mercoledì 31 marzo 2021

L'ARMIR nella II battaglia del Don, parte 16

L'8 Armata italiana nella seconda battaglia difensiva del Don (11 dicembre 1942 - 31 gennaio 1943), sedicesima e ultima parte.

PERDITE.

Durante le operazioni svolte nel ciclo operativo 11 dicembre-31 gennaio, l'Armata subì gravi perdite di personale, quadrupedi, armi e materiali di ogni genere, specie per le unità che risultarono soggette ad accerchiamenti da parte delle masse nemiche. Cause determinanti: la resistenza in posto che impose il sacrificio, talvolta totale, di capisaldi, di reparti, di intere unità; la violenza e la durata della battaglia, nonché la prevalenza delle forze avversarie; la deficienza per non dire la mancanza di adeguate armi anticarro; le dure condizioni climatiche; la mancanza di carburante che determinò l'abbandono di gran parte delle artiglierie (tutte motorizzate) degli automezzi e dei materiali delle grandi unità; la mancanza di riserve. Complessivamente i caduti e i dispersi furono 85.000 circa, pari pressoché ad 1/3 della forza iniziale dell'Armata; la massa è costituita dalla fanteria e sue specialità. I feriti e congelati furono quasi 30.000.

La sorpresa causata dalla notizia che a soli circa 20.000 ammontano i prigionieri dei campi di concentramento della Russia non si attenua molto alla luce delle cifre sopraindicate anche se ai fini statistici, si osserva che, per giudicare dell'ordine di grandezza di quella che avrebbe potuto essere, nella migliore ipotesi, la cifra dei sopravvissuti fra i disseminati nella steppa, il numero dei prigionieri segnalati in Russia va messo in rapporto, non già, col totale delle perdite (115.000) e, neppure, col totale dei caduti e dispersi (85.000), bensì con quest'ultima cifra diminuita delle perdite, in caduti, subite dall'Armata nella battaglia di logoramento (II C.A. e D. «Pasubio»); nella battaglia di rottura e nei contemporanei attacchi di agganciamento (II C.A., D. «Pasubio», D. «Celere»); e nei combattimenti per rompere l'accerchiamento, prima, sull'ala destra (D. «Torino», D. «Pasubio», D. «Celere», D. «Sforzesca») e, poi, sull'ala sinistra (C.A. alpino).

Non si hanno notizie particolareggiate su queste perdite, salvo per il XXXV C.A. che, in linea approssimativa, indica in 1800 i morti e i dispersi e in i feriti e congelati della D. «Pasubio»; in 370 i morti e i dispersi ed in 980 i feriti e congelati del raggruppamento «3 gennaio»; in 1020 i morti e dispersi ed in 1510 i feriti e congelati delle truppe e servizi del C.A. fino al 19 dicembre. Si rammenta, però, che per la «Cosseria» in conseguenza delle perdite subite nei primi giorni di combattimento, era stata disposta la sostituzione in linea, alla data del 15 dicembre. D'altra parte, la «Torino», che fu solo parzialmente e poco impiegata in combattimento durante la battaglia di logoramento e dl rottura, dopo l'assedio di Tschertkowo raggiunse Starobolosk con soli 1200 uomini sugli 11.000 che la componevano quando era schierata sul Don (comandante della divisione e comandante della fanteria divisionale: congelati; comandanti dei tre reggimenti: due morti, uno ferito; comandanti dei battaglioni e dei gruppi: non uno presente, tutti morti o feriti o dispersi; comandanti di compagnia e di batteria: tre o quattro presenti). Ci asteniamo, perciò, dal trarre non facili illazioni.

Anche le perdite dei materiali risultano dagli allegati sopra citati. Esse ammontano a 3/4-4/5 della consistenza totale per i mezzi di trasporto; a gran parte delle armi di reparto (fuc. mitr., mitr., mortai, pezzi c.c., ecc.); alla quasi totalità delle artiglierie, dei materiali delle unità e loro scorte ad immediata portata; a gran parte delle dotazioni dei centri logistici avanzati (Rossosch, Kantemirowka, Maltschewskaja, Millerowo) e un'aliquota di quelle dei centri arretrati (Woroschilowgrad. Kupiansk, Kharkow). Nonostante le perdite, il materiale d'intendenza salvato rappresenta una percentuale notevole di quello inizialmente presso l'Armata. Ed invero i rapporti dell'intendenza con le autorità tedesche per l'assegnazione dei mezzi di trasporto e di carburante, come già ricordato, rischiarono più volte di superare il limite di rottura.

CONCLUSIONE.

Queste, in rapida visione le vicende dolorose, ma certo non ingloriose, dell'Armata italiana in Russia. I superstiti sono tornati alle loro case e tornano i prigionieri. E', fra di essi, chi racconta, ma i più rifuggono dal rinnovare, pur anche nel pensiero, il loro tormento. Il tempo attenuerà il ricordò delle atrocità sofferte o viste. Alcuni troveranno forse attenuanti anche per i disumani misfatti nelle supreme esigenze della guerra. Ma i figli dei figli, tutti, ricorderanno pur sempre lo sdegno dell'avo per l'altezzoso contegno di chi gli era, suo malgrado, compagno d'armi. Ricorderanno che amaro conforto per il superstite avvilito sulla via del ritorno, nelle desolate steppe dell'oriente, era stata la visione della sconfitta tedesca terrorizzato come egli era dal pensiero di dover «dividere» (!) la Vittoria con un tal «condomino» sulla soglia di casa.

Per un peccato veniale, molti anni or sono, un grande uomo di Stato, che contribuì a promuovere la soluzione pacifica dei conflitti internazionali - e non esitava, quando riteneva che il suo paese fosse nel torto, a dirlo - William Gladstone, dall'alto del suo scanno in Parlamento, rivolgeva un fiero monito al popolo britannico: «Viaggi un inglese dove vuole come privato cittadino. Sarà ritenuto in generale integro, magnanimo, coraggioso, liberale e sincero; ma con tutto ciò gli stranieri sentiranno troppo di sovente qualche cosa di repulsivo in sua presenza; ed io mi rendo conto che ciò avviene perché egli ha una spiccata tendenza a presumere di sè e troppo poca disposizione a considerare i sentimenti, le abitudini e le idee degli altri... «Da parte mia sono d'avviso che l'Inghilterra sarà privata di gran parte della sua gloria e della sua dignità se verrà a mancarle l'appoggio morale che scaturisce dal fermo generale consenso del genere umano; se giorno verrà in cui essa pur continuando a destare la meraviglia ed il timore delle altre nazioni non avrà parte alcuna nella loro affezione e nella loro stima».

Per un peccato oltre ogni dire «mortale», a nome di milioni di colpiti negli affetti più cari, il tormentoso dopoguerra infligge, oggi, un duro insegnamento al popolo germanico perché bandisca dal suo linguaggio le parole «popolo eletto» e da ogni suo programma ed azione la politica che a tale formula si ispira. Sono esse bandite altresì, e decisamente, in ogni altra lingua e nazione? L'umanità se lo augura perché sono parole maledette!



Ricompense - Quartier Generale d'Armata

Ricompense al Valor Militare attribuite per le operazioni sul Fronte Russo, a cura di Carlo Vicentini, fonte UNIRR.

MOVM - Medaglia d'Oro al Valor Militare, MAVM - Medaglia d'Argento al Valor Militare, MBVM - Medaglia di Bronzo al Valor Militare, MOVM - Medaglia d'Oro al Valor Militare, CGVM - Croce di Guerra al Valor Militare.

QUARTIER GENERALE DELL'ARMATA E PICCOLE UNITA' DIRETTAMENTE DIPENDENTI.

MAVM Maggiore DI CAMPELLO Ranieri
MAVM Maggiore RICHETTI Alberto
MAVM Capitano GARIBALDI Cristofaro, alla memoria
MAVM Capitano MICHELINI Arturo
MAVM Capitano TORTORANO Gaetano
MAVM Sottotenente MASINI Vittorio
MAVM sergente DE FEO Arturo
MBVM Maggiore ESTRAFALLACES Ugo
MBVM Capitano GRANA Saverio
MBVM Capitano NERVI Nicolò
MBVM Tenente BRUNETTI Paride
MBVM Tenente medico MASOTTI Umberto
MBVM Sottotenente CALVI Gianni
MBVM Sottotenente NINI Luigi
MBVM Sottotenente RATI Rino
MBVM sergente maggiore BACCI Giuseppe
MBVM caporal maggiore BIANCO Lorenzo
MBVM caporal maggiore PARA Roberto, alla memoria
MBVM caporale PALLI Primo
MBVM caporale RIBAUDO Antonio
MBVM soldato MOLINARI Italo
MBVM soldato SAPIA Francesco, alla memoria
CGVM Tenente Colonnello MENTASTI Agostino
CGVM Tenente Colonnello SOGGIU Settimo
CGVM Capitano PELLEGRINI David
CGVM Tenente BIAGIONI Renzo
CGVM Tenente CAO Mario
CGVM Tenente PISA Emilio
CGVM Tenente SALLUSTI Aldo
CGVM Sottotenente CARLINI Angelo
CGVM Sottotenente CASTIGLIONE Lucio
CGVM Sottotenente DI FONTANI Alessio
CGVM Sottotenente GRIPPI Guido
CGVM Sottotenente PASQUINI Lucido
CGVM Sottotenente SALA Giovanni
CGVM maresciallo COSTANZO Nello
CGVM sergente BUSETTI Fortunato
CGVM sergente PIZZIGOTTI Leo
CGVM sergente SERBINI Pietro
CGVM caporale MEROLA Gaetano
CGVM soldato CANTELE Giovanni
CGVM soldato CUNATI Ugo, alla memoria
CGVM soldato DAL VERME Carmine
CGVM soldato MAGNANI Piero
CGVM soldato NOSEDA Felice, alla memoria

lunedì 29 marzo 2021

Il processo D'Onofrio, parte 4

Il processo D'Onofrio, quarta parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.

LA QUARTA UDIENZA.

Comincia, con l'udienza del 25 maggio 1949, la sfilata dei testimoni a discarico. Saranno dieci gravi accuse contro l'attività del sen. D'Onofrio in Russia, alle quali faranno riscontro in seguito i dieci primi testi che quella attività invece, difenderanno.

