venerdì 27 settembre 2019

Patto Molotov-Ribbentrop

Quale appassionato di storia e amante della verità, SEMPRE E COMUNQUE, segnalo l'importanza storica della "Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 sull'importanza della memoria europea per il futuro dell'Europa" in cui viene affermato tra l'altro che "sottolinea che la Seconda guerra mondiale, il conflitto più devastante della storia d'Europa, è iniziata come conseguenza immediata del famigerato trattato di non aggressione nazi-sovietico del 23 agosto 1939, noto anche come patto Molotov-Ribbentrop, e dei suoi protocolli segreti, in base ai quali due regimi totalitari, che avevano in comune l'obiettivo di conquistare il mondo, hanno diviso l'Europa in due zone d'influenza".

Questo il link http://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2019-0021_IT.html.

sabato 7 settembre 2019

Diario di viaggio, giorno 7

7 SETTEMBRE - Le fosse di Uciostoje. Quello che non doveva essere pubblicato è stato pubblicato e successivamente rimosso per rispetto verso i parenti dei caduti e anche verso i russi che tanto ci hanno sempre aiutato. Ma in oltre 30 anni di letture e studi sulla Russia e dopo 8 anni di viaggi in queste località MAI avevo visto quello che ho visto in questo giorno. Un conto è leggere un conto è vedere a mezzo metro di distanza. Per giorni ho avuto davanti agli occhi quelle immagini. Ora pubblico solo alcune immagini delle fosse comuni.





Diario di viaggio, giorno 7, Tambov

7 SETTEMBRE - Il lager di Tambov... tutto quel che resta dei ricoveri nel terreno.

Diario di viaggio, giorno 7

7 SETTEMBRE - Il lager di Tambov... quelle che sembrano delle grandi buche nel terreno non sono altro che i resti delle "baracche" nelle quali vivevano e morivano i prigionieri. Un pavimento di terra, un tetto di terra, delle pareti di terra a delle temperature che spesso arrivavano a meno 40 gradi. Giorno dopo giorno, notte dopo notte, con i tuoi compagni che muoiono come mosche.



Diario di viaggio, giorno 7, Tambov

7 SETTEMBRE - Il lager di Tambov... Nel bosco fra le varie lapidi a ricordo dei caduti italiani, tedeschi, rumeni, ungheresi, francesi, ecc. ci stiamo avvicinando ai resti di quelle che erano le baracche del campo.

Diario di viaggio, giorno 7, Tambov

7 SETTEMBRE - Il lager di Tambov... Camminare sui morti... è questa la sensazione che ho sempre provato durante i miei viaggi in Russia. Qui a Tambov è sempre tutto più accentuato.

Diario di viaggio, giorno 7

7 SETTEMBRE - Il lager di Tambov... In questo campo di 23 mila prigionieri, dal novembre 1942 al giugno 1943 rimasero solamente in 3400. Di settemila alpini della divisione Julia ne rimasero appena milleduecento. Il comando del campo era stato dato ai rumeni che bastonavano e mandavano al lavoro anche i malati. Anche nel ’44 il campo non era fornito di medicine adatte e anche il vitto era insufficiente. In questo campo, dopo la venuta degli alpini, la diarrea e il tifo petecchiale hanno infierito ed ogni giorno nel ’43 ne morivano a centinaia. Vi furono episodi di cannibalismo. Nel febbraio del ’44 esisteva un solo campo suddiviso in zone comunicanti. Era un campo di smistamento: in questa data vi erano duemila prigionieri e nel giugno-luglio ne sono rimasti duecento in totale perché furono smistati e inviati in altre località. Nell'agosto del ’44 vennero qui portati 2.018 italiani liberati dai russi a Minsk. Di questi ne morirono trecento di cui quaranta ogni mese nel periodo invernale per dissenteria, malattie polmonari, distrofia.















venerdì 6 settembre 2019

Operazione Barbarossa

Ogni volta che si parla di Russia e dell'Operazione Barbarossa, anche su questa pagina, molti approfittano dell'occasione per schierarsi da una o dall'altra parte, contro o a favore delle nostre truppe invasori, contro o a favore dei russi invasi. Io penso al contrario che, indipendentemente dal proprio pensiero, la storia debba sempre essere raccontata per quella che è: la narrazione storica deve sempre essere VERA anche quando non fa piacere e va contro i nostri ideali e pensieri. E questo va fatto per rispetto di tutte quelle persone che da una parte e dall'altra hanno sacrificato tutto per il loro paese e magari per un ideale, seppur sbagliato, ma nel quale credevano. Con questo non si vogliono assolvere le colpe dei singoli ma essere sempre e solo OBIETTIVI sui fatti. Spesso e personalmente ho assistito o partecipato a conferenze, incontri e convegni storici durante i quali l'interlocutore di turno ha "tirato per la giacca" la storia da una parte o dall'altra per convenienza o per promuovere o screditare una tesi. Trovo ciò inaccettabile. Ho al contrario apprezzato e ammirato il Dottor RICCARDO MAFFEI per la sua obiettività e capacità di esposizione, durante una delle presentazioni alle quali ho partecipato come protagonista, insieme a miei cari amici, del nostro trekking nell'inverno 2018. Per questo INVITO VIVAMENTE tutte le persone a leggere la sua presentazione integrale che qui riporto per sua gentile concessione.

Chi è Riccardo Maffei? Ricercatore indipendente. Già collaboratore della Domus Mazziana di Pisa e dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Lucca, è autore di numerosi saggi sulla storia contemporanea di Pescia e sulla storia del XX secolo.

Una campagna fatale - Russia: 1941-43, Dottor Riccardo Maffei. Premessa metodologica: Quale campagna di Russia? Riflessioni sul conflitto tedesco-sovietico tra immaginario collettivo e controversie storiografiche.

Il 22 giugno 1941 la Germania nazionalsocialista di Adolf Hitler attaccò l'Unione Sovietica di Jozif Stalin sulla base dei piani contenuti nella direttiva n. 21, meglio nota come Operazione Barbarossa, con l'obiettivo di annientare il bolscevismo e ristrutturare radicalmente con metodi brutali i territori conquistati fino al fiume Volga come previsto dal cosiddetto Generalplan Ost. Pochi giorni dopo l'aggressione l'Italia fascista di Benito Mussolini seguì l'alleato perché “non poteva essere assente da una guerra anticomunista”, come dichiarò il duce. La guerra, dopo gli iniziali clamorosi successi, prese un'altra piega. Il 25 luglio 1943 il fascismo crollò sotto il peso di un conflitto al quale non era in grado di far fronte. Il 30 aprile 1945 Hitler si suicidava mentre l'Armata Rossa combatteva tra le rovine di Berlino contro ciò che restava dell'esercito tedesco. La guerra sul fronte orientale si era ritorta contro gli aggressori trasformandosi in un enorme carnaio e aprendo le porte alla sconfitta dei regimi che l'avevano scatenata.

Con la fine della guerra la vittoria sovietica contro la Germania assunse un significato addirittura epico e leggendario poiché simboleggiava la superiorità del comunismo, l'indispensabile apporto del regime staliniano alla coalizione antifascista, sanzionava la criminale condotta della guerra da parte dei nazi-fascisti ma, soprattutto, il carattere provvidenziale delle politiche staliniane, che avevano reso l'Urss in grado di resistere ai colpi delle armate hitleriane senza crollare su se stessa. La condotta criminale della guerra da parte della Germania nazionalsocialista fu stigmatizzata e illustrata durante il processo di Norimberga.

Lontano dai campi di battaglia e dalle aule del tribunale di Norimberga, ma non dalle polemiche della guerra fredda, gli storici iniziarono a ricostruire, con i documenti alla mano (fino al 1991 principalmente sui documenti tedeschi), gli eventi proponendosi di riesaminare le cause e le origini della guerra tedesco-sovietica del 1941-45. Il loro lavoro iniziò a scontrarsi con le reticenze dei governi, con le memorie divise di vincitori e vinti, con le strumentalizzazioni dettate dal realismo politico (Realpolitik) nonché col mito, assai potente nel secondo dopoguerra, dell'Urss come nazione che aveva distrutto il nazismo e “liberato” gran parte dell'Europa centro-orientale.

Già al tempo del processo di Norimberga un selezionato gruppo di ufficiali anglo-americani, coadiuvati da francesi e sovietici, ebbe la possibilità di esaminare gli archivi tedeschi e di interrogare militari e civili, gerarchi e gregari tedeschi preparando, a tempo di record, il materiale che avrebbe sostanziato le accuse del tribunale militare internazionale. La pubblicazione degli atti processuali fornì alla comunità internazionale degli storici una prima documentazione sulla condotta della guerra e della diplomazia da parte dell'Asse. Lo stesso avvenne a Tokyo con il processo contro i leader politici e militari del Giappone imperiale. Anche in questo caso la documentazione raccolta fu pubblicata e resa disponibile al pubblico e agli storici.

