriota, naturalmente, sortì l'effetto contrario, perché subito facemmo a gara nel porgere pane, scatolette, tabacco e quanto altro possedevamo, cercando di eludere la vigilanza dei guardiani tedeschi. Le ragazze ebree erano sveltissime ad afferrare quanto porgevamo o lanciavamo; subito si ricomponevano nel lavoro.

Purtroppo, però, una fu sorpresa dalla guardia appostata dietro un vagone. Era un vecchio dalla faccia di cane che si precipitò contro di noi urlando frasi incomprensibili, schiumando di rabbia, poi a pedate e a colpi di calcio di fucile cacciò davanti a sé, verso la stazione, come fosse una bestia immonda, la povera ragazza, che non tentava neppure di sottrarsi ai colpi, né emetteva un lamento. Le altre ragazze, a testa bassa, in silenzio, continuavano a raccogliere gli escrementi.

"Merci, monsieur!" - aveva mormorato la ragazza, cercando di nascondere in seno il pacchetto di gallette, prima che la guardia l’aggredisse. "Merci, monsieur!". Poco più tardi, mentre stavamo per partire, l'addetto al comando italiano di stazione ci informava che la poveretta era stata fucilata nel fossato che scorreva nei pressi. Questa è la Polonia del mio ricordo.

Poi attraversammo la Bielorussia o Russia Bianca. Non vedemmo più né bambini né ragazze ebree. Sembrava di passare per regioni abbandonate dall'uomo in seguito ad uno spaventoso cataclisma. In tutte le stazioni anche le più piccole e quasi sperdute nel bosco, resti di incendi e distruzioni, vagoni sventrati, treni blindati, che a noi ricordavano immagini della prima guerra mondiale, rovesciati ai lati della strada ferrata, ammassi di lamiere contorte.

Regione di Gomel, zona di partigiani, Nel convoglio correva voce che ancora pochi giorni prima una tradotta di alpini era stata attaccata e gli alpini avevano subito molte perdite. Su ogni vagone piazzammo le mitragliatrici pesanti e appostammo le Breda. In silenzio passammo per una foresta che sembrava non finire mai; l'ombra degli alberi portava nei vagoni folate di fresco che davano i brividi.

Dopo la regione di Gomel, l'Ukraina. Campi immensi di grano e di miglio non ancora mietuti. Non si vedeva un civile né nelle stazioni né nei campi. Dove si era cacciata, o dove era stata cacciata la gente? Chi avrebbe raccolto tutta quella ricchezza?

La nostra tradotta sembrava trovare da sola la strada attraverso la sterminata pianura, quasi scegliesse il passaggio là dove non c'era gente, e lento era il procedere del convoglio, ovattato il fragore ritmico delle ruote sui giunti. Se in Polonia ci avevano irritato le lunghe inspiegabili soste sui binari morti tanto che sembravamo impazienti di giungere, ora, invece, nessuno di noi si spazientiva. Ci si era adattati a dormire sulle tavole nude e rannicchiati in poco spazio. Su tutti passava una strana sonnolenza, un torpore che era stato certamente prodotto dal movimento del treno. Era come se fossimo stati dolcemente, a lungo cullati.

Poi, inaspettatamente, dissero che eravamo arrivati.

Una stazione più desolata delle altre, ovunque rottami di ferro contorti, ovunque ruggine, anche la terra color ruggine. A fianco dei binari i muri devastati e sbrecciati di una grossa fabbrica, recente bersaglio di massicci bombardamenti, che sembravano aver lasciato intatta, assurdamente, solo l'altissima ciminiera. Una strada disselciata si allungava verso una collinetta piatta su cui si intravedevano edifici apparentemente ancora in efficienza, ma gli edifici, come la strada, erano color polvere di carbone.

Dove eravamo finiti? Dov'era la stazione?

Finalmente, portati avanti e indietro dal treno che non smetteva di manovrare, vedemmo la stazione, o meglio, quello che rimaneva: quattro muri barcollanti e sui resti di una tettoia una grande insegna: "JSIUM".

Si dovette scendere dal treno. Gli uomini si muovevano di malavoglia, cercavano di sgranchirsi. Bene o male dentro quei vagoni si era vissuto. Dove si sarebbe andati ora? Fuori ruggine e carbone, poi anche pioggia, una pioggia plumbea da novembre avanzato, in Italia.

Sotto una tettoia sforacchiata dalle schegge cataste di zaini e di altro materiale militare italiano. Sul mucchio, avvolti nelle coperte da campo, stavano dormendo gli ultimi alpini del C.d’A. arrivato in Russia poco prima di noi. Ci fecero l'impressione di gente "anziana", già da molti mesi dentro il meccanismo di quella guerra. Ma già noi eravamo stanchi come loro, quantunque avessimo appena messo piede in Jsium, opprimente e plumbea.

Scendemmo, dunque, a terra e ci avviammo verso il teatro del paese sulla collinetta piatta, dove il battaglione avrebbe trovato sistemazione per qualche giorno, in attesa degli autocarri che ci trasporterebbero al fronte.

Finalmente vedemmo gente: donne e vecchi in fila sotto l’acqua in attesa della distribuzione del pane. Pane nerissimo intonato al colore di tutte le cose, anche dei vestiti e dei volti della piccola folla. Una scena penosa, tuttavia solo dieci giorni prima saremmo stati segnati da un’impressione ben altrimenti graffiante. Avveniva in noi qualcosa di paradossalmente contraddittorio. La realtà con cui venivamo a contatto allargava i dubbi e smascherava falsi valori e falsi ideali; nello stesso tempo, ognuno di noi, quasi animalescamente, si conformava a vivere la quotidianità dei disastri e degli orrori della guerra.

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