Primo teste della giornata è l'avv. Mario Bosello, il quale, tenente di artiglieria nella campagna di Russia, fu catturato il 22 dicembre del 1942. Durante la marcia estenuante per raggiungere a piedi il campo di Oranki i russi gli tolsero le scarpe e al ten. Ferretti la pelliccia. La razione di viveri consistette in una sola fetta di pane di non più di 300 grammi assolutamente immangiabile. Quando già da un mese i prigionieri si trovavano nel campo di Oranki giunse un italiano: vestiva una casacca e, sotto, l'uniforme dell’esercito russo. Egli interrogò il teste su i suoi pronostici e sui suoi desideri circa l'esito della guerra in corso. Il teste ha poi ricordato che un certo ten. Ballarin, il quale aveva sottoscritto un manifesto murale con cui si invitava l'esercito italiano a deporre le armi, redarguito dal cap. Lombardo che lo minacciò di denuncia quando fossero rientrati in Italia, si recò dal commissario Fiammenghi a riportare l'accaduto. Il Fiammenghi convocò immediatamente il cap. Lombardo e lo minacciò di fucilazione immediata.

Nel maggio del 1943 corse voce per il campo che gli ufficiali che avevano aderito alle idee del commissario Fiammenghi preparavano un messaggio alle truppe nel quale si incitavano i soldati a gettare le armi. Il teste, insieme ad un gruppo di altri ufficiali di quelli che si trovavano in peggiori condizioni fisiche, fu trasferito alla fine di giugno nel campo convalescenziario di Skit. Fu qui che comparve per la prima volta il D'Onofrio il quale dichiarò subito di essere di professione 'cospiratore'.

Presidente: 'Cosa disse ai prigionieri il D'Onofrio?'.

Bosello: 'Ricordo che ci parlò a lungo dell’Italia e della democrazia e noi ne ricavammo una ottima impressione, fummo soddisfatti del modo con il quale egli ci intrattenne per oltre mezz'ora. Ma un paio di giorni dopo D'Onofrio chiamò me ed altri cinque colleghi, fra i quali il cap. Magnani. Appena entrammo nella sua stanza egli chiuse la porta e ci fece sedere. Accanto a lui era il commissario Fiammenghi e il magg. Orloff. E cominciò l’interrogatorio.

Il sottotenente Sandali al quale per primo furono rivolte le domande, si trincerò sul divieto fatto ai militari dal regolamento di esprimere opinioni politiche e chiese che fosse rispettato il suo diritto, come prigioniero di guerra, di non essere interrogato su fatti politici. La secca risposta del Sandali provocò un violento scatto del D'Onofrio il quale urlò nelle orecchie del sottotenente: 'È necessario che lei riveda le sue posizioni perché con queste idee in Patria, lei, non ci tornerà mai più'. E rivolto a tutti: 'Quello che dico a lui vale per tutti i presenti'. Fiammenghi e il magg. Orloff prendevano appunti su alcuni fogli di carta.

Presidente: 'Gli altri ufficiali convocati, furono interrogati?'.

Bosello: 'Le stesse domande poste al primo vennero poi fatte a tutti gli altri. Per tutti noi, però, rispose il cap. Magnani che eravamo venuti in Russia per combattere perché un soldato deve obbedire senza discutere e che saremmo stati ossequienti al nuovo governo italiano. L'interrogatorio durò tre ore e alla fine, mentre uscivamo dalla stanza, D'Onofrio ci gridò dietro: 'Se non cambiate idea in Italia non si torna'.

A questo punto il Presidente ha fatto leggere al teste l'ordine del giorno presentato dalla parte civile, per sapere se il testo corrisponda a quello con cui D’Onofrio invitò i prigionieri a sottoscrivere.

Bosello: 'Ho la netta sensazione che non sia quello l'ordine del giorno che allora fu presentato ai prigionieri'.

Il teste ha ricordato poi che, qualche sera dopo gli interrogatori, un soldato russo entrò nella baracca e, chiamato il cap. Magnani, gli ordinò di prendere la sua roba e di seguirlo. Il Magnani abbracciò il commilitone con le lacrime agli occhi perché sapeva che non avrebbe più rivisto i suoi bambini.

Avv. Mastino Del Rio: 'Le risulta che il cap. Magnani fosse un criminale di guerra?'.

Bosello: 'Il capitano era un uomo d'onore, decorato di tre medaglie d’argento'.

Avv. Taddei: 'Il teste da che cosa deduce che le risposte fornite durante gli interrogatori venissero verbalizzate?'.

Bosello: 'Nel campo di Susdal fui sottoposto ad un altro interrogatorio. Dalle domande che il commissario politico Rizzoli mi fece, mi accorsi che conosceva già le risposte che avevo dato nei precedenti interrogatori. Mi risulta poi che i fuorusciti italiani erano nient'altro che funzionari sovietici. Infatti al sergente Paolozzi furono inflitti dieci giorni di prigione con la seguente motivazione: 'Si rifiutava di rispondere ad un funzionario politico sovietico'. Il sergente, durante un interrogatorio, aveva detto al Rizzoli che non avrebbe mai risposto alle domande di 'un fuoruscito italiano'.

Il secondo teste chiamato a deporre è il sottotenente dei bersaglieri Franco Santoro.

Santoro: 'Appena arrivati al campo di Oranki fummo sottoposti ad un bagno di disinfezione. La stanza era caldissima. Dopo il bagno a 30 gradi, fummo portati all'aperto con una temperatura di 35 gradi sotto zero. Alcuni morirono. Io, svenuto, fui portato in ospedale. Presi la polmonite doppia, la dissenteria e il tifo petecchiale'.

Il racconto del reduce provoca vivaci mormoni del pubblico che si tramutano in sonore risate quando il teste ribadisce che nel campo di Skit il D'Onofrio gli si presentò come cospiratore di professione.

Avvocati della Parte Civile: 'Allora bisognava ridere, non oggi; oggi è troppo facile!'.

Il tenente Santoro ha narrato poi dell’interrogatorio subito insieme al teste che lo lui preceduto. Nel corso della 'conversazione', D'Onofrio accusò le truppe italiane di essersi comportate malissimo nel territorio russo occupato. Disse che le truppe italiane rubavano, incendiavano, uccidevano e perciò noi prigionieri non dovevamo aspettarci un trattamento migliore di quello che ricevevamo. Il teste ha smentito le accuse di D'Onofrio. I nostri soldati, egli ha detto, quando abbandonavano i paesi occupati, erano seguiti dalle donne e dai bambini russi con i quali avevano diviso fino all’ultimo momento, il pane e anche i vestiti.

Anche al Santoro il Presidente fa leggere la copia dell’ordine del giorno esibito dalla parte civile, ma il teste lo disconosce.

Chiamato insieme al cap. Magnani, per un secondo interrogatorio, e invitato perentoriamente a mutare il proprio atteggiamento che influiva sugli altri e soprattutto sui soldati, il teste disse al D'Onofrio che non poteva tradire i suoi bersaglieri morti. 'Lei parla troppo dei suoi bersaglieri - lo interruppe D’Onofrio. La differenza che passa fra lei e loro è soltanto questa: lei è un criminale di guerra vivo, quelli sono dei criminali di guerra morti'.

Il tenente Santoro si gira lentamente sulla poltrona e fissa il querelante, che lo ha tacciato di falso e di impostura, con sguardo di sfida.

LA QUINTA UDIENZA.

27 maggio 1949 - Man mano che i giorni passano e i racconti dei reduci si ripetono, uguali, tragicamente uguali nella rievocazione dell’odissea, l'atmosfera del dramma in quest’aula di tribunale si fa più cupa, terribile. Certamente nessuno dì quelli che si vanno avvicendando sulla poltrona dei testimoni, o di quelli che si affollano nello spazio riservato al pubblico avrebbe mai pensato, ai tempi della prigionia, che in un’aula di tribunale, davanti alla maestà della giustizia, avrebbe incontrato i superstiti della tragedia.

Dalla deposizione del sottotenente di fanteria Sergio Fiaschi, si apprende come egli fu portato in un 'campo-scuola' a 300 chilometri dall’Afghanistan.

Presidente: 'In che cosa consisteva questa scuola?'.

Fiaschi: 'Ufficialmente doveva avere un carattere informativo, ma ben presto ebbi modo di sapere in che cosa realmente consistesse. Dopo tre mesi di permanenza in quel campo fui chiamato dal fuoruscito Robotti il quale mi disse che la scuola mi tacciava di 'fascista'. E per quella volta la cosa finì lì. Ma poi fui chiamato una seconda volta insieme ad altri che si trovavano nelle mie stesse condizioni per sentirmi ripetere questa accusa con la aggiunta che il mio atteggiamento e quello dei miei colleghi meritavano una severa punizione.

Vissi durante tutti e tre gli anni della prigionia nel continuo terrore di essere gettato in un carcere. D'Onofrio faceva soltanto brevi apparizioni nella scuola il giovedì. Gli insegnanti erano i fuorusciti Robotti e Reghenti oltre il maggiore russo Orloff'.

Avv. Mastino Del Rio: 'Quale trattamento era riservato ai più zelanti frequentatori di questa scuola?'.

Fiaschi: 'A coloro che dimostravano maggiore attività nella frequenza della scuola veniva riservato un trattamento migliore. Essi erano chiamati 'assistenti', non erano obbligati a lavorare e mangiavano meglio degli altri'.

Un cappuccino, dalla lunga barba ben curata, è il secondo teste della giornata chiamato a deporre: padre Giuseppe Fiora, cappellano dell'8° Reggimento Alpini, fatto prigioniero nel gennaio 1943. P. Fiora: 'Sento il bisogno di premettere che al campo di Krinovaia, dove venni portato prima di essere trasferito ad Oranki, la fame dei prigionieri era tanta da dar luogo a casi di cannibalismo. Un giorno si presentò a me un soldato italiano il quale, in una gavetta, mi offrì di mangiare con lui il cuore di un commilitone morto: 'Padre, vuol mangiare?' mi disse. Mi prodigai con gli altri cappellani prigionieri, anche per invito dei fuorusciti e dei russi, perché quei gravissimi fatti avessero a cessare. Ripetemmo ai prigionieri le assicurazioni fatteci dai fuorusciti di future migliorie. Ma nessun miglioramento si verificò mai, né allora né dopo. La promessa non fu mantenuta.

Durante il viaggio di trasferimento da Krinovaia ad Oranki fu data come razione di viveri ai prigionieri soltanto un pezzo di pane secco e pesce salato. Niente acqua. E quando gli uomini ne chiedevano, le guardie russe rispondevano: 'Perché siete venuti a combattere contro di noi? Adesso la pagate!'. Appena arrivati ad Oranki tutti furono infettati di tifo petecchiale. Nessuna assistenza sanitaria fu data ai malati dai sovietici: l'unico a prendersi cura di loro fu il tenente medico italiano Reginato il quale non ha fatto più ritorno dalla Russia.