Ovviamente, non tutto venne reso accessibile agli storici e per decenni il materiale catturato dagli alleati negli archivi ministeriali dell'Asse fu posto lontano da occhi indiscreti in attesa che le procedure burocratiche e il trascorrere del tempo rendessero tali carte consultabili e/o innocue. Già con le prime fasi della guerra fredda parte di questo materiale venne usato a fini propagandistici, come nel caso della pubblicazione – da parte del governo statunitense – dei documenti provenienti dagli archivi diplomatici tedeschi relativi alle relazioni tedesco-sovietiche tra il 1939 ed il 1941. Fu in tale occasione che venne resa nota l'esistenza del protocollo segreto stipulato tra Berlino e Mosca per la spartizione dell'Europa orientale alla vigilia dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Ovviamente Mosca negò l'esistenza del documento e pubblicò una contestazione formale dei documenti divulgati dagli Stati Uniti, accusati di falsificare la storia.

Nonostante la restituzione dei documenti catturati e microfilmati dagli alleati alle nazioni sconfitte e la pubblicazione dei documenti diplomatici tedeschi, a cura di una commissione storica internazionale, ciò che era avvenuto sul fronte orientale restò una materia incandescente per gli storici e vincolata a veti, censure e ricostruzioni di parte. Soltanto lentamente, man mano che i documenti venivano pubblicati o resi accessibili negli archivi, era possibile per gli storici precisare, delineare, ricostruire criticamente le dinamiche degli eventi e potersi così confrontare con la memorialistica e le ricostruzioni interessate circolanti allora.

Di tutti gli archivi esistenti gli unici ad essere rigorosamente chiusi, ad eccezione dei pochi storici autorizzati e vincolati a non citare indicazioni o riferimenti al materiale consultato oltre ad essere graditi al regime comunista, erano proprio quelli dell'Urss. Proprio nell'Unione Sovietica la vulgata stalinista rimase imperante fino al XX congresso del partito (1956). Secondo tale versione Stalin aveva stipulato un patto con il dittatore tedesco per assicurare la pace al proprio Paese, del tutto impreparato ad una guerra moderna e proteso nell'epico sforzo della costruzione del comunismo, e non per altre ragioni. Quando Hitler violò il patto aggredendo proditoriamente l'Urss, il dittatore sovietico chiamò il popolo alla Grande guerra patriottica (così i sovietici chiamavano la Seconda guerra mondiale) guidandolo, con la propria indiscussa abilità e infallibilità, alla vittoria finale sul fascismo tedesco. Contrastare tale vulgata era praticamente impossibile, anche perché farlo significava esporsi all'accusa di propaganda antisovietica con le conseguenti sanzioni penali. Inoltre la versione ufficiale sovietica, nella sua forma stalinista, ometteva o distorceva deliberatamente i fatti affinché potessero inserirsi in una ordinata versione ufficiale degli eventi storici. L'Urss non aveva firmato alcun protocollo segreto con Berlino nel 1939, gli ufficiali polacchi trucidati a Katyn nel 1940 erano state vittime degli aggressori tedeschi l'anno successivo e così via.

Soltanto con l'avvento di Mikhail Gorbacëv tali macroscopiche negazioni della verità storica furono abbandonate e gli archivi sovietici iniziarono ad aprirsi agli studiosi. Quando, in un passaggio centrale del celebre rapporto segreto, Nikita Chruščëv dichiarò non veritiera la versione staliniana in merito alle relazioni con la Germania nazista e, ancora più importante, alle prime settimane della guerra, nel giugno del 1941, apriva le porte, forse inconsapevolmente, alla prima rivoluzione storiografica nell'Urss ad opera di una giovane generazione di storici, molto spesso militari e reduci della Grande guerra patriottica, desiderosi di capire e illustrare le ragioni della catastrofica direzione delle prime fasi del conflitto sovietico-tedesco.

D'altra parte agli inizi degli anni Sessanta in Unione Sovietica si ebbe un risveglio storiografico che rappresentava in parte il riflesso della destalinizzazione ma, soprattutto, costituiva la presa di coscienza di una generazione di storici che avevano vissuto e combattuto direttamente la Grande guerra patriottica e volevano chiarire, prima di tutto alla propria coscienza, le dinamiche della disastrosa condotta della guerra nelle fasi iniziali, subito dopo l'aggressione tedesca nell'estate del 1941. Sicuramente il libro di Aleksandr Nekrič, 1941, 22 ijunja, nel 1965 rappresentò il punto più elevato dalla riflessione storiografica su questi aspetti rimettendo in discussione i dogmi della vulgata storiografica stalinista. Sfortunatamente per il suo autore, la pubblicazione del libro coincise con l'inizio della stagnazione brezneviana e la parziale riabilitazione della figura di Stalin, come salvatore della patria socialista. Ben presto il libro fu aspramente criticato e il suo autore sottoposto ad una continua persecuzione che lo spinse ad emigrare all'estero.

Sempre alla metà degli anni Sessanta alcuni storici tedeschi, sulla base della documentazione disponibile in Occidente, ponevano in dubbio le motivazioni di Stalin e dell'Urss in relazione al patto di non aggressione, sottolineando il ruolo svolto da esso nello scatenamento della Seconda guerra mondiale. Ancora più tragica fu la sorte dello storico militare Pavel Grigorenko, titolare di una cattedra presso l'Accademia militare Frunze, che oltre a criticare lo stalinismo di ritorno scrisse un volume sugli errori di Stalin durante il conflitto mondiale ottenendo in cambio dal regime l'internamento in un ospedale psichiatrico. I casi di Nekrič e Grigorenko costituirono il limite oggettivo del processo di destalinizzazione storiografico e della critica dell'operato di Stalin durante la Seconda guerra mondiale in Unione Sovietica.

Soltanto con l'inizio della perestrojka fu possibile riprendere il cammino così bruscamente interrotto dalle autorità. Nel mondo occidentale la ricchezza del materiale archivistico, purtroppo limitata unicamente alle fonti occidentali (gli archivi sovietici erano ben sigillati), e la pubblicazione dei documenti tedeschi, in lingua originale – i famosi Akten zur deutschen auswärtigen Politik – avevano prodotto una mole notevole di studi storici in grado di fornire un quadro complessivo della guerra sul fronte orientale e più in generale sui rapporti tra Mosca e Berlino a partire dalla fine della Prima guerra mondiale nelle principali lingue (inglese, francese e tedesco). Certo si trattava di una storia monca poiché la chiusura degli archivi sovietici e la pubblicazione assai limitata dei documenti sovietici – in una serie denominata Vnešnjaja politika SSSR – non consentivano di disporre di un quadro più articolato e in grado di coinvolgere tutti gli attori storici.

Tuttavia anche in queste condizioni si era creata una ampia divisione storiografica tra Occidente ed Oriente. Se gli storici occidentali avevano ricostruito (sia pur con fonti parziali, quelle tedesche e italiane) i rapporti tra Berlino, Roma e Mosca durante gli anni Venti e Trenta rivelando l'estrema cordialità di tali relazioni nonostante l'antagonismo ideologico esistente tra i regimi (capitalistico, fascista, nazionalsocialista e comunista), Mosca continuava a negare che tali rapporti avessero avuto tali caratteristiche badando bene a tenere chiusi i propri archivi agli storici occidentali.

Ancor più complicata era la storia delle relazioni tedesco-sovietiche tra la firma del Patto Molotov-Ribbentrop (dai due responsabili della politica estera) e l'aggressione del giugno 1941. Gli storici tedeschi e occidentali in genere disponevano di prove documentali inoppugnabili sull'alleanza informale tra Stalin e Hitler simboleggiata non solo dai protocolli segreti, ma soprattutto dalla continua opera di assistenza economica e, sebbene parzialmente, anche militare tra i due Paesi mentre Hitler conduceva la guerra contro le potenze occidentali. Su questi aspetti i documenti occidentali erano inequivocabili sebbene non fossero disponibili quelli sovietici. Restava però un ampio ventaglio di interpretazioni sul perché Stalin avesse scelto una siffatta strategia; su questo aspetto gli storici elaborarono risposte complesse e assai diversificate.

In Italia, per venire al nostro Paese, dopo una prima fase di diffusa memorialistica (non sempre storicamente accurata) e dei primi lavori storiografici sulla campagna di Russia degli italiani gli storici iniziarono a concentrarsi sul complesso rapporto esistente tra Roma e Mosca prima con gli ultimi governi liberali e poi sotto il fascismo. Scoprendo una realtà sempre taciuta e dimenticata. Per quanto riguarda la campagna di Russia si preferì dare la colpa al duce e al fascismo dimenticando le complicità dei vertici militari che contribuirono a precipitare i soldati nella catastrofe. Certo si devono fare le debite differenze perché ci furono storici molto attenti nel ricercare e documentare tali aspetti negletti. Tuttavia, così come in Germania, anche in Italia resistette a lungo la leggenda popolare secondo la quale i crimini erano stati compiuti unicamente dalle SS mentre la Wehrmacht e il Regio Esercito avessero combattuto una guerra onorevole. Nel nostro Paese inoltre la leggenda assai consolatoria ma del tutto imprecisa sul piano storico degli italiani brava gente impedì per anni qualunque analisi dei crimini di guerra e delle complicità poste in atto durante la campagna di Russia.