Oltre al tifo altre epidemie scoppiarono nel campo. Fra esse la più grave fu la dissenteria. L'indice di mortalità raggiunse il 90 e anche il 95 per cento dei prigionieri. I malati giacevano su un tavolaccio e a noi cappellani non fu mai consentilo esercitare le nostre funzioni. Per essere ammessi nel lazzaretto dovemmo fare domanda di infermieri. Io però mi ammalai il giorno prima di essere assunto. Appena guarito fui assegnato ad un duro lavoro, quello di segare alberi e trasportarli per dei chilometri.

Ad Oranki, per volere di tutti gli internati, la sera si pregava ad alta voce. Fra le altre recitavamo la preghiera 'Pro Rege'. Un giorno però io e l'altro cappellano, don Brevi, fummo chiamati dal commissario politico del campo, Fiammenghi, il quale ci proibì di recitare quella preghiera perché il Re era 'un venduto allo straniero' e il 'capo dei reazionari'. Naturalmente abolimmo questa preghiera per il Re. Questo avveniva verso la fine di maggio del 1943. Dopo qualche mese Fiammenghi ci chiamò nuovamente e ci disse che dovevamo smettere di recitare preghiere perché in Russia non erano ammessi atti di culto esterno. I prigionieri, se lo volevano, potevano pregare privatamente. Chi non si fosse attenuto a questi ordini precisi sarebbe stato punito con il carcere.

Presidente: 'Lei ebbe occasione di parlare con D'Onofrio?'.

P. Fiora: 'Personalmente no. Assistetti, però, ad una sua conferenza nel campo di Oranki'.

Presidente: 'Che cosa disse il querelante?'.

P. Fiora: 'Non lo so perché poco dopo che aveva cominciato a parlare mi addormentai. Seppi, però, dagli ufficiali, al mio risveglio, che l'impressione riportata fu tutt’altro che buona'.

Avv. Taddei: 'L'intervento dei fuorusciti italiani migliorò le condizioni dei prigionieri?'.

P. Fiora: 'Lei è matto. L'unico nostro sollievo era la fratellanza'.

Presidente: 'Lei può andare'.

P. Fiora: 'No, Non ancora. Voglio aggiungere che quella nostra fratellanza fu distrutta proprio dai fuorusciti. Si deve esclusivamente a loro se si verificarono delle delazioni, delle vendette, dei rancori personali. E non basta. I fuorusciti cercarono in ogni modo di intralciare la nostra opera di umanità, tanto che riuscivamo ad ottenere più rivolgendoci ai russi che ai nostri connazionali. Cito un caso: per ben due volte chiesi al commissario politico Ossola il permesso di visitare un ufficiale che giaceva gravemente ammalato. Non ebbi mai risposta: neppure un rifiuto. Mi rivolsi allora al comandante russo del campo e nel giro di pochissime ore ottenni il permesso richiesto. Il senso di diffidenza che i fuorusciti erano riusciti a far serpeggiare nella nostra compattezza era tale che tra noi si diceva: siamo prigionieri degli stessi prigionieri italiani'.

Dalla deposizione di un altro testimone, il sottotenente di fanteria Luigi Esposito, nulla emerge che non sia già a conoscenza del tribunale. Egli fu portato al campo di Tamboff dove era ad attendere i prigionieri in arrivo un gruppo di fuorusciti italiani. La signora Torre che era nel gruppo accolse i nuovi arrivati con queste parole: 'Venite, venite, soldatini. Finalmente siamo riusciti a liberarvi dalla tirannia dei vostri ufficiali'.

L'udienza ormai sarebbe finita, ma l'avv. Taddei fa istanza perché venga richiesta alla Direzione Generale degli Affari Politici del Ministero degli Esteri la lista ufficiale dei militari italiani segnalati ufficialmente dalla Russia come criminali di guerra, istanza che il tribunale accoglie dopo una breve permanenza in camera di consiglio.

domenica 28 marzo 2021

La carica di Isbuscenskij

Schema della carica di Isbuscenskij.

La guerra sul fronte orientale, parte 2

Senza altra finalità se non quella della condivisione storica e militare, pubblico questo secondo video sugli orrori della guerra in generale e sul fronte orientale in particolare.

L'ARMIR nella II battaglia del Don, parte 15

L'8 Armata italiana nella seconda battaglia difensiva del Don (11 dicembre 1942 - 31 gennaio 1943), quindicesima parte.

COMPORTAMENTO TEDESCO DURANTE LA BATTAGLIA.

Sul quadro d'insieme del sacrificio cui furono votate le nostre truppe in Russia, e che si è cercato di tracciare, un'ombra fosca si proietta ancora a renderne più triste, ma più realistica la visione. Essa promana dal contegno di qualche comando tedesco e dei militari germanici in generale verso gli «infelici alleati». Il soldato tedesco ha in questa campagna compiuto invero atti di soperchieria ed ha dato sfogo a manifestazioni di violenza a nostro danno che superano la naturale tendenza alla sopraffazione insita nel temperamento germanico! Ricordiamo che, all'inizio della battaglia, una divisione tedesca (la 298a) faceva parte del XXXV C.A. italiano ed un reggimento tedesco (il 318°) dipendeva dalla «Cosseria». Per contro erano alle dipendenze di un comando tedesco (il XXIX C.A.) le nostre tre divisioni «Torino», «Celere» e «Sforzesca».

Ma la reciprocità è soltanto apparente perché: mentre la dipendenza delle nostre unità dall'autorità tedesca è integrale ed assoluta (abbiamo visto la D. «Torino» contrattaccare il 18 dicembre per rioccupare delle posizioni mentre tutte le altre divisioni già ripiegavano; e la D. «Sforzesca» far ritorno sullo Tschir in ottemperanza ad un ordine del comando germanico) l'altra, la dipendenza delle unità germaniche dai comandi italiani, è soltanto nominale ed apparente. Le unità tedesche e non soltanto la divisione, ma i reggimenti, i battaglioni e i gruppi autonomi, quando non crederanno di dare esecuzione ad un ordine ricevuto dall'autorità italiana dalla quale dipendono, chiederanno ed attenderanno la conferma del comando Gruppo Armate e cioè di una autorità germanica superiore alla più alta autorità italiana in terra di Russia!

Ciò incoraggerà la costante tendenza dei nostri alleati ad «accorrere» senza fretta, quando il loro concorso è invece urgente; a pretendere che i nostri reparti resistano «in posto» anche quando per essi è evidente la maggiore convenienza di ripiegare, per salvare qualche cosa. E tutto questo per avere lavoro più facile e per continuare a sfruttare al massimo i mezzi altrui, senza troppo preoccuparsi dell'alleato (non è questa una esclusività del comando in Russia. Nella pubblicazione «The Eight Army» preparata dal Ministero delle Informazioni britannico per il Ministero della Guerra, sulle operazioni nell'Africa Settentrionale, si legge: «Più tardi il generale Montgomery disse che Rommel era un buon generale, ma che aveva tendenza a ripetersi. E' in questo momento che egli iniziò la tattica, di poi costantemente ripetuta quando trovava in situazioni imbarazzanti, di salvare i propri soldati tedeschi a spese degli infelici alleati»).

E che dire del disagio di un'azione di comando da parte italiana in tutto soggetta della parte germanica la quale neppur sempre comunica il quadro complessivo della situazione operativa, e che, disponendo dei trasporti ferroviari e delle assegnazioni di carburante, finisce, in sostanza, per controllarla completamente mettendola in condizioni di assoluta dipendenza? Il disagio si traduce assai di sovente in uno stato di vera impotenza. Né vogliamo soffermarci sulla presunzione germanica di mantenere elevato lo spirito combattivo delle proprie truppe attribuendo agli altri le cause dei rovesci: l'esito vittorioso dell'offensiva sarebbe da imputarsi ad una insufficiente resistenza da parte delle unità alleate in linea! Solo ci limitiamo a riportare alcuni tipici episodi che rivestono particolare importanza per le ripercussioni sfavorevoli ch'essi ebbero sullo sviluppo delle operazioni e che rivelano fino a qual punto i comandanti germanici abbiano abusato del «vincoli d'impiego» delle unità tedesche messe alle dipendenze - per così dire - di comandi italiani:

Nella giornata del 16 dicembre, inizio dell'attacco generale del nemico sul fronte dell'8a Armata: Il comando del XXXV C.A. ordina alla 298a D. germ. di dislocare immediatamente a Galijewka una batteria del L gruppo italiano da 149/28, precedentemente posto alle sue dipendenze, per battere d'infilata alcune vallette a nord di Krassnogorowka, dove si stavano ammassando notevoli forze nemiche. Il comando della 298a D., pur trattandosi di artiglieria italiana e pur non essendo la divisione impegnata, ritarda con pretesti vari l'esecuzione dell'ordine e comunica, infine, che avrebbe messo a disposizione un solo pezzo. Soltanto in seguito ad ulteriori insistenze l'ordine venne integralmente eseguito. Il ritardo frapposto nell'intervento della batteria fa perdere all'azione di fuoco gran parte della sua efficacia.

Il comando del XXXV C.A. ordina che il I/526a germ., dislocato in riserva, passi a disposizione della « Pasubio » per effettuare in unione ad altri reparti, un immediato contrattacco allo scopo di ristabilire la situazione fra Ogolew e Abrassomova. Il comandante del btg. germanico dichiara di non potersi muovere se non dietro ordine del comando Gruppo Armate. In tale atteggiamento il reparto viene appoggiato dal comando della 298a D. germ. Il comando artiglieria del XXXV C.A. chiede all'artiglieria della 298a D. di intervenire a protezione di Krassnogorowka battendo d'infilata le forze nemiche attraversanti il Don per attaccare l'abitato. La 298a D. oppone un netto rifiuto affermando, contrariamente al vero, di essere impegnata sul fronte.

Il 18 dicembre, il comando del XXXV C.A., in conseguenza di disposizioni del comando Armata, ordina alla 298a di sostituire in linea il 79° rgt ftr. ridotto a circa 600 uomini. Gli ufficiali di collegamento germanici preso la «Pasubio» segnalano che due cp. tedesche inviate per sostituire il III/79° non avevano trovato in posto il battaglione. Immediati accertamenti precisano che i reparti non si erano portati sulle previste posizioni, ma si erano dislocati su un costone retrostante alle posizioni sulle quali il btg. italiano aveva, nel frattempo, respinto un altro attacco. I due ufficiali tedeschi di collegamento, invitati a recarsi sul per constatare l'inesattezza della loro comunicazione, opponevano un rifiuto motivato con il solito vincolo della preventiva autorizzazione del comando Gruppo Armate.

Il 19 dicembre, la 298a germ., in seguito a comunicazione del comando XXIX C.A. (tedesco) inizia il ripiegamento non ordinato dal comando XXXV C.A. (italiano) da cui dipende, senza avvertire nè provocare ordini del comando stesso. Alle rimostranze di questo dichiara di essere passata alle dipendenze del comando XXIX C.A. L'episodio (per la rottura dei collegamenti l'episodio è conosciuto dall'Armata soltanto ai primi di gennaio a ripiegamento effettuato) è connesso ad altra contemporanea arbitraria modifica da parte del XXIX C.A. degli ordini impartiti dall'Armata il giorno 19 per il ripiegamento dal Don dei C.A. XXXV e XXIX. Cambiamento di disposizioni che, sottraendo la 298a D. tedesca al XXXV C.A. e passandola alle dipendenze del XXIX (comando tedesco), portò, fra l'altro, all'anormale situazione di un C.A. (XXXV) inserito tra le unità di un altro (XXIX) ed a frammischiamenti e intasamenti sull'unica via di deflusso, con evidenti ripercussioni negative sulle operazioni.

Alla sera del 19, il comando XXIX C.A. ordina, improvvisamente e d'iniziativa, alla «Celere» ed alla «Sforzesca» di abbandonare la linea Meschkoff-Tsdhir (sulla quale secondo disposizioni impartite lo stesso giorno dal comando Armata si doveva condurre la difesa) e di ripiegare in direzione di Kaschary. Il Gruppo Armate dà direttamente, senza interpellare l'Armata, immediato contrordine. Le conseguenze dell'ordine e del contrordine sono gravi: l'iniziale arretramento consente a forti aliquote corazzate nemiche di infiltrarsi sulla strada di Djogtewo; il successivo ritorno verso lo Tschir, compiuto soltanto dalla «Sforzesca», meno premuta dal nemico, mentre disperde energie e sacrifica uomini, mezzi e tempo preziosi, non porta alcun beneficio alla condotta della difesa. Nel campo logistico e dei trasporti in particolare, la soggezione assoluta, i vincoli artatamente creati dal comando germanico si appalesano nel più tormentoso. Basterebbe ricordare che, all'atto del ripiegamento, la 298a D. tedesca disponeva della sua piena dotazione di carburante mentre le nostre unità erano costrette ad abbandonare, fin dal primo giorno, le artiglierie e via via sugli ultimi automezzi che, peraltro, in parte riforniti di carburante dai tedeschi, venivano da questi utilizzati per loro esclusivo uso e consumo. Ma più che dettagliata delle richieste avanzate e delle concessioni avute in fatto di treni, carburante, mano d'opera, prigionieri, sfruttamento di risorse locali etc., a render meglio l'idea delle condizioni di disagio in cui furono messi i nostri servizi, si riporta, in stralcio, il grido di protesta lanciato dall'intendente al superesercito, l'8 gennaio, durante la battaglia del Don, quando già l'ala destra dell'Armata era stata costretta a ripiegare e si delineava l'avvolgimento del C.A. alpino.

Sono motivi ricorrenti nei cifrati dell'intendenza, ma questo che riportiamo sintetizza più efficacemente la situazione: «Autorità tedesca cerca tutti controllare et dove possibile impadronirsi nostra organizzazione et limitare mia libertà azione modo et forma intollerabili et inconciliabili nostro prestigio alt In particolare tende ad impadronirsi direttamente mezzi trasporto alt Nessuna ragione salvo proprio egoistico interesse giustifica interventi che specie nel campo dei trasporti minacciano con impiego antieconomico compromettere nostra efficienza già gravemente scossa recenti avvenimenti... Nelle attuali condizioni massime esasperanti et risorgenti difficoltà sono rappresentate non da ambiente clima distanza etc. ma da rapporti con tedeschi. «Chiedo sia detto chiaramente at che nostri uomini li comandiamo noi et nostri mezzi li comandiamo noi pronti capisce a dare sempre concorso come sempre si è dato anche se est illusorio come esperienza abbondantemente dimostra sperare in una qualsiasi contropartita alt.».

Ispirandomi alla linea di condotta dei loro comandi, i militari tedeschi durante il ripiegamento hanno tenuto il più deplorevole contegno verso l'alleato che aveva sacrificato il 70% delle sue fanterie per tener testa ad un avversario superiore di mezzi e di uomini e aveva dato loro la possibilità di ritirare tutto il materiale e di ripiegare agevolmente. Così si son visti svaligiare magazzeni per i quali erano stati negati i mezzi di trasporto, facendo sorgere il fondato dubbio che il diniego fosse stato inspirato dall'intenzione di appropriarsi dei viveri e dei materiali; laddove, incontrando sezioni di sussistenza tedesche provviste di viveri, compreso il pane, ai nostri soldati non veniva dato nulla; solo, a volte, un po' di miglio e tre patate crude. Dalle isbe, a mano armata, venivano cacciati i nostri soldati per far posto a quelli tedeschi; nostri autieri, a mano armata, venivano obbligati a cedere l'automezzo; dai nostri autocarri venivano fatti discendere nostri soldati, anche feriti, per far posto a soldati tedeschi; dai treni carichi di feriti venivano sganciate le locomotive per essere agganciate a convogli tedeschi; feriti e congelati italiani venivano caricati sui pianali dove alcuni per il freddo morivano durante il tragitto, mentre, nelle vetture coperte, prendevano posto militari tedeschi, non feriti, che, avio-riforniti, mangiavano e fumavano allegramente quando i nostri soldati erano digiuni da parecchi giorni.

Durante il ripiegamento, i tedeschi, su autocarri o su treni schernivano, deridevano e dispregiavano i nostri soldati che si trascinavano a piedi nelle misere condizioni che abbiamo descritte e, quando qualcuno tentava di salire sugli autocarri o sui treni, speso semivuoti, veniva inesorabilmente colpito col calcio del fucile e costretto a rimanere a terra. Né, data la diversa efficienza dei singoli e dei reparti, potevano sempre bastare, a raffrenare la tracotanza germanica, le sporadiche reazioni, anche violente, di comandanti e gregari, né l'ordine dato dall'Armata agli autisti di opporsi, con le armi, ad ogni tentativo di privarli dell'automezzo. «Nella conca di Arbusowka molti, moltissimi, da parte nostra sono i morti ed i feriti, che per mancanza di locali chiusi vengono depositati all'aperto, vicino al posto di medicazione. Il comando tedesco, cui per mezzo dell'interprete ci si era rivolti per avere qualche ambiente da adibire a ricovero di feriti, non aderisce alla richiesta, giustificando tale rifiuto con l'asserzione che tutte le case sono occupate da comandi tedeschi. E' solo dopo vive insistenze che si riesce ad avere una piccola isba, assai piccola, e naturalmente insufficiente per le necessità delle centinaia e centinaia di feriti che di ora in ora vanno accumulandosi. Nevica e la neve li ricopre».

sabato 27 marzo 2021

Libri: "GIUSEPPE MICHELI"

La campagna di Russia è tra i fronti più studiati della Seconda guerra mondiale. La storiografia e la memorialistica hanno affrontato gli eventi della “guerra di Russia” a più riprese, secondo una prospettiva di volta in volta militare, autobiografica, oppure politico-diplomatica. Non molto si sa delle associazioni sorte già nel corso del conflitto che, animate anche in alcuni casi da personalità del mondo culturale e politico, agirono per accertare la morte o la prigionia dei soldati italiani, per alleviare le loro condizioni morali e materiali, per far conoscere la sorte dei sopravvissuti all'opinione pubblica. L’”Alleanza Familiare per i prigionieri e i dispersi in Russia” fu la prima di queste associazioni. Attraverso la rassegna dei documenti inediti e del vasto carteggio pubblico e privato del suo fondatore e dei suoi animatori è possibile conoscere i momenti della sua nascita, l’avvio dei contatti in favore dei prigionieri italiani in Unione Sovietica, la sua azione presso i principali interlocutori sovietici, il mondo politico nazionale e i rappresentanti del Partito Comunista Italiano. Lo studio descrive i rapporti con L’Alto Commissariato per i prigionieri di guerra e la Croce Rossa. Alcune parti dello studio sono dedicate all'illustrazione del dispiegamento della Divisione “Tridentina” e al racconto diretto dei protagonisti, prima della cattura.

Il testo è acquistabile al seguente link https://www.tralerighelibri.com/product-page/giuseppe-micheli-e-l-alleanza-familiare-per-i-dispersi-e-i-prigionieri-in-russia.

giovedì 25 marzo 2021

Viaggio estivo 2021

Almeno ci proviamo e ci crediamo... non sappiamo quante reali possibilità ci saranno di realizzare il previsto viaggio estivo del 2021, ma siamo comunque in fase di studio e pianificazione... e se non sarà possibile effettuarlo, lo rimanderemo alla prossima estate.

Il viaggio estivo è profondamente diverso da quello invernale; offre emozioni differenti ma non meno profonde e soprattutto per come viene svolto, è aperto praticamente a tutte le persone con davvero un minimo allenamento per qualche ora di camminata nella steppa russa.

Agosto-settembre 2021; 9/10 giorni compreso il viaggio dall'Italia a Mosca e successivamente verso il Don; spostamenti con pullman e guida che parla italiano.

Programma di massima: Mosca e il suo centro; visita della zona del fronte del Don tenuto dagli Alpini (Rossosch, zona della Tridentina, quota Pisello e Cividale, il quadrivio di Selenyj Jar) e dalle Fanterie (l'ansa del "cappello frigio", l'ansa di Werch Mamon, Arbusowka la "valle della morte"); una mezza giornata o una giornata intera di navigazione sul Don per vedere la zona del fronte direttamente dal grande fiume; Tambov e Krinovaja.









mercoledì 24 marzo 2021

Il viaggio del 2011, Novo Georgiewskij

Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... la steppa intorno a Novo Georgiewskij.



Onori a Attilio Fusi

Ricevo dalla Signora Mariella Fusi un ricordo del papà, Attilio, reduce di Russia che pubblico con piacere.

Per non dimenticare!