L'esplodere in Germania della cosiddetta Historikerstreit (controversia tra storici) consentì di far emergere a livello accademico e dell'opinione pubblica queste anomalie ricordando il ruolo svolto dalle truppe regolari tedesche nei crimini di guerra sul fronte orientale e a sottolineare come ad Est la guerra assunse forme di incredibile brutalità e sconosciuta ferocia. In particolare la tesi propugnata da Ernst Nolte sul nazismo come “reazione difensiva” ai crimini del comunismo sovietico con l'adozione di mezzi simili e cioè che in fondo Auschwitz era successivo al gulag venne aspramente criticata dal filosofo e sociologo Habermas, secondo il quale proprio il fatto che il nazismo avesse adottato metodi terroristici e azioni criminali dimenticando i secoli di civilizzazione di cui la Germania aveva beneficiato (a differenza della Russia ben più arretrata) costituiva non una scusante ma semmai un'aggravante del proprio comportamento. Ciononostante alcuni studiosi occidentali iniziarono a sostenere tesi sempre più audaci sulle intenzioni aggressive di Stalin arrivando perfino a postulare l'esistenza di un piano offensivo sovietico per la diffusione del comunismo fuori dai confini dell'Urss.

Il dibattito che si svolse nella seconda metà degli anni Ottanta aprì anche una grande stagione di studi sui crimini di guerra tedeschi nei successivi due decenni e che interessò anche i crimini compiuti nel nostro Paese, dopo la caduta del fascismo. La conclusione della Historikerstreit anticipò di poco il crollo del comunismo e la fine dell'Unione Sovietica dove l'apertura degli archivi rappresentò una grande opportunità per gli storici di tutto il mondo, ma soprattutto per quelli russi ormai privi di vincoli ideologici e censori al proprio lavoro scientifico. Proprio l'assenza di vincoli di qualunque tipo e l'apertura improvvisa degli archivi consentì ad una serie di storici russi di dar vita ad una controversia storiografica, alla quale furono costretti anche gli storici occidentali prendendo posizione in proposito.

Anticipato dalle dichiarazioni sensazionali ma prive di riscontri archivistici di Victor Suvorov [Vladimir Rezun] – un ex agente operativo dei servizi segreti militari sovietici riparato in Occidente – nel suo "Il rompighiaccio", il dibattito dilagò proprio attorno alle politiche di Stalin nel biennio 1939-1941 e in particolare sulla reale intenzione di Stalin di scatenare un'offensiva ad Ovest contro Hitler. Una mole di documenti, alcuni però dichiaratamente falsi o contraffatti, indussero alcuni storici russi a spiegare gli eventi, quegli stessi eventi che avevano indotto Nekrič a criticare l'operato di Stalin nel 1965, con una politica di crudele machiavellismo politico ma non coronata da successo perché Hitler avrebbe anticipato l'aggressione sovietica cogliendo così Stalin di sorpresa.

Soffermiamoci un momento sulla polemica scatenata da Suvorov in seguito alla pubblicazione del volume Ledokol (Il rompighiaccio) nel 1990. L'ex agente del servizio segreto militare sosteneva che Stalin stava preparando un'offensiva militare in Occidente al fine di espandere il comunismo in tutto il continente europeo utilizzando Hitler come una sorta di rompighiaccio per frantumare l'equilibrio europeo e distruggere le altre potenze capitalistiche. Questa in sintesi la controversa tesi che, però, non era suffragata dallo studio della documentazione d'archivio ma soltanto dall'esame della memorialistica e dalla pubblicistica. Uscito prima all'estero e poi tradotto in russo, al pari dei successivi volumi scritti sull'argomento da Suvorov, Ledokol ottenne un successo considerevole di pubblico; i lettori russi ormai abituati al disincanto e alla disillusione erano conquistati dalle tesi decisamente controcorrente che demolivano uno dei miti dello stalinismo ancora rimasti saldamente in piedi dopo il crollo del sistema comunista.

La reazione degli studiosi russi, compresi gli storici militari, fu estremamente forte: il suo autore fu accusato di aver stravolto la storia patriottica e il libro di non avere alcuna base documentaria. Uno studioso russo sintetizzò il suo operato con questa frase lapidaria: la grande bugia del piccolo uomo. Contemporaneamente la storiografia russa iniziò a pubblicare monografie e articoli sull'argomento mentre nuovi documenti erano via via declassificati. Gran parte dei loro lavori e gli studi più significativi non sono stati tradotti nelle lingue occidentali e ciò rende difficile per gli studiosi che non conoscono il russo seguire le vicende del dibattito storiografico russo, dilagato sui mass media della Federazione Russa e quindi estremante popolare entro i suoi confini. In estrema sintesi si può affermare che se attorno a Suvorov il dibattito è ancora vivo ed ha prodotto una spaccatura tra le diverse generazioni di storici russi che hanno accolto del primo le intuizioni e il quadro generale perfezionandolo con la ricerca archivistica ma all'interno di un approccio più cauto e quanti sono definiti antisuvorovisti, termine coniato da uno dei suoi più accaniti contestatori lo storico Isaev.

Non è mia intenzione ripercorrere un dibattito storiografico che è estremamente difficile seguire per chi ignora la lingua russa e di cui in Occidente sono arrivati, almeno al grande pubblico, scarsi echi restando tale controversia confinata fra gli specialisti. Tuttavia occorre citare alcuni testi considerati particolarmente significativi. Nevezhin affrontò il tema dell'idea della cosiddetta guerra offensiva mentre Bunich tratteggiò il piano operativo sovietico per la conduzione delle operazioni sul suolo tedesco con la sua monumentale opera in tre volumi, l'ultimo dei quali pubblicato postumo. L'accoglienza che questi studi ebbero all'estero fu assai modesta. La maggioranza degli storici occidentali, come era peraltro accaduto con le tesi di Suvorov, rimase scettica e mostrò un approccio ostile e critico rigettando difatti le interpretazioni eterodosse e addirittura revisionistiche. Alcuni storici occidentali, invece, trovarono nelle tesi della nuova storiografia russa le conferme intraviste nella documentazione già in loro possesso per poter rilanciare l'idea di una strategia aggressiva sovietica di cui la responsabilità ultima ricadeva su Stalin.

Già alla metà degli anni Novanta lo storico tedesco Joachim Hoffmann pubblicò un corposo volume basato su estese ricerche d'archivio e su innumerevoli fonti russe e tedesche dal titolo Stalins Vernichtungskrieg 1941-1945, la guerra di sterminio di Stalin. Nel controverso volume Hoffmann sostenne che Stalin stava preparando una guerra contro l'Occidente e che Hitler anticipò l'offensiva sovietica cogliendolo di sorpresa. Ciò però non significava affatto sostenere – egli precisò – dichiarare che la guerra tedesca all'Est fosse stata una guerra difensiva dal momento che il dittatore tedesco ignorava i segretissimi preparativi di Stalin. Da circa due decenni il dibattito storiografico attorno a questa controversia è più acceso che mai anche perché molti archivi russi, in precedenza aperti agli studiosi, sono stati chiusi per ordine delle autorità moscovite. Inoltre alcuni provvedimenti delle stesse autorità russe hanno pesantemente condizionato il dibattito imponendo vincoli e sollevando pesanti censure all'operato degli storici più critici. Comunque anche in Russia è sorta una vera e propria controversia storiografica di pari intensità e somigliante, sotto certi elementi, alla Historikerstreit che si era sviluppata in Germania due decenni prima. Difatti fra gli anni Novanta e l'inizio del nuovo secolo il dibattito storiografico russo iniziò a ruotare attorno al rapporto con Hitler, alla politica sovietica della vigilia e attorno ai piani offensivi di Stalin e dell'Armata Rossa. Naturalmente il dibattito era stimolato dalla disponibilità di nuovi materiali d'archivio, via via desecretati dalle autorità moscovite.

Nel 2000 l'ampia e ben documentata monografia di Mikhail Mel'tiukhov Upushchennyi shans Stalina (L'occasione perduta di Stalin) riesaminava in chiave critica la politica sovietica del periodo 1939-41 ma soprattutto poneva in luce come il dittatore bolscevico avesse iniziato la preparazione di massicce concentrazioni di truppe nei distretti militari orientali e mobilitato le riserve secondo piani di guerra che prevedevano l'assunzione dell'iniziativa strategica per portare la guerra sul suolo tedesco. Mel'tiukhov e più tardi Mark Solonin sono gli autori che hanno animato il dibattito storiografico russo su questi temi denunciando peraltro l'esistenza di documenti ancora inaccessibili ai ricercatori che potrebbero chiarire definitivamente, a loro giudizio, l'intera questione dei piani operativi e la loro più profonda natura. In Occidente le loro opere hanno avuto una tiepida accoglienza e nella sua stragrande maggioranza la storiografia continua a sostenere la tradizione impostazione negando che l'Urss avrebbe potuto sferrare un'offensiva nell'estate del 1941 accusando i giovani storici russi, considerati revisionisti, di ignorare gli aspetti tecnici della pianificazione militare, di non comprendere il quadro politico complessivo e di sovrastimare le reali possibilità di Stalin e dell'Armata Rossa. A settant'anni dalla fine della Seconda guerra mondiale il dibattito storiografico, come era logico attendersi, non si è ancora concluso e molti documenti restano ancora fuori consultazione.

Prima di venire al tema di questo nostro incontro, e per concludere questa premessa metodologica, occorre spendere alcune parole conclusive. In primo luogo, a differenza di quanto è avvenuto in Germania, l'apertura degli archivi russi risulta molto più recente. Sicuramente la documentazione tedesca è conosciuta in dettaglio molto più di quella russa. Almeno tre generazioni di storici hanno potuto lavorare in piena libertà sulle fonti tedesche ma lo stesso non si può dire dei loro colleghi russi. Soltanto con la caduta dell'Urss gli archivi sono stati aperti agli studiosi senza i controlli e la censura (compresa l'autocensura) tipici dell'epoca sovietica. In questo senso il lavoro negli archivi ex sovietici è ancora da svolgere prima che si possa disporre di una conoscenza paritetica delle fonti (russe e tedesche).

In secondo luogo, risulta indispensabile rifuggire dalle speculazioni politiche e dalle strumentalizzazioni. Contrariamente a quanto è possibile rinvenire su internet, soprattutto nei siti neonazisti e dell'estrema destra in genere, ad oggi non è emersa dagli archivi tedeschi una sola prova documentale che permetta di argomentare in merito alla conoscenza da parte di Hitler dei preparativi militari sovietici giustificando così la tesi di una guerra preventiva da parte dei nazisti. D'altro canto, e qui il riferimento è ai siti neostalinisti, è assolutamente priva di consistenza storica l'idea che Stalin non abbia avuto un ruolo determinante nello scatenamento della Seconda guerra mondiale. Spetta agli storici ricostruire in quale misura il Vozd [il Capo, in russo] abbia contribuito allo smantellamento dell'ordine europeo precipitando così i popoli del vecchio Continente nella guerra. Queste tesi riscuotono un grande seguito fra gli storici estoni, lituani, lettoni, ucraini e polacchi ma anche in Romania.

In terzo luogo, soltanto studi ulteriori potranno darci una risposta ancora più precisa sulle intenzioni di Stalin nell'estate del 1941 e sulla natura dei piani operativi dell'Armata Rossa. A mio avviso gli studi di Solonin e Mel'tiukhov hanno appena raschiato la superfice e credo pure che esista ancora molta documentazione da desecretare sulle operazioni militari e sulla pianificazione. In quarto luogo, sarebbe auspicabile un incremento delle traduzioni dal russo nelle lingue occidentali, ma soprattutto in quella italiana, la vera Cenerentola in questo settore. Seguire l'evoluzione della storiografia russa dal 1991 rappresenta un importante contributo alla conoscenza della vita intellettuale nella Federazione Russa e, di conseguenza, dei suoi sviluppi politici.

Infine, la guerra tedesco-germanica o Grande guerra patriottica, se si preferisce la dizione sovietica e poi russa, fu un conflitto di una brutalità inimmaginabile; una guerra che il popolo russo pagò in prima persona e che non deve indurre a speculazioni di sorta proprio perché esse sarebbero incise nella carne di ogni singolo uomo, donna e bambino periti nel conflitto sul fronte orientale. Compito dello storico è appunto quello di far rivivere quelle esistenze stroncate e aiutare il pubblico a comprendere le radici di una tale mostruosa brutalità. Conosciamo con ampiezza di dettagli le ragioni che indussero i tedeschi a condurre una guerra di sterminio e conquista, in netto contrasto con le possibilità di una crociata antibolscevica atta a stimolare la ribellione i popoli contro Mosca. Assai meno, e con significative zone d'ombra, sono conosciute le politiche del Cremlino per gestire una lotta per la vita che mise a repentaglio la stessa esistenza dell'Urss. Le pagine, umane e meravigliose, di Vassilij Grossman, autore di Vita e destino e Tutto scorre, hanno reso immortale il significato, con tutti i suoi orrori, di quella lotta senza quartiere tra tedeschi e sovietici.

Questioni aperte. Qui di seguito proverò ad enucleare gli aspetti che ancora meritano di essere adeguatamente investigati dagli studiosi. Certamente, come precisato nella premessa metodologica, la ricostruzione delle origini del conflitto tedesco-sovietico risulta ancora del tutto insoddisfacente, soprattutto sul lato sovietico. La controversia relativa ai piani bellici di Stalin (l'esistenza o meno di un piano di guerra preventiva e aggressiva) rappresenta soltanto un aspetto del problema. Se è vero che la campagna orientale dei tedeschi venne pensata come guerra di sterminio razziale risulta indibitabile che pure l'estrema brutalità dell'Armata Rossa non può essere spiegata unicamente come reazione alle violenze tedesche. La strategia repressiva sovietica costituiva uno dei tratti distintivi del regime bolscevico e delle modalità operative dell'Armata Rossa fin dalle sue origini. Si pensi alla decosacchizzazione del 1919, alla brutalità delle requisizioni durante la guerra civile, alla dekulakizzazione e alla deportazione dei popoli considerati sospetti (polacchi e baltici nel 1939-40; tedeschi del Volga 1941; caucasici nel 1944). Resta oggi, se valutati tali eventi in un'ottica italiana, da spiegare ed illustrare perché Mussolini volle coinvolgere le truppe italiane in un conflitto che sarebbe stato estremamente brutale.

Il secondo punto costituisce, sempre a mio avviso, il vero aspetto fragile di tutte le ricostruzioni dell'operato delle unità italiane sul fronte russo. L'immane tragedia della ritirata e le sofferenze delle truppe italiane hanno monopolizzato eccessivamente sia la memorialistica che la storiografia. Resta invece da domandarsi in quale misura la tragedia italiana finisce per inserirsi nell'immane tragedia collettiva dei popoli compresi fra il Volga e i confini sovietici del giugno 1941. La spirale di violenza che l'aggressione nazista scatenò (conflitti etnici e nazionalisti, pogrom antiebraici locali, primi passi della soluzione finale ad opera dei tedeschi e dei collaborazionisti locali, violenze sovietiche durante la ritirata e massacri dei prigionieri della Nkvd solo per citare gli aspetti più evidenti) che sfociarono nella guerra partigiana dietro le linee del fronte. Molti di questi elementi erano semplicemente latenti e perciò sarebbe utile ricostruire il contributo italiano in tali fenomeni. Insomma in quale misura gli italiani parteciparono alle violenze sul fronte orientale? Furono carnefici? Furono vittime? Furono occupanti benevoli? Ma soprattutto in quale misura gli italiani furono coinvolti nelle violenze sul fronte russo?

In terzo luogo occorre ricostruire le complicità dei vertici militari nel disastro di Russia. Serve a poco, a mio avviso, ripetere le resistenze di Messe alla volontà di Mussolini. Nessuno presentò le dimissioni, nessuno protestò per una condotta che de facto mise in pericolo la sicurezza e il benessere dei propri soldati. Le esigenze della carriera furono anteposte ai doveri e alle responsabilità del grado. Analogamente ministri e gerarchi ebbero comportamenti irresponsabili preferendo affidare ai diari personali i loro dubbi e le loro perplessità. Nessuno ebbe il coraggio di affrontare Mussolini per indurlo a desistere e neppure nessuno osò criticarlo dopo la decisione.

Infine, ma solo per indicare gli elementi più importanti ma altri aspetti si potrebbero sottolineare, connaturare in maniera più approfondita ed analiticamente l'occupazione italiana nei distretti in cui i soldati ebbero responsabilità dirette. Studiare il rapporto instaurato con la popolazione e con i comandi tedeschi per caratterizzare se e come gli italiani siano stati occupanti diversi rispetto ai tedeschi. Se io cito i documenti dell'Ufficio Est, fondato per volontà di Mussolini nel novembre 1942, credo che siano pochi gli studiosi a conoscenza delle finalità di tale struttura burocratica creata nell'ambito del ministero della Cultura Popolare. Si tratta di un ente deputato allo studio degli sviluppi della situazione nell'Urss, della propaganda sovietica ed alleata e delle politiche tedesche d'occupazione. Un ente che sopravvisse perfino al crollo del regime fascista continuando ad operare durante il periodo badogliano e della Repubblica sociale italiana (Rsi). D'altronde il suo responsabile, Tomaso Napolitano, aveva partecipato alla campagna del Csir come ufficiale volontario e redasse un rapporto sulle opinioni relative all'Urss e al bolscevismo maturate fra i reduci sottolineando l'eventualità di organizzare una campagna di propaganda attiva fra i rimpatriati.