Nella valigia dei ricordi del papà (Fusi Attilio classe 1921 Alpino 6° Reggimento, Divisione Tridentina) ho trovato tra foto, lettere, piastrina del lager, libri con dediche, anche un’immagine della Madonna dell’Aiuto e la mente è subito tornata ad un giorno di molti anni fa quando entrai nella sua camera per portargli una limonata. Era a letto per una terribile intossicazione da funghi, ne era ghiotto e quella volta aveva veramente esagerato. Nell’attesa che terminasse di sorseggiare la calda bevanda mi sedetti su una sedia e il mio sguardo si posò su un brutto portafotografie, posto sul comodino, sbeccato e danneggiato dal tempo e con all’interno un’immagine della Madonna altrettanto rovinata e sbiadita. Era lì da sempre quel portafotografie e molte volte avevo avuto la tentazione di buttarlo ma non lo avevo mai fatto perché mi ero proposta di ottenere, prima di agire, il consenso del papà onde evitare inutili arrabbiature.

Fu proprio in quel momento che gli chiesi se potevo sostituirlo con uno nuovo, la risposta fu categorica: “Guai a te se lo tocchi!”. Ed iniziò il suo racconto. Quando partì per la guerra nel taschino della divisa inserì l’immagine della Madonna dell’Aiuto e lì sul lato del cuore la lasciò fino al suo ritorno a “baita”. Per paura che si sgualcisse e si raggrinzasse l’aveva attaccata, in qualche modo, ad un bel pezzo di lamiera. Durante le operazioni belliche della Campagna di Russia fu raggiunto da una scheggia che avrebbe potuto porre fine alla sua vita ma riuscì miracolosamente a cavarsela grazie a quell’immagine con la lamiera che gli fece da scudo e che porta infatti al centro il segno di quel frammento. Nella convinzione di essere stato salvato proprio da quella Madonna infinite volte a Lei rivolse una preghiera, nei tanti momenti difficili e drammatici, posando una mano sul cuore.

Una mano sul cuore se la metteva quando nel freddo e nel gelo della Russia, non adeguatamente coperto come ubriaco fra tanti ubriachi sfiniti e in preda a terribili morse di fame, avanzava barcollando in quella distesa di neve disseminata dai corpi di coloro che stremati si erano purtroppo lasciati andare precludendosi la strada del ritorno a “baita”. In quella distesa di neve il cui candore era ovunque sporcato dal sangue di coloro che erano stati sfortunatamente colpiti e che mai avrebbero potuto rivedere i loro cari.

Una mano sul cuore se la metteva quando sparavano i cannoni, quando le pallottole fischiavano nell’aria e via via volti noti scomparivano dalla sua vista. Ma quei visi con i ricordi della condivisione di alcuni momenti, di alcune esperienze e di molte sofferenze sono rimasti nella sua mente lasciando un segno indelebile. I suoi racconti, che noi familiari frequentemente interrompevamo perché troppo impregnati di inaudite e scioccanti violenze, avevano la capacità di tenerci per notti e notti con gli occhi sbarrati.

Con il passare del tempo il rifiuto di tanta inspiegabile disumanità portò il papà a sostituire la rabbia e le lacrime con un’apparente freddezza frutto di una difficile e complessa elaborazione interiore che gli aveva permesso di rendere non certo accettabile ma sicuramente meno pesante quell’ingombrante fardello.

Una mano sul cuore se la mise quando, ormai certo di poter riabbracciare i suoi familiari e di aver finalmente riconquistato la libertà, fu catturato al Brennero dai tedeschi perché rifiutatosi, come molti altri, di continuare a combattere nelle file del loro esercito e fu internato, per circa due anni, nel campo STALAG 1-B nella Prussia orientale. Un lager in cui non furono riconosciute neppure le garanzie delle Convenzioni di Ginevra, in cui non poté godere delle tutele spettanti della Croce Rossa e in cui dovette subire ripetutamente angherie e ritorsioni da parte dei tedeschi.

Una mano sul cuore se la metteva quando, dopo lunghe giornate di lavoro dimagrito pieno di pidocchi e stanco, riceveva come unico alimento un po’di brodaglia con una pagnotta da dividere con sei compagni (praticamente poco più di un boccone a testa). Privato anche della gavetta neppure tale brodaglia avrebbe avuto la possibilità di avere ma, fortunatamente, un amico gli donò il coperchio della sua. Il coperchio però poco brodo poteva contenere e il papà aveva cercato di aumentarne la profondità picchiettando con un sasso ripetutamente il fondo con molta attenzione per non forare il prezioso contenitore che contribuiva a garantirgli la sopravvivenza.

Ci si doveva ingegnare in tutti i modi per riuscire a restare in vita. Aveva imparato con rapidità il tedesco e ciò lo aveva risparmiato da alcune ingiustificate e assurde punizioni. In quel luogo dove regnava la disperazione una fortuna il papà l’ebbe! C’era un tedesco privo dell’arto inferiore, perso durante un combattimento, che ogni giorno arrivava all’interno del campo dalla sua abitazione, collocata a pochi chilometri dal lager, sul suo carretto trainato da un cavallo. Il papà, quando gli era possibile, si avvicinava al cavallo lo accarezzava, gli sussurrava nelle orecchie e l’animale lasciava fare a quell’Alpino che gli dimostrava tanta affettuosità.

Il tedesco da una finestra lo aveva più volte osservato ed un giorno decise di portarsi il papà a casa affinché si occupasse dell’animale, del fienile nel quale poteva dormire e di altre faccende che lui, a causa della sua menomazione, non era più in grado di svolgere. Gli ordini impartiti dal soldato e anche dalla moglie venivano eseguiti con diligenza dal papà che così si guadagnò la loro fiducia tanto che gli fu concesso di trasferirsi per dormire dal fienile all’interno dell’abitazione in una cameretta e gli fu fornito anche cibo a sufficienza.

Ma la pacchia, se così si può definire una tale situazione, durò solo circa un mese e poi il tedesco fu costretto a riportare il papà all’interno del lager. Prima di partire la moglie gli mise all’interno di una scatola del cibo, ma arrivato nel campo fu preso a calci dai tedeschi e fu fatto cadere a terra e a terra finì tutto quel bendidio. Tutte quelle leccornie gli furono sequestrate e a lui rimase solo il segno delle percosse ricevute e null’altro.

Il papà aveva imparato così bene il tedesco che spesso a casa dal terrazzo quando vedeva passare per strada turisti, il cui abbigliamento e aspetto fisico lo inducevano a pensare fossero tedeschi, lo sentivi porre il solito quesito: “Sprechen deutsch?”. E quando la risposta era: “Ja” la lingua gli si scioglieva come non mai. Si aprivano dialoghi intercalati da spassose risate che si concludevano, talvolta, addirittura con una foto ricordo che gli veniva successivamente fatta pervenire.

Quale fosse il contenuto di tali conversazioni non ho mai avuto modo di comprendere però sentendolo così spigliato e così in grado di catturare l’attenzione dell’interlocutore riusciva sempre a strapparmi un grande sorriso. Tornato a casa aveva tolto quell’immagine a lui tanto cara dalla divisa e l’aveva riposta in quel portafotografie (che io non conoscendo tutta la storia che dietro si celava avrei voluto buttare nella spazzatura) e ogni sera prima di coricarsi alla Madonna si rivolgeva e una preghiera recitava non più posando la mano sul cuore perché Colei che lo aveva salvato era ora davanti ai suoi occhi e non era più custodita nel taschino della giacca che in molti non avrebbero mai voluto indossare e che per molti è stata l’ultimo abito della loro esistenza conclusasi tragicamente.







martedì 23 marzo 2021

L'ARMIR nella II battaglia del Don, parte 14

L'8 Armata italiana nella seconda battaglia difensiva del Don (11 dicembre 1942 - 31 gennaio 1943), quattordicesima parte.

VISIONE VICINA DEL RIPIEGAMENTO. Sin qui la visione panoramica che si ha della battaglia dall'alto di un virtuale osservatorio militare. Scendiamo, ora, al piano e guardiamo da vicino lo sterminato campo della tragica vicenda durante il ripiegamento. La steppa si presenta sotto l'aspetto più triste di desolazione e di morte. La temperatura tra i 35° ed i 40° sotto zero. Frammista a reparti, che pur mantengono una certa consistenza organica, una immensa fiumana di militari di tutte le armi e corpi, estenuata dal freddo e dalla fame procede verso ovest e verso sud-ovest attraverso campi, boschi coperti di neve, su strade ingorgate da carreggio, slitte, automezzi; premuta, attaccata, accerchiata, frazionata e deviata da carri armati, da elementi motorizzati, da cavalieri nemici. Sono uomini al limite di ogni umana resistenza, che una miracolosa forza sostiene e camminano, camminano come automi in colonne che sempre più si assottigliano avendo tre nemici mortali da combattere: il carro armato, il partigiano, il freddo. Contro i primi due, i più animosi si battono; di fronte al terzo, i più deboli soccombono.

Nella notte gelida, resa più tormentosa dall'implacabile bufera di neve molti cadono stremati di forze, si rialzano, fanno ancora pochi passi poi si fermano. Alcuni sono raccolti, altri si inginocchiano, pregano poi reclinano la testa: non occorre più raccoglierli. Suicidi e casi di pazzia completano il triste quadro. Le slitte sono stracariche di feriti e congelati, i quadrupedi si abbattono vinti dalla fatica; alpini, fanti, artiglieri si sostituiscono ad essi nel traino, ma ogni tanto qualche slitta deve fermarsi per non più muovere. E la fiumana si assottiglia, ma pur sempre imponente, procede nella sua marcia, inondando i villaggi dove le isbe rigurgitano di militari. Italiani, tedeschi, ungheresi, romeni si contendono a mano armata un posto al coperto per riposare e scaldarsi. Non di rado, nel trambusto violento, l'isba si incendia carbonizzando quelli che vi hanno cercato rifugio, impossibilitati ormai dall'intasamento a mettersi in salvo.

Man mano che si allontanano dalla pressione nemica i soldati perdono ogni parvenza militare. Molti si liberano delle armi, delle munizioni, delle bombe a mano per rendere meno faticosa la marcia. E qualche bomba esplode al passaggio di questo formicolaio umano: quasi non bastasse, nuove vittime vanno ad aggiungersi a quelle prodotte dal nemico, dal freddo, dall'esaurimento. Copricapi, giubbe della popolazione ucraina sostituiscono le uniformi lacere; stivaloni di feltro prendono il posto di scarpe a brandelli. Nelle soste, altri soldati, liberatisi dalla prigionia, senza cappotti, senza giubbe, e non pochi senza scarpe, tolto loro dal nemico per impedirne la fuga, con i piedi fasciati di paglia, raggiungono la marea umana e con essa tentano di proseguire la marcia. Passano così di casa in casa, di villaggio in villaggio ove la popolazione ucraina - per pietà, simpatia o per ordine ricevuto dalle autorità russe - è sollecita nell'alleviar sofferenze, offre da mangiare, vestire e possibilità di riposo.