Introduzione. La partecipazione militare dell'Italia fascista alla campagna di Russia, scatenata dall'aggressione tedesca del giugno 1941 (operazione Barbarossa), costituì il terzo intervento armato italiano contro le popolazioni della Russia nell'arco di due secoli. Nell'estate del 1812 i coscritti provenienti dalla penisola furono coinvolti nelle operazioni della Grande Armée napoleonica e finirono per condividerne la tragica sorte. Molti storici, sia sovietici prima e poi russi ma anche italiani, hanno sottolineato le analogie fra le due ritirate, quella del 1812 e quella dell'inverno del 1942-43. Dopo la rivoluzione russa del 1917 missioni militari e piccoli contingenti italiani furono coinvolti nelle tragiche vicende della guerra civile fra bianchi e rossi sebbene tale esperienza non poté in nessun modo assimilarsi ad una vera e propria campagna militare. Al pari degli altri contingenti alleati, anche le truppe italiane si ritirarono senza essere impegnati eccessivamente contro i bolscevichi riportando scarse perdite. Il coinvolgimento italiano nella grande guerra orientale scatenata da Hitler fu diverso e le conseguenze sulle truppe e sul regime furono disastrose.

Il fallimento dei rapporti bilaterali. Con la scelta di unire il destino dell'Italia fascista a quello delle truppe tedesche sul fronte orientale, aperto durante le prime ore del mattino del 22 giugno 1941 con l'invasione dell'Urss, Mussolini chiudeva il ciclo di eventi da lui stesso iniziato nel 1924 decidendo di procedere al riconoscimento diplomatico del regime bolscevico. Indipendentemente dalle divergenze ideologiche esistenti fra Roma e Mosca e nonostante la circostanza che l'antibolscevismo aveva rappresentato sia una caratteristica dell'ideologia fascista che uno dei motivi che aveva aiutato l'ascesa del fascismo nell'Italia del primo dopoguerra, Mussolini riuscì a sviluppare relazioni bilaterali soddisfacenti. Nel 1933 addirittura questo rapporto con Mosca era sfociato in un patto di amicizia, neutralità e non aggressione. Sebbene i rapporti italo-sovietici avessero conosciuto le prime difficoltà nella seconda metà degli anni Trenta, come osservato dallo storico statunitense Burgwyn «Mussolini ricollegò l'ideologia alla realpolitik, ma non fino al punto di non ritorno». Le relazioni con Mosca avevano perso gran parte della loro attrattiva in concomitanza con l'intervento della guerra civile spagnola e i primi passi mossi da Ciano e Mussolini, sia pur in maniera ancora esitante, verso la Germania nazionalsocialista. Nonostante l'inasprimento dei rapporti diplomatici e le campagne propagandistiche a carattere anticomunista e antisovietico, il regime non aveva né l'intenzione di giungere ad un'aperta rottura né era pronto per poterla realizzare. Questi aspetti delle relazioni bilaterali erano noti ai diplomatici sovietici in servizio nella penisola che, almeno fino al 1937-38, cercarono di corteggiare Mussolini sottolineando l'inconciliabilità degli interessi italiani con quelli tedeschi. Tuttavia il dinamismo della politica internazionale impedì il ristabilimento di «quel clima di amicizia e reciproca considerazione che si era creato negli anni Venti e Trenta».

Nel 1939 due eventi ebbero un'importanza straordinaria per la determinazione dei successivi rapporti con Mosca. Il primo fu rappresentato dal coronamento dell'alleanza con Berlino mediante la firma del cosiddetto Patto d'acciaio. In tale occasione la diplomazia italiana e i vertici del regime, Mussolini e Ciano in primo luogo, mostrarono un'inadeguatezza assoluta. Non vennero stabilite clausole precise in merito ai futuri sviluppi della politica estera e militare ma soprattutto Mussolini e Ciano non ebbero mai una visione chiara del dinamismo tedesco e dei fini ultimi della politica estera del Terzo Reich: ossia lo scatenamento della guerra per realizzare il proprio ampio programma revisionista attraverso la distruzione dell'ordine sorto a Versailles. Hitler non condivise i propri piani con Mussolini non rispettando le clausole del patto bilaterale. Mussolini e Ciano non reagirono alla sufficienza con cui erano trattati dall'alleato arrogante per congelare, o addirittura denunciare, il patto con Berlino e recuperare così la propria autonomia in politica estera.

L'altro evento, ovvero la conclusione del patto di non aggressione fra Berlino e Mosca dell'agosto 1939, rappresentò un'occasione perduta per il regime, come sottolineò già Renzo De Felice nel 1981: «Il patto tedesco-sovietico sarebbe potuto essere un motivo per lo sganciamento». Al contrario la partenza di Ribbentrop per Mosca gettò Mussolini e Ciano nell'incertezza e non permise loro di cogliere l'occasione; d'altra parte Hitler si guardò bene dall'informare l'alleato in merito alle clausole degli accordi bilaterli tedesco-sovietici conclusi con Stalin, né tantomeno dell'esistenza del protocollo segreto concordato a Mosca. La conclusione del patto con l'acerrimo nemico del nazifascismo, come sottolineava la propaganda, rappresentò per l'Italia fascista un motivo di crescente imbarazzo al pari del fallimento delle iniziative diplomatiche tentate da Mussolini per scongiurare lo scoppio delle ostilità e destinate, nella visione irrealistica del duce, a culminare in una conferenza internazionale sul modello di quella di Monaco. Inoltre, dietro richiesta esplicita dei tedeschi, l'Italia fu costretta a diminuire i toni della propaganda antibolscevica sui mass media e perfino a ridurre le attività del Centro di studi anticomunisti e di Radio Mosca, un articolato programma di black propaganda rivolta contro il Cremlino.

La scelta della non belligeranza costrinse il regime a guardare con crescente gelosia e preoccupazione non soltanto i successi militari dell'alleato nazista ma anche il rafforzamento delle relazioni amicali, al limite di un'alleanza informale, fra Berlino e Mosca. In altre parole Mussolini iniziò a temere che Hitler avesse trovato un partner assai più interessante dell'Italia fascista. D'altronde Mosca aveva occupato metà della Polonia e firmato un trattato che sanciva il nuovo ordine nell'Europa orientale oltre a rifornire la Germania di materie prime indispensabili alla prosecuzione del conflitto. Al contrario l'Italia aveva redatto una lista di forniture di materie prime e armamenti, una lista che avrebbe stroncato un toro come si disse, che Berlino avrebbe dovuto consegnare all'alleato per consentirgli di entrare in guerra al suo fianco. In questo quadro a dir poco umiliante, Mussolini e Ciano vararono una nuova strategia che consisteva da un lato ad osservare attentamente gli sviluppi in atto nell'Urss cercando, dietro insistenza di Berlino, di recuperare un rapporto con Mosca e dall'altro ricondurre – con le buone – Hitler al suo primigeneo antibolscevismo. Così si spiegano anche le posizioni dell'Italia nei confronti dell'aggressione sovietica contro la Finlandia, la ripresa della propaganda antisovietica e perfino l'aiuto prestato da Ciano alla defezione dell'incaricato d'affari sovietico a Roma Lev Helfand, che nell'estate del 1940 fuggì negli Stati Uniti.

La scelta. In un certo senso Mussolini vide nel deterioramento dei rapporti tedesco-sovietici prima e nell'aggressione poi la possibilità di rovesciare il rapporto con Hitler allontanando definitivamente lo spettro di un nuovo asse Berlino-Mosca. In sintesi, una volta convertito il Führer all'antibolscevismo era indispensabile essere al suo fianco, anche per ristabilire il buon nome del Paese dopo i rovesci militari subiti in Grecia. Inoltre agli occhi del duce, che nei mesi precedenti l'aggressione tedesca contro l'Urss era stato informato del massiccio concentramento di truppe e mezzi lungo il confine orientale del Terzo Reich, sembrava possibile sfruttare il trionfo militare tedesco per realizzare quegli obiettivi strategici e militari che l'Italia fascista non poteva raggiungere con le sue sole forze. Come ha scritto recentemente Maria Teresa Giusti la campagna orientale del duce avrebbe consentito di «servirsi della Wehrmacht per raggiungere i suoi obiettivi». Era un azzardo pericoloso conoscendo l'inadeguatezza militare delle forze armate italiane e del Paese più in generale per una guerra mondiale.

D'altra parte il duce era perfettamente consapevole che nella guerra contro il bolscevismo l'Italia non poteva rinunciare al suo ruolo di potenza antibolscevica. In tal senso le citazioni riportate in prima pagina illustrano in maniera efficace il pensiero mussoliniano. Ma accanto alle ragioni dettate dall'ideologia e dal prestigio vi erano motivazioni assai meno nobili: le truppe italiane dovevano essere sul campo per spartirsi il bottino con il vero e probabile vincitore, ossia l'esercito tedesco. Tornava pesantemente ad affaciarsi nella mente del duce l'idea dei morti che avrebbero pesato sul tavolo della pace; era la stessa illusione che aveva inciso sull'ingresso in guerra nel giugno del 1940; entrare in campo in una guerra ormai prossima alla conclusione. Infine vi sono le motivazioni di natura economica, mercanteggiate con l'alleato tedesco, soprattutto quelle legate a problema energetico nazionale (i pozzi petroliferi e le riserve di Majkop) su cui hanno insistito soprattutto Burgwyn e più recentemente la Giusti.