In questo ambiente, che prevale nel quadro generale del grande rovescio militare nel quale fu travolta anche l'8a Armata italiana, ai reparti meno provati o ancora in pugno a comandanti energici toccò il duro compito di sostenere aspri combattimenti per aprire successivi varchi nei continui sbarramenti avversari, che i russi, informati dall'aviazione della direzione di marcia delle colonne e ben sapendo che le condizioni climatologiche imponevano di trascorrere la notte in paesi, si avvalevano di reparti motorizzati per precederle nell'occupazione degli abitati; ivi imponevano il combattimento mentre altre forze le attaccavano, più spesso sui fianchi che in coda, per spezzarle in tronconi che venivano poi sopraffatti o per lo meno scompaginati. Seguiamo le vicissitudini di un reparto come sono narrate in un rapporto: tutti si somigliano un po', quanto meno nel tormento.

«La colonna riprende la marcia. Dopo breve cammino l'avversario ci accoglie col fuoco di armi automatiche. La 2a e la 3a cp. si spiegano rapidamente e vanno decise all'attacco; i russi cedono terreno; ma appaiono presto i primi carri armati. in principio due carri leggeri che velocemente risalgono la rotabile in senso inverso al nostro movimento. I pezzi delle cp. cannoni prendono posizione sul lato sinistro della strada ed aprono il fuoco. Battoni i carri a brevissima distanza: li centrano, dalla torretta di essi si sprigiona, improvvisa e violenta, una fiammata che, simile ad una torcia, arderà a lungo illuminando di rossi bagliori fanti e cannonieri. La 2a e la 3a cp. guadagnano intanto terreno sebbene il crepitare delle mitragliatrici russe si vada facendo sempre più fitto e rabbioso. Nella notte buia la linea tenuta dal nemico è facilmente individuabile: le fiammelle delle sue armi ne punteggiano lo sviluppo; è evidente il tentativo di circondarci... Ben presto entrano in azione nuovi carri e questa volta si tratta di macchine imponenti per mole e armate di più mitragliatrici e provviste di cannone. A notevole velocità esse percorrono in su e in giù le strade e le piste provenienti da sud e mitragliano e cannoneggiano.

«La cp. cannoni, che ha seguito il movimento delle cp. fucilieri, prodiga il suo tiro. Si vedono i proiettili dei nostri 47/32 cogliere la corazzatura dei carri e rimbalzare arroventati in alto, verso il cielo, simili a razzi. Due carri vengono tuttavia immobilizzati, ma continuano a fare fuoco con le armi di bordo... La comparsa dei carri pesanti segna un momento d'arresto nell'azione; i nostri avanzano, ma sempre più penosamente e sempre più lentamente. Gli elementi di fanteria russa cedono terreno sfruttando abilmente ogni casa e ogni ostacolo per sbarrarci il cammino; il tempo passa veloce e lo slancio dei fanti tende ad appesantirsi; i cannonieri sono scorati; capi pezzi e puntatori si mordono le mani e piangono di fronte all'inutilità del loro fuoco. Ad aggravare la situazione ben presto la nostra prima linea urta contro una serie di carri pesanti fermi, appostati presso le case che falciano col tiro delle loro armi le nostre file: sono veri fortini contro i quali le armi di fanteria nulla valgono; tra carro e carro le mitragliatrici russe sgranano i loro colpi; di tratto in tratto, improvvisamente, un carro irrompe lungo la strada e le piste.

«A rendere la scena ancora più impressionante i carri con pallottole incendiarie appiccano metodicamente il fuoco ai tetti di paglia deve isbe, gli incendi illuminano a giorno il teatro del combattimento; ogni movimento dei nostri è visto e provoca violenta reazione di fuoco... I feriti, i caduti sono molti. Il combattimento tende a stabilizzarsi a tutto nostro danno. Sono manifesti i segni di scoramento e di sgomento. Le prime luci dell'alba stentatamente si fanno strada fra il fiammeggiare degli incendi che materializzano come torce giganti il cerchio che ci stringe da ogni parte. Se ogni ulteriore indugio può essere fatale un disperato tentativo di rompere la cerchia del nemico ha possibilità di riuscita? L'incertezza dura poco. All'ultimo "Avanti" il combattimento si riaccende violento; i russi sparano dalle case, dai carri e da ogni anfrattuosità del terreno; davanti a sui nostri fianchi crepitano le mitragliatrici, le pallottole frustano l'aria in ogni senso; chi può dire quanto sia durata questa corsa in avanti sorretta solo dalla volontà di sfuggire al nemico?

«Finalmente ci troviamo al di là dello schieramento avversario. Avanti il più rapidamente possibile verso sud-ovest evitando le strade. Si inizia, così, il nostro camminare alla bussola attraverso la steppa, fuori strada, sulla neve che talvolta ci sommerge fino al ginocchio, con temperature che oscillano fra 40° e 50° sotto zero, sorretti dalla disperata volontà di riprendere il nostro posto accanto ai nostri. Nevica e il vento gelido ci penetra fin nelle ossa. Siamo sfiniti, la sete che invano tentiamo sopire ingollando manciate di neve ci serra la gola! I più si muovono come automi ubbriachi, qualcuno si è buttato a terra supplicando di morire in pace. E' assolutamente indispensabile concedere qualche ora di riposo! ma dove? Nella steppa non c'è una casa, una pianta, un riparo pur che sia. Troviamo, infine, una balka piena di neve e ci sembra provvidenziale: se non altro saremo al riparo dal vento. All'"Alt", di schianto, gli uomini si buttano a terra nella neve e dormono; ma una vedetta veglia per tutti. La bufera che turbina sopra di noi, ci preservi da ogni sorpresa! E' la vigilia di Natale.

lunedì 22 marzo 2021

Ricordi, parte 15

E poi ci sono i giorni come questi un cui passi delle ore a riguardarti le fotografie che hai scattato in Russia e ti manca tutto di quei giorni; non vedi l'ora che finisca tutto questo, anche per tornare e rivedere la steppa e la neve e poter camminare per ore nel silenzio più assoluto in un mondo che è scollegato a quello in cui sei abituato a vivere.

Onori a Enrico Righetti

Ricevo dal Signor Ferruccio Burlando un ricordo del fratello della nonna, disperso in Russia; Enrico Righetti era nato a Genova il 13 aprile 1922 ed era inquadrato nell'89° reggimento di fanteria, prima compagna del primo plotone, matricola 22765. Questa la sua ultima lettera a casa, datata 15 dicembre del 1942:

"Russia 15 Dicembre 1942 - XXI
Miei cari, non posso descrivervi il grande freddo che fa qui, é una cosa che ti prende il cuore e te lo schiaccia, vi prego di mandarmi presto presto un paio di scarponi e calze di lana pesante, ne ho bisogno perché costì senza si può morire, le mie vecchie scarpe si sono spaccate e al momento non posso chiederne di nuove perché "Loro" arrivano in continuazione... ma io ed i miei amici siamo determinati a tener duro e a non farli passare, però l'inverno combatte contro di noi. Ti prego Giorgia mandami gli scarponi e le calze di lana te ne supplico perché senza non posso resistere ancora per molto. Mammina ti abbraccio e ti mando un bacio prega per me perché possa tornare ad abbracciarti ancora.
Vostro Enrico".

Enrico verrà dichiarato disperso il giorno 17 dicembre 1942.





venerdì 19 marzo 2021

Caro Abbondio...

In questa pagina racconto storie di uomini, storie ormai lontane, storie di soldati inghiottiti in quel buco nero che fu la Campagna di Russia; ho sempre avuto un rispetto assoluto per chi ha vestito una divisa, da qualunque parte è stato; ma in particolare per i nostri soldati impegnati in Russia. Ricordarli mi fa sentire bene... Ma non ci sono solo loro in tutta questa storia, anzi. Ci sono anche le persone che li hanno visti partire, li hanno aspettati per mesi o anni e, purtroppo in tanti casi non li hanno visti tornare.

La mia famiglia, in questo senso, è stata fortunata; non è stata toccata da questa tragedia. Ma ho conosciuto diverse persone in questi anni che al contrario hanno vissuto sulla loro pelle tutto questo; volevo da tempo dare spazio anche a questo aspetto che nei diversi viaggi è sempre emerso parlando con le persone che venivano con me... perché tutto questo in qualche modo me lo hanno sempre trasmesso e me lo sento sempre addosso. Lascio pertanto la parola a chi saprà meglio di me raccontare questa parte della storia...

Raccontare la storia della mia famiglia senza la presenza di Abbondio è come aver vissuto la nostra vita a metà, incompleta di gesti, di parole e di affetto. Oggi che in famiglia rimango solo io a testimoniare cosa significhi vivere con “un disperso” vi posso dire che non è un morto qualsiasi ma un’anima che non ha mai trovato pace tra i nostri pensieri nonostante il tempo ci abbia sedotto con il pensiero della morte come unico sollievo. Mi chiamo Silvia Ostinelli e sono la nipote di Abbondio Ostinelli, alpino comasco della Tridentina inquadrato nel glorioso Battaglione Morbegno e dato disperso il 26 gennaio 1943. Da quella data mia nonna vedova con tre figli sulle spalle cominciò a cercare notizie del figlio scomparso nonostante le difficoltà di quel momento.

La storia...

Nel dicembre 1941 mia nonno muore. Lo zio di stanza a Merano fa ritorno a casa per i funerali del padre. E’ l’ultima volta che vedrà la famiglia e la sua terra. Mio padre mi raccontò anni fa alcuni aneddoti di quel momento:

“Abbondio prima di ritornare in caserma, volle che lo accompagnassi sulle nostre montagne, quelle che si affacciano sul lago come faceva spesso quando era a casa. Mi disse: 'Questa terra sarà per me motivo di forza e speranza in Russia'.

Il 22 luglio 43 partì da Avigliana con il 5° Alpini per raggiungere le zone di guerra in Russia lasciando l’Italia per sempre senza voler rivedere nessuno di noi. - Il distacco sarebbe troppo doloroso per te cara mamma ed io non lo sopporterei- scrisse in una lettera.