Se l'azzardo mussoliniano appare evidente agli occhi dello storico di oggi, proviamo però ad immaginare cosa sarebbe accaduto se Hitler, nel novembre del 1940, avesse accolto parzialmente o in toto le richieste sovietiche relative agli stretti turchi e ai Balcani. La vocazione egemonica fascista nella penisola balcanica e nel Mediterraneo ne avrebbe sicuramente risentito. Non è un caso che Mosca provò, nelle trattative diplomatiche con Roma, a regolare i contrastanti interessi proprio in queste aree. L'espansionismo sovietico apparve a Mussolini e alla diplomazia italiana una pericolosa minaccia, come la conclusione del patto di amicizia con Belgrado rese palese nella primavera del 1941. In conclusione l'azzardo mussoliniano si fondava sulla speranza nella Wehrmacht che avrebbe risolto alla radice il problema rappresentato dalla minaccia sovietica. Scomparsa l'Urss e spartito il bottino Roma avrebbe potuto consolidare, d'intesa con i tedeschi, la propria influenza nei Balcani e ne Mediterraneo a scapito della Gran Bretagna.

Un disastro militare. Non appena presa la decisione di schierarsi al fianco di Hitler, sebbene quest'ultimo non desiderasse affatto l'aiuto del camerata fascista, e pur non conoscendo i dettagli dei piani operativi tedeschi già alla fine di maggio Mussolini ordinò al comando supremo di predisporre tre divisioni da impiegare contro Mosca. Imponendosi su Hitler, che avrebbe preferito un'intensificazione delle operazioni italiane in Africa settentrionale, Mussolini si assicurò la partecipazione delle truppe italiane ad Oriente e la decisione fu avallata da un brevissimo Consiglio dei ministri del 5 luglio. Cinque giorni dopo le tre divisioni (Pasubio, Torino e Celere Principe Amedeo Duca d'Aosta) inquadrate, con altre unità minori e ausiliarie per un totale di crca 62.000 uomini, nel Corpo di spedizione in Russia (Csir) lasciarono la frontiera dirette ad Oriente. Il successivo 5 agosto le truppe raggiunsero il fronte «prendendo le posizioni loro assegnate dai superiori tedeschi». Nonostante le difficoltà logistiche e le diverse concezioni strategiche e tattiche, il Csir diede buona prova sul campo e si distinse in alcuni combattimenti avanzando verso il Dnieper prima ed il Don poi.

Nel corso dell'incontro italo-tedeschi di Rastenburg (25-29 agosto) Mussolini non solo chiese che al Csir fossero affidate responsabilità più ampie ma addirittura dichiarò di poter inviare in Russia altre divisioni. Il duce ignorò le raccomandazioni del generale Messe, comandante del Csir, che sconsigliò il rafforzamento dello schieramento italiano in ragione delle difficoltà logistiche, da lui considerate insuperabili. Ancora una volta, dopo aver osservato gli sviluppi della battaglia di Mosca e la successiva controffensiva invernale sovietica, Mussolini si convinse che il conflitto non sarebbe stato così breve come inizialmente si era considerato ma soprattutto sperato. Stavolta trovò in Hitler un dittatore molto più comprensibile e disponibile ad accettare l'invio di uomini da parte degli alleati, soprattutto per colmare i vuoti causate dalle perdite subite e fronteggiare le masse umane sovietiche. Come cinicamente Mussolini precisò a Messe, era l'occasione per far pesare ancora di più la presenza dell'Italia fascista sul fronte orientale. Annunciato il 3 dicembre un vasto piano di ristrutturazione delle forze armate destinate alla Russia, nel 1942 venne costituita l'Armata italiana in Russia (Armir) costituita da tre corpi d'armata e una decina di divisioni (Sforzesca, Ravenna, Cosseria, Pasubio, Torino, Celere Principe Amedeo Duca d'Aosta, Tridentina, Julia, Cuneense e Vicenza) per un totale di 230.000 uomini. Come abbiamo visto, il Csir confluì nella nuova armata costituendone il XXXV corpo d'armata. Il nuovo esercito mussoliniano si schierò lungo il corso del fiume Don.

Tra il 20 e il 25 agosto i sovietici attaccarono lo schieramento italiano travolgendo la divisione Sforzesca e minacciando addirittura di accerchiare l'intera ala sinistra dell'Armir. Nonostante le difficoltà e gli scontri con l'alto comando tedesco l'Armir si schierò lungo il Don presidiando una linea difensiva estesa per quasi trecento chilometri. Il 16 dicembre 1943 contro queste divisioni si scatenò l'operazione Malyj Saturn (Piccolo Saturno), un'offensiva di massa lanciata dal comando sovietico. Nonostante la resistenza degli italiani, a partire dal 19 dicembre venne ordinata la ritirata generale che anticipò il disastro che è universalmente conosciuto. Scarsamente colpito dal disastro al quale aveva condannato i suoi soldati, Mussolini tornò a postulare l'invio di nuove unità in Russia come se non fosse accaduto nulla. Il 9 marzo 1943 Mussolini così scriveva a Hitler: «l'Italia non può essere assente dal fronte russo e perciò un secondo corpo d'armata italiano verrà inviato in Russia...». Infine, rivelando un cinismo senza fine, Mussolini chiedeva che alle truppe italiane fossero affidate compiti operativi e non servizi di retroguardia o presidio. Parallelamente cercò di convincere, ma con scarso successo, Hitler a sondare la possibilità di una pace separata o almeno di un armistizio con Stalin. Fortunatamente per gli italiani il Führer stavolta rifiutò l'offerta. Pochi mesi dopo Mussolini veniva deposto e il regime crollava.

Diario di viaggio, giorno 6

6 SETTEMBRE - La stazione di Kalach dalla quale partivano i treni verso i campi di prigionia. Dopo la cattura e le marce del "davai", iniziava il supplizio del viaggio nei carri merci verso i lager; viaggio dove altri morti si sommavano alle centinaia delle giornate precedenti.





Diario di viaggio, giorno 6

6 SETTEMBRE - Il lager di Krinovaja, le lapidi presso il cimitero civile dove oggi riposano alcuni dei prigionieri italiani ed ungheresi morti nel terribile lager.

Guido Maurilio Turla - Cappellano del Battaglione Saluzzo: "Una sera degli ultimi di febbraio (1943), un alpino della Valcamonica viene a scongiurarmi di seguirlo nell'alloggiamento soldati. "Venga subito, padre; vogliono mangiare mio cugino. Compagni, pazzi e inferociti dalla fame, attentano alla sua vita". Lungo il percorso si notano evidenti tracce di antropofagia: scheletri decapitati, braccia e gambe spolpate, ventri squartati, brandelli di membra abbandonati tra detriti di ogni genere. L'alpino mi racconta di scene ributtanti che avvengono nottetempo. Suo cugino, uscito dal campo a lavorare, è stato colpito a fucilate da una guardia russa, nell'atto di lasciare la fila per raccogliere patate gelate ai margini della strada. Ne ha riportato una gamba stroncata ed è in pericolo di vita. Al mio arrivo nell'alloggiamento, quattro forsennati tentavano di forzare la porta di una stalla con un legno appuntito, usato come leva. Il sangue di cui il ferito ha segnato il percorso, li ha richiamati alla porta, dietro la quale altri invasati difendono come un tesoro la sorgente di quel sangue. La mia presenza convince i disgraziati a desistere dalla mostruosità; riesco a far loro comprendere che quello che stanno facendo è un delitto orribile, che macchia la loro coscienza di cristiani e di italiani. Tornano a poco a poco, vergognosi, in se stessi. Ora non pensano più a bere il sangue del moribondo: pregano con disperata invocazione. Il ferito è in agonia, assistito da qualche amico e dal cugino. Gli uomini che occupano quella baracca sono complessivamente una ventina. Il moribondo ha coscienza di quanto avviene attorno; mi prega di salvarlo dalla ferocia dei cannibali. Lo tranquillizzo e accolgo la sua confessione; con lui assolvo tutti quelli che hanno le ore contate.