Per i primi mesi e fino alla fine del 1942 arrivarono a casa le sue lettere in cui non si dilungava troppo nel raccontarci particolari ma ci rassicurava e ci spiegava che tutto il Battaglione Morbegno era sul Don aspettando che venisse buona. Dal gennaio del 1943 cessarono di arrivare notizie. Mia madre preoccupata non smise mai di sperare anche contro ogni evidenza di vederlo tornare e nella vecchiaia sperò con tutte le sue forze che di quel figlio tornassero almeno i resti o una parte di essi per poter sfogare il suo dolore su qualcosa. Credo che la cosa peggiore per lei fosse proprio questa: non avere una tomba su cui piangere il figlio.

Ricordo che per tanti anni continuò a recarsi a Como all’Associazione dei Dispersi per cercare di trovare almeno qualche indizio anche minimo che potesse far luce sulla sua fine. Già la sua fine… Ormai era chiaro che nostro fratello era morto ma poter ripercorrere i suoi ultimi giorni, anche sommariamente, sarebbe stato un sollievo per lei, un modo di essergli vicino ancora.”

Anche i fratelli risentirono in modo profondo la perdita di Abbondio. Il loro legame si era indebolito, qualcosa si era spezzato inesorabilmente, si erano persi tra di loro quando avevano udito circa la possibile fine del fratello, ossia la prigionia. Difficile da far capire a chi non ha provato sulla pelle i resoconti di guerra e di prigionia subiti da un figlio o fratello. Se non trovi una valida motivazione che giustifichi la fine, è facile perdere la testa. Ecco che allora la sua morte diventa il sacrificio, un simbolo che da valore a tutto il tormento con il quale abbiamo convissuto da sempre.

Mia nonna si spense con gli anni, la sua mente non accettava più la realtà, e lentamente perse la memoria per il troppo dolore, la perse per il quotidiano vivere ma non per Abbondio. In qualche modo aveva trovato la maniera per convivere con il suo ricordo. Per tutti gli anni che rimase viva scrisse ovunque per raccogliere informazioni sulla sorte dello zio ma tra tutte le lettere me ne resta in testa una in particolare che mandò al Comando Raccolta prigionieri italiani a Odessa che mi ha colpito per la gentilezza delle parole usate per descrivere un atroce dolore. Ne riporto uno stralcio.

“Spettabile Comando, oso presentarmi a Voi come una madre piena di ansia e di affetto verso il proprio figlio con questa mia supplica che chiede di dare al cuore di questa madre qualche vostro cenno di risposta…. Di Mio figlio, Abbondio Ostinelli, già alpino del 5° rgt alpini, battaglione Morbegno, 45° compagnia, Tridentina non ho avuto più notizie dal gennaio 1943. Le ricerche intraprese sono state vane. Spero però nella vostra bontà nell’intraprenderne altre e nel darci comunicazioni, che portino a noi, parenti ansiosi, un poco di quella serenità perché sfiniti e angosciati. Mentre attendo vostre, spero e credo che attraverso la vostra gentilezza di cuore, possa anch’io un giorno sentire il nome del mio caro figlio sano e salvo in una terra grande e ospitale”...

Si dice che il dolore provato dai genitori si iscriva sul DNA dei figli come memoria perenne dei vissuti, tramandata attraverso le generazioni. Ecco io penso di aver ereditato questo dolore, quello di mia nonna in particolare perché averla vista disperata un’intera vita, ha condizionato la mia, rendendomi poi consapevole in età adulta di quello che sarebbe stato il mio destino: ripercorrere la storia dello zio, andare in Russia e capire quello che gli era successo. Insomma ho sempre voluto dare una risposta alla nonna. E l’ho fatto, insieme a quel desiderio delirante e perenne di riportare a casa lo zio.

Quando torno a Como passando per l’autostrada laghi, godo sempre dello spettacolo straordinario che ogni volta la mia terra mi propone, il lago con le sue montagne e io lo ammiro con gli occhi dello zio, con il suo stesso stupore e la gioia che avrebbe avuto nel ritornare a casa. Per me vuol dire sentirlo accanto.

Abbondio, muore molto probabilmente in un lager del Pahta Aral nel odierno Kazakhstan come tanti altri suoi commilitoni. Ogni volta che lo immagino morente in piena solitudine pensando a noi, riesco a vedere i suoi occhi. E simbolicamente mi sdraio vicino a lui e gli tengo la mano. Lui non è morto ma vive attraverso di me.

Silvia Ostinelli
Como



giovedì 18 marzo 2021

Immagini, il fronte del Don

Tratto del fronte sul Don, tenuto dai reparti tedeschi prima di cederlo alle truppe italiane.

La guerra sul fronte orientale, parte 1

Senza altra finalità se non quella della condivisione storica e militare, pubblico questo primo video sugli orrori della guerra in generale e sul fronte orientale in particolare.

L'ARMIR nella II battaglia del Don, parte 13

L'8 Armata italiana nella seconda battaglia difensiva del Don (11 dicembre 1942 - 31 gennaio 1943), tredicesima parte.

IL RIPIEGAMENTO DEL CORPO D'ARMATA ALPINO E DEI RESTI DEL XXIV CORPO D'ARMATA.

Sganciatosi sul Don dal contatto frontale col nemico il C.A. alpino - che è costretto ad abbandonare tutte le artiglierie di medio calibro per mancanza di carburante - muove dapprima su larga fronte verso la ferrovia Rossosch-Jewdakowo prima linea di attestamento fissata; successivamente prosegue con movimenti convergenti intesi a costituire colonne di G.U. e ad avvicinarle fra loro perché possano prestarsi reciproco appoggio nell'azione di rottura dell'accerchiamento già in atto. Il C.A. alpino avrebbe dovuto effettuare il ripiegamento in stretto accordo e contatto, a nord, con le truppe ungheresi; ma tale collegamento è reso, sin dall'inizio, impossibile a causa dell'avvenuto arretramento delle truppe suddette in parte travolte.

Alle dipendenze del C.A. alpino viene posto il pressoché inesistente XXIV C.A. Cr. germanico: le sue divisioni, 385a e 387a, sono infatti ridotte a brandelli; esso dispone in tutto di 4 carri d'assalto, 2 semoventi, qualche pezzo di artiglieria ed una btr. di Katiusche. Questi resti - pochi, ma tuttavia preziosi - si uniranno al C.A. alpino col quale lotteranno per aprirsi un varco attraverso le linee avversarie. Al C.A. alpino, a Podgoronje, si accoderanno anche i carriaggi delle due divisioni: innumerevoli slitte ed impedimenta attorno alle quali sono circa 10.000 soldati germanici che seguiranno le colonne in ripiegamento; ma trascurabile sarà l'apporto in combattimento di tale massa di uomini alla quale si unirà, pochi giorni dopo, altrettanta truppa disarmata ungherese proveniente, in parte, da colonne di prigionieri liberati.

Il 18 gennaio, la D. «Tridentina» e la «Vicenza» lasciano la linea del Don senza difficoltà. La «Julia» e la «Cuneense» invece devono sostenere azioni di retroguardia. Il giorno 19, hanno inizio da parte della D. «Tridentina» i primi combattimenti, a Postojalyi e Skororyo, per l'apertura di un varco. L'indomani tutte le unità attaccano le forze nemiche che si oppongono a Postojalyi al movimento e, dopo aspri combattimenti ed a prezzo di gravi sacrifici, riescono a superare lo sbarramento. L'intervento della «Julia» e l'apporto dato dai battaglioni e gruppi della «Cuneense» contribuiscono notevolmente alla salvezza della colonna principale del C.A. che, già duramente impegnata di fronte e sul fianco destro, avrebbe altrimenti dovuto sostenere l'attacco di ingenti forze russe anche sulla sinistra. Ma sia lo sviluppo delle nostre azioni, che un attacco nemico con mezzi corazzati provenienti dal fronte ungherese nella zona di Opit (sede dei comandi di C.A. alpino e XXIV), che riesce fra l'altro a distruggere tutte le stazioni radio, portano al frazionamento delle forze del C.A. non più collegate fra di loro. Restano: - a nord: i comandi del C.A. alpino e del XXIV e la D. «Tridentina»; - a sud: le divisioni «Julia», «Cuneense» e «Vicenza» ed un'aliquota del XXIV C.A.

Il 21, con tempo avverso, freddo e tormenta, la colonna prosegue nel movimento da N. Charkowka su Krawzowka, che viene occupata dopo violento combattimento, e quindi, per Scheljakino, su Ladomirowka. Il nemico ha, però, disposto un secondo sbarramento fortemente presidiato sulla linea Olichowatka-Warwarowka, tendente a chiudere definitivamente le unità superstiti. La D. «Tridentina» deve, il 22, combattere aspramente a Scheljakino per aprire la strada a sè ed alla colonna sud che avrebbe dovuto seguirla nella breccia, ma di cui il C.A. non ha più notizie. In serata è raggiunta Ladomirowka dove affluiscono elementi sparsi delle divisioni «Julia», «Cuneense», «Vicenza». Alla sera del 22, tutti gli elementi superstiti del C.A. sono così incolonnati sullo stesso itinerario della «Tridentina». Le autorità tedesche affermano che le unità vengono aviorifornite. Sono riforniti, invero, solo i tedeschi che difendono i viveri armi alla mano. Il 23, il movimento prosegue su Nikolajewka dove la colonna sostiene un combattimento contro partigiani e regolari. L'indomani, superata altra resistenza a Malakijewa, la colonna prosegue in direzione di Nikitowka che raggiunge il 25.

In tale zona l'avversario ha predisposto una terza linea di sbarramento, sicché alle ore 2 del 26 la testa della colonna viene attaccata da notevoli forze (un btg. di ftr. anticarro con numerose armi automatiche) allo sbocco dell'abitato. Il nemico è respinto e lo sbarramento superato. Vengono catturati nell'azione numerosi mortai ed armi automatiche nonché 4 cannoni che gli alpini successivamente sono costretti ad abbandonare per l'impossibilità di trasporto. Lo stesso giorno, alle ore 12, ha inizio l'attacco contro Nikolajewka (da non confondersi con l'altra località dello stesso nome sopramenzionata) difesa da rilevanti forze (successivamente accertate in una divisione) appoggiate da numerose artiglierie e dall'aviazione, Nell'azione, che dura sino all'imbrunire, viene impegnata ogni risorsa per superare la resistenza. L'attacco sferrato, col concorso di carri d'assalto tedeschi, su uno dei quali prende posto il comandante della D. «Tridentina», ottiene un primo risultato con l'azione del 6° rgt.: la ferrovia è superata; sopraggiungono i reparti del 5°. Ufficiali validi di tutte le armi e specialità riuniscono gli elementi non inquadrati ancora in grado di combattere, li raccolgono in formazioni improvvisate e tutti, uniti in un supremo sforzo, rompono lo sbarramento: la città viene occupata. Catturati e distrutti 24 pezzi di m. c. nonché munizioni di mortai. Dolorose le perdite fra le quali sono oltre 40 ufficiali. Fra i caduti è il generale Martinat, capo di S.M. del C.A.