In un'altra occasione... Un alpino aveva con sé un fratello; stavano sempre insieme, si parlavano continuamente, come se avessero tante cose da dirsi. Ciascuno aveva giurato all'altro di difendere il corpo contro gli assalti dei bevitori di sangue e dei mangiatori di visceri. Il servizio di sorveglianza, istituito (dagli alpini) per evitare tali eccessi, non arrivava dappertutto; ogni mattina si trovava qualche cadavere mutilato. Uno dei due fratelli si ammala, i compagni cominciano ad avvicinarsi al degente, ne fiutano la fine. Egli muore infatti dopo una decina di ore. E' già notte, nessuno sarebbe venuto a vedere quello che succedeva là dentro. Il fratello superstite rimane desto, con le spalle al muro, tenendo nell'arco delle gambe divaricate e con i piedi ben puntati contro il suolo, il corpo rattrappito del morto. Lottando contro il sonno tiene d'occhio i compagni che intorno a lui fanno finta di dormire. In realtà alcuni fra essi aspettano il momento buono per impadronirsi del cadavere e cuocerne i visceri sul coperchio della gavetta. Verso l'alba vanno in due a parlamentare con fratello. Gli dicono che non è il caso che egli continui in quello sforzo, che bisogna togliere il morto di mezzo, si sarebbero incaricati loro due della sepoltura. Gli parlano dolcemente, con inconsueta bontà. L'alpino stanco di quella notte, di quel dolore, di quella mostruosa paura, cede alle insistenze, consegna il cadavere di suo fratello e ridendo si lascia cadere a terra, è impazzito".



Diario di viaggio, giorno 6

6 SETTEMBRE - Il lager di Krinovaja e le stalle dei cavalli che all'epoca furono utilizzate per rinchiudere decine e decine di prigionieri nello stesso spazio angusto e totalmente esposti ai meno 40 gradi del terribile inverno russo.

Diario di viaggio, giorno 6

6 SETTEMBRE - Il lager di Krinovaja... "Eravamo a Krinovaja. C’erano prigionieri di varie nazionalità. La fame era tanta. Una fame talmente insopportabile che spinse alcuni a gesti estremi, inimmaginabili. C’è stato chi ha bevuto il sangue del compagno appena morto. Un nostro colonnello una notte mi diede un bastone nodoso e il compito di impedire che alcuni, in preda a fame delirante, togliessero da sotto la neve i corpi di prigionieri morti per cibarsi del fegato ed altre parti. In punti nascosti accendevano piccoli fuochi per quella terribile cucina. Un furiere che conoscevo bene, mesi dopo, mi confidò che anche lui non aveva resistito alla fame".











Le fosse di Uciostoje

Come forse molti di voi hanno visto, sono state pubblicate delle fotografie delle fosse in oggetto; ora tale post è stato rimosso. Ho preso questa decisione per vari motivi, consapevole che, seppur mosso esclusivamente da buoni propositi di divulgazione, queste situazioni vanno trattate in modo opportuno e in maniera più delicata.

Pertanto ritengo corretto scusarmi con i parenti di quei nostri soldati che hanno visto immagini che li possono avere turbati; non era mia intenzione causarvi ulteriori dolori, ma solo denunciare questa situazione. Il mio obiettivo è e sarà sempre quello di poter aiutare le autorità preposte a riportarli a casa. Ma ritengo corretto anche scusarmi con tutte le persone che in Russia ci hanno aiutato e guidato in queste località; se non ci avessero offerto il loro contributo tutto questo non sarebbe possibile documentarlo. Per chi non conosce la situazione posso anche aggiungere che sono i russi stessi, i primi a chiedere una degna sepoltura per questi resti.

Nel mio piccolo e per quanto potrò fare, cercherò di sensibilizzare in Italia chi di competenza per provvedere opportunamente.

Diario di viaggio, giorno 5

5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: in questa località si verificò uno degli episodi più famosi della battaglia: alle ore 7.00 del giorno 22 dicembre il flammiere Mario Iacovitti, preso uno dei cavalli presenti, si lanciò contro le linee sovietiche sventolando un tricolore, galvanizzando così alcuni reparti italiani che avrebbero poi sferrato un improvviso attacco contro alcuni reparti sovietici; catturato, rientrò in Italia alla fine della guerra e gli fu conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare; ho avuto l’onore e il piacere di scoprire la sua tomba al Cimitero del Verano di Roma, dove Mario oggi riposa.



Diario di viaggio, giorno 5

5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: il pendio dove probabilmente si verificò questo episodio "... narra, sulla base di testimonianze dirette concordanti tranne per alcuni particolari, che alla ore 07.00 del 22 dicembre si sarebbe svolto l'episodio di valore del soldato italiano a cavallo che sventolando una bandiera si sarebbe lanciato da solo contro le linee sovietiche galvanizzando alcuni gruppi di combattenti che avrebbero sferrato un improvviso attacco respingendo alcuni reparti nemici e guadagnando terreno. Il coraggioso cavaliere - che dopo cinque cariche fu poi catturato ma sopravvisse alla prigionia rientrando in Italia nell'autunno del 1945 - è stato in seguito identificato nel flammiere Mario Iacovitti del 1° btg. chimico d'armata, cui fu conferita la Medaglia d'Oro al Valor Militare. Il primo a seguire Iacovitti nella carica fu il carabiniere Giuseppe Plado Mosca, appartenente al quartier generale della divisione "Torino", il quale rimase ucciso dal fuoco russo e alla cui memoria fu pure concessa la Medaglia d'Oro al Valor Militare".



Diario di viaggio, giorno 5

5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: il monumento eretto per ricordare il commissario politico sovietico Emjlian Lisichkin. All'epoca dei fatti cercò di trattare la resa delle truppe italiane ma venne ucciso da dei tedeschi o da dei nostri soldati.

Diario di viaggio, giorno 5

5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: quella che fu probabilmente Arbusowka alta all'epoca dei fatti.



Diario di viaggio, giorno 5

5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: dal libro “L’aurora a occidente” di Mario Bellini si evinco particolari geografici che ci consentono di capire meglio cosa davvero si verificò ad Arbusovka: “Risalii le file stanche e disarticolate della colonna. I bagliori degli enormi falò che bruciavano nell'abitato di Arbusow, nel nero metallico della notte, coloravano di rosa e di arancione la neve compatta di un vasto pianoro, nel quale come un estuario, si immetteva la strada che stavamo percorrendo. Bruciavano le isbe di un agglomerato di case, mentre era in corso uno scontro fra reparti tedeschi che avevano preso posizione sulla sinistra e forze russe già appostate sulla destra. Dalle traiettorie delle traccianti e dalle parabole dei bengala che partivano dalle contrapposte posizioni riuscii a capire che ci trovavamo in una valletta stesa fra due linee di colline”.

“Mentre il fuoco incrociato delle mitragliatrici continuava, piovvero tra le isbe i proiettili dei mortai. Il fragore delle esplosioni si accompagnava al bagliore accecante delle vampe seguito dalle nuvole di fumo acre color antracite. Cominciò la grande mattanza che andò avanti per due giorni. Ogni volta quelle esplosioni facevano volare come stracci i corpi dei colpiti, uccidendoli o martirizzandoli”. “I feriti, con le membra spezzate e mutilate, venivano trascinati via e affidati ai medici che, senza attrezzatura e con scarsissimi materiali, iniziarono, su questa banchina glaciale, un prodigioso impegno che sarebbe andato avanti fino alla notte del 24 dicembre e che alcuni di loro avrebbero proseguito in prigionia, restando a fianco dei loro sventurati pazienti. Tutti i feriti, da quella sera, iniziarono un vero calvario. I più fortunati furono stivati in fredde isbe. La maggior parte rimase all'addiaccio. Venivano addossati alle pareti esterne delle case o ai pagliai, avvolti in coperte. Molti sarebbero morti assiderati”.

“Il mio cervello lavorava febbrilmente mentre osservavo gli elmetti a campana dei russi che dalla collina alla mia destra stavano scendendo verso di noi. Tutta la valle era piena di vampe, di scoppi e di fumo; ciò rendeva difficile scambiare qualche parola. Molti erano già stati afferrati dal panico che, purtroppo, si stava diffondendo”. “In quel momento, soffocato da una massa di gente terrorizzata e pronta a essere macellata, conobbi la paura. Fui afferrato da una specie di ipnosi. Mi spoglia interiormente di ogni cosa, orgoglio, ideali. Mi sentii incapace di ogni scelta, perfino della libertà di movimento. Ero inerte, più che rassegnato; pronto a essere catturato”. “Senza badare al pericolo, percorremmo lo scenario degli innumerevoli scontri di quel giorno. Ci avviammo lentamente lungo il pendio in leggera salita che da Arbusow bassa porta ad Arbusow alta, l’ultima propaggine della quale era in mano al nemico che da qualche centinaio di metri ci osservava senza difficoltà”.

“Arrivammo alle ultime case del primo agglomerato di Arbusow alta. Cominciava a quel punto il tratto di strada che era terra di nessuno. Più avanti si notavano le chiazze bianche delle isbe occupate dai russi. Là era piazzata la mitragliatrice che continuava a lanciare traccianti le cui traiettorie dividevano a metà la vallata”. “Mano a mano che quella notte terribile aveva scandito il suo tempo malvagio, si erano affievoliti i lamenti dei feriti e dei congelati che, non avendo trovato posto al coperto, erano stati collocati in giacigli di paglia addossati alle pareti esterne delle isbe. Quasi tutti erano morti”. “Ero certo che i tedeschi si erano già concentrati nella direzione sud - sud ovest a immediato contatto con il nemico. Non ne vedevo più nessuno sulle strade del paese. Noi italiani avevamo ancora dei reparti della Torino e di camicie nere efficienti a presidio di qualche caposaldo”.

“Verso le 9 si diffuse l’ordine del comando italiano di concentrarsi nella balca Mensinchina, una valletta defilata che si apriva nel pianoro all'inizio del paese di Arbusow. Ci avviammo in quella direzione con la speranza di sfuggire al massacro. Ci allontanavamo, però, dalla linea di contatto con il nemico, dove la colonna sarebbe dovuta penetrare se si fosse aperto un varco”. “Mi ero avviato lungo una balca parallela: era una fenditura incassata con pareti profonde circa 2-3 metri. Vi erano gruppi di soldati seduti in terra, immobili e silenziosi. Chiesi loro se più avanti vi fossero reparti italiani. Mi risposero che c’erano i tedeschi. Avanzai ancora per qualche centinaio di metri e raggiunsi un incrocio nel quale confluiva una fenditura trasversale che proveniva dall’abitato di Arbusow. La balca da me percorsa proseguiva oltre l’incrocio”.

Queste le testimonianze di alcuni dei protagonisti; ma la tragedia che vissero i nostri soldati nella “valle della morte” la si evince in tutta la sua drammaticità dalle cifre: durante gli scontri che si verificarono nella località dal 21 al 25 dicembre 1942 su circa 25.000 italiani, ben 20.500 furono i morti, i prigionieri ed i feriti; solo 4.500 uomini, oltre ad un certo numero di tedeschi della 298° Divisione di Fanteria germanica, riuscirono a sfondare verso la successiva località di Tscherkowo.

Diario di viaggio, giorno 5

5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: quel che resta di un campo di battaglia.







Diario di viaggio, giorno 5, Arbusowka

5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: giro di orizzonte con le alture tenute dai russi.

Diario di viaggio, giorno 5, Arbusowka

5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: fra i resti delle isbe di Arbusowka bassa; qui vennero improvvisati dei piccoli ospedaletti dove i nostri soldati morirono a centinaia per il freddo e per le ferite.

Diario di viaggio, giorno 5

5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: dal libro “Da i più non ritornano” di Eugenio Corti: “Arbusov si trova in una grande vallata ovale, poco profonda. È costituita essenzialmente da un agglomerato di isbe, poco sopra la base di uno dei due pendii maggiori: se ricordo bene, quello nord. Da tale agglomerato si staccano verso est - mantenendosi sul pendio - numerose casupole sparse, dapprima abbastanza vicine, poi sempre più lontane tra loro e come disperse. Dalla parte opposta, dunque a ovest, esce invece dall'agglomerato una lunghissima fila di isbe che - fiancheggiata da una strada - risale obliquamente il pendio fino ad allargarsi, in alto, in un agglomerato minore. Da questa lunghissima fila si dirama in direzione sud un’altra file di abitazioni piuttosto distanziate fra loro, la quale - tornando per così dire indietro, con un’ampia parabola, attraverso la conca e lungo il piede dell’opposto pendio - tende a riunirsi all'agglomerato maggiore. Non lo si può raggiungere, perché nel fondo valle c’è una palude.

Allora questi acquitrini formavano una caotica distesa di ghiacci impolverati di neve, con grandi banchi di canne palustri secche e incessantemente agitate dal vento, che suggerivano uno straordinario senso di desolazione. Orbene: l’agglomerato maggiore e parte della fila principale di isbe, col pendio soprastante, erano in mano nostra; tutto il resto era del nemico che si annidava specialmente tra le canne del fondo valle, mentre le sue armi pesanti stavano dietro di lui, piazzate oltre la sommità del suo pendio”. “Attacchi alla baionetta! Quel giorno fu memorabile. Non tutti partecipammo agli attacchi. I più, anzi, rimasero in paese, asse scure continuamente in moto e sbandatisi continuamente sotto i colpi di mortaio e di cannone russi. Ciononostante quel giorno il fronte nemico venne dovunque travolto, e le nostre postazioni coronarono nel pomeriggio tutta la vallata in cui era Arbusov. Fu l’ultima grande visione di eroismo italiano.

In quegli attacchi quasi tutti i migliori caddero (non parlo retoricamente, riferisco un dato obiettivo)”. “Dall'alto del costone ero calato nell'appendice est di Arbusov, formata di isbe sparse. Le quali - tutte piccole e molto rustiche - seguivano, irregolarmente distanziate tra loro, i due lati di una strada, o meglio pista, che con qualche curva si prolungava fino a perdersi lontano. C’erano morti, e morti, e morti dappertutto: italiani, russi, poi ancora italiani e italiani. Qua e là, accasciato o seduto nella neve, qualche ferito agli estremi invocava sua madre, oppure urlava per il dolore. Altri feriti venivano accompagnati frettolosamente indietro da uno o due commilitoni: avevano il viso segnato più che dalla sofferenza fisica, dall'ansia per ciò che adesso sarebbe accaduto di loro.

Erano infatti rimasti menomati combattendo per tutti, ma nessuno ora li avrebbe potuti aiutare. Avanti. Le pallottole fischiavano dappertutto”. “L’intera vallata - insisto - appariva disseminata di morti. Anche i feriti erano numerosissimi. Sentivamo con angoscia che non li avremmo potuti curare: erano tutti, o quasi, destinati a morire nel giro di poche ore. Si erano formati alcuni ‘posti di medicazione’: ricordo soprattutto quello dentro Arbusov, intorno alla casetta infermeria. Adesso i due locali di cui la casa si componeva e la stalla erano talmente gremiti, da non potervisi in alcun modo camminare. I feriti stavano addirittura uno sull'altro. Anche fuori si udivano i loro lamenti e le loro grida, così piccole nel gelo tremendo. Quando uno dei pochi soldati che s’erano dedicati alla loro cura, entrava per portare soccorso di un po' d’acqua, ai lamenti si mescolavano le urla e le imprecazioni di quelli che egli involontariamente calpestava. Lo spettacolo più miserando non era dato però dalla casa, ma dal terreno ad essa circostante.

Qui sulla neve era stata allargata un po' di paglia, e sopra la paglia giaceva qualche centinaio di feriti. Erano stati lasciati in tutte le posizioni da coloro che ve li avevano frettolosamente portati. Non tuttavia a contatto uno dell’altro, di modo ch'era possibile camminare tra loro. Questi si mantenevano in genere silenziosi. La temperatura doveva essere di 15-20 gradi sotto zero. Stavano per lo più raggomitolati sotto una misera coperta da campo incrostata di neve, e rigida, al solito, come una lamiera; certuni erano senza coperta, e non avevano altro riparo che il cappotto. Mescolati ai feriti c’erano già dei morti: le loro lacerazioni - alcune mostruose - erano state a malapena fasciate, ed essi non avevano potuto resistere nella lotta tremenda contro la perdita di sangue, il digiuno, e il freddo assommati.

In questo golfo di dolore si aggirava un unico medico il quale, stremato dalla fatica, cercava di prestare le cure che poteva. Sentii confusamente dire che - non so se quel giorno, o nei successivi - egli sarebbe stato ferito ben due volte da schegge nemiche, mentre eseguiva delle amputazioni mediante lamette da barba”. “In tal modo lasciammo la Valle della Morte: il paese era semidistrutto, molte isbe bruciate, e molti civili, vecchi, donne, bambini, uccisi dalla battaglia o dall'odio dei tedeschi. Ci lasciavamo indietro una vallata disseminata dovunque di morti: con i morti tedeschi, apatici, e i russi, in qualche punto fucilati in file regolari di dieci, i nostri morti. I nostri, di gran lunga i più numerosi: uccisi dal bombardamento nemico, o caduti a ondate negli assalti alla baionetta, morti per gli stenti, morti di freddo.

Pensiero forse ancora più angosciante delle migliaia di morti, le centinaia e centinaia di feriti abbandonati sopra la neve, su poca paglia”. “Sottovoce cercammo di ricostruire le fasi dell’azione che aveva rotto il ferreo cerchio stretto dal nemico intorno alla vale di Arbusov. L’ordine di incolonnamento era stato trasmesso dal comando tedesco a quello italiano verso le 21.30. La colonna italiana doveva essere pronta per le 23.30. Gli italiani che, come me, Corti e Candela, giacevano all'addiaccio nelle buche, nei fossati, nei canneti della valle, non erano stati informati dell’ordine di incolonnamento. Alle 23.30 i pochi mezzi corazzati tedeschi e i reparti d’assalto della 298a divisione, con azione fulminea, avevano travolto il munitissimo caposaldo nemico di Arbusov alta e avevano aperto il varco attraverso il quale erano passati gli assediati. La retroguardia, costituita da reparti della divisione Torino, aveva respinto i rabbiosi attacchi dei russi, riorganizzatisi dopo lo sfondamento, e aveva consentito al grosso della colonna italiana di evitare la cattura. Centinaia di nostri feriti, per la mancanza di mezzi di trasporto, erano stati abbandonati nelle isbe, affidati ad alcuni ufficiali medici che si erano offerti volontariamente di assisterli in prigionia”.