Sopraffatto il nemico a Nikolaiewka, si riprende la marcia ed il 27, con estenuante fatica, viene raggiunta Uspenka. Il 28 poiché la D. ungherese che doveva difendere Nowij Oskol è stata costretta a ripiegare, il comando Armata ordina che la colonna dirotti da Olchowyi in direzione di Woltschansk, in modo da sottrarla alla minaccia da nord, e provvede a far affluire autocolonne di rifornimenti verso tale località. La colonna giunge, quasi stremata, in giornata nella zona di Slonowka. E' durante questa marcia, quando ormai la meta si può dire raggiunta, che si debbono far saltare i pezzi per l'impossibilità di continuarne il trasporto. Il 29, ritardate e non chiare comunicazioni radio germaniche fanno si che la colonna, anziché dirigersi verso sud-ovest, si metta in marcia su Morosowa Balka. A mezzo apparecchio «cicogna» viene dirottata su Bolsche Troizkoje ove, il 30, incontra, finalmente, la colonna viveri e quella sanitaria. Qui si fermano gli italiani e vengono fatti proseguire tedeschi e ungheresi. Il giorno successivo i resti del C.A. alpino si raccolgono a Schebekino dove finalmente, possono essere ristorati, dopo un percorso di circa 350 chilometri e dopo aver sostenuto 13 combattimenti.

A Schebekino sostano tre giorni. Durante la sosta vengono sgomberati su Charckow 7571 tra feriti e congelati. Con la colonna sono sfuggiti all'accerchiamento oltre ai feriti ed ai congelati spedalizzati; 6.500 uomini della «Tridentina», 3.300 della «Julia», 1.600 della «Cuneense», 1.300 della «Vicenza», 880 del C.A. e suoi servizi, 8.000-9.000 tedeschi, 6.000-7.000 ungheresi. Gli alpini nel loro sforzo furono sorretti dalla volontà di uscire dalla cerchia ad ogni costo. Epperò i loro attacchi furono tenaci, i feriti seguirono la colonna senza un lamento e i congelati camminarono sempre. Non diversa, forse più tragica, fu la sorte dei piccoli reparti sparsi nelle impervie zone di retrovia del Corpo d'armata e dei presidi minori che, privi di comunicazioni, furono sorpresi dalla rapida avanzata russa. Sono altri 6.000 elementi che, guidati talvolta da ufficiali, talvolta da sottufficiali, affrontando disagi, pericoli e tormenti fisici e morali, seppero passare attraverso gli sbarramenti avversari.

Ad eccezione delle notizie frammentarie date da soldati ed ufficiali che hanno potuto ripiegare, nulla finora è possibile dire circa le vicende complessive delle divisioni «Julia», «Cuneense» e «Vicenza»: tutti parlano di duri combattimenti specie di carri armati. Sono fra i prigionieri i comandanti delle tre divisioni (la D. «Julia» i cui resti il 22 erano in zona Scheljakino pare che a tale data sia da ritenersi annientata. La notte sul 23, fra Scheljakino e Warwarowka è stato catturato il comandante. L'itinerario Scheljakino-Warwarowka è stato seguito anche dai resti delle divisioni «Vicenza» e «Cuneense». Elementi della «Vicenza» affiancati a reparti tedeschi si sarebbero diretti verso ovest il 24 con meta Waluiki. Non se ne avranno più notizie. La «Cuneense», duramente provata e scompaginata nell'attraversamento di Scheljakino e Warwarowka, accorsa al richiamo del cannone su Malakijewa (24 gennaio). Durante la sosta notturna in Derkupskaja sarebbe stata circondata da ingenti forze corazzate russe).

I COMBATTIMENTI NELLE VALLI DEL DERKUL, DELL'AJDAR E DEL KRASSNOJE.

Nel settore meridionale dell'Armata dal 16 al 31 gennaio, con forze tedesche affluenti da tergo, viene contenuto l'avversario che, raggiunta la zona di Waluiki, tende a procedere verso nord-ovest, ovest e sud-ovest. In questo periodo, sino a quando il comando Armata ha assolto compiti operativi (31 gennaio), hanno agito sull'ala meridionale dell'Armata alcuni reparti italiani con particolari compiti, che si inquadrano in quello più vasto della protezione della direttrice di Charkow. In particolare: - a Belowodsk (valle Derkul): il XXVI btg. CC.RR. ed elementi minori, per la difesa di tale importante località che sbarra la via su Starobolosk; - a Starobolosk (valle Aidar): il XXVII gr. art. compl., un gruppo del 4° contraerei, il XXVI btg. artieri, il rep. speciale art., una cp. del 450° btg. TM, una cp. lavoratori, una cp. genio guastatori, una cp. idrici, una cp. artieri ed elementi minori, per la difesa della città e la protezione della ferrovia; - a Kupjansk (settore Krassnoje): il XXVI btg. CC.RR., un btg. bers. di formazione, il XXXV gr. ost. c. a. ed elementi minori, per lo sbarramento della rotabile Waluiki-Kupjansk e la difesa della città.

Alle ore o del I° febbraio, non essendovi ormai più in linea truppe italiane, l'autorità superiore germanica stabilisce che l'Armata ceda il comando del settore al gruppo Lanz e raggiunga la zona di riordinamento delle proprie truppe (nord-est di Kiew) per regolarne più da vicino i movimenti in corso ed i provvedimenti relativi al riordinamento.



Il processo D'Onofrio, parte 3

Il processo D'Onofrio, terza parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.

LA SECONDA UDIENZA.

Dopo una settimana di sospensione, il processo è ripreso il 23 maggio 1949 con la deposizione dell’ultimo imputato, Ivo Emett, tenente degli alpini, caduto prigioniero il 27 gennaio 1943, nei pressi di Valuiki. Dopo un viaggio estenuante a piedi, senza cibo né acqua, i prigionieri furono chiusi nel campo di Tamboff. Le condizioni fisiche di tutti erano terribili. Conferma i casi di cannibalismo. Un giorno arrivò una signora italiana: la signora Torre.

Emett: 'Credevamo che fosse venuta in nostro aiuto e invece a qualcuno che le domandava un pezzo di pane chiese in compenso quei pochi gioielli, quella poca roba di valore che il prigioniero era riuscito a salvare'.

Venti ufficiali italiani, fra i quali l'Emett stesso, furono trasferiti al campo di Oranki. Giunsero estenuati. Due medici italiani che si trovavano in quel campo, il prof. Ioli e il dott. Reginato, fecero miracoli per i malati. Usavano coltelli da cucina per gli interventi chirurgici ma come medicina, oltre al permanganato, non potevano dare che il loro conforto.

L'Emett appena dimesso dall'ospedale venne interrogato dal commissario Fiammenghi. Il colloquio fu dei più estenuanti. Si volle sapere il perché della sua presenza in Russia, del suo nome che tradiva l'origine inglese, della sua iscrizione al partito fascista o meglio al Guf, come tutti gli studenti delle università italiane.

Nel convalescenziario di Skit (uno scantinato dove gli ammalati, anziché guarire, peggioravano) l'Emett trovò che si era costituito un gruppo di ufficiali marxisti i quali ricevevano uno speciale trattamento di favore.

Emett: 'Un giorno all'aperto vidi degli ufficiali che si riunivano. D'Onofrio rivolgeva loro la parola. Rimanendo sdraiato dove mi trovavo, a qualche metro dalla riunione, sentii che il «cospiratore» proponeva agli ufficiali di inviare un appello al governo Badoglio, per invitarlo a non continuare la guerra. Sentii il cap. Magnani rifiutarsi a nome di tutti di firmare, prospettando la inopportunità del proclama non soltanto dal punto di vista politico ma della disciplina militare. Quasi tutti i presenti applaudirono a lungo il capitano e allora il D'Onofrio ordinò che l’adunata fosse sciolta e che rimanessero soltanto quelli che facevano parte del cosiddetto gruppo antifascista, ossia comunista. Rimasero una quindicina.

D'Onofrio venne poi da me, qualche giorno dopo, in ospedale e mi chiese di firmare l'appello. Rifiutai. M'accusò di essere fascista e aggiunse che dovevo cambiare idea. Replicai che le mie non erano idee politiche. Ero un ufficiale e come tale non potevo e non dovevo interessarmi di politica. Il colloquio finì alla maniera di tutti gli altri: con le solite minacce di dimissioni dall’ospedale, il che per me, in tali condizioni di depressione fisica e psichica, significava morire'.

Due ore è durata la deposizione del ten. Emett e con essa s'è chiuso questo primo capitolo della raccapricciante narrazione dei reduci.

Ha inizio la deposizione del sen. D'Onofrio. Il querelante, confermata la querela e riservatosi di produrre il settimanale 'L'Alba' stampato per i prigionieri di Russia, spiega al tribunale il perché della sua azione.

D'Onofrio: 'Io ho ravvisato negli articoli offesa alla mia persona, come comunista e come italiano. Ciò perché ho sempre difeso gli interessi del mio paese: in Italia come in Russia'.

Presidente: 'È vero che lei procedeva ad interrogatori nel modo come hanno detto gli imputati?'.

D'Onofrio: 'Non ho mai tentato di convincere altri alle mie idee usando imposizioni e minacce'.

Il senatore comunista accennando alla polemica avuta nel febbraio 1948 con il giornale romano 'Risorgimento Liberale' che pubblicò degli articoli contro la sua attività antitaliana in Russia, ha detto che in quell'occasione non si querelò, perché il direttore del giornale pubblicò regolarmente tutte le lettere di risposta, per cui la questione rimase negli stretti limiti della polemica politico giornalistica.

D'Onofrio: 'Ma durante la campagna elettorale viene fuori quel libello (il numero unico 'Russia') nel quale ricorrono chiaramente gli estremi dell’oltraggio. L'accusa fattami, di violenze o minacce, è assolutamente falsa, in quanto non si possono infondere con quei mezzi idee politiche, ma soltanto con una assidua opera di persuasione. Il fatto è che al fondo di tutta questa storia c'è una ragione politica. Perciò sono lieto di poter esporre al Tribunale quegli episodi che, pur essendo ormai di dominio pubblico, vanno posti nella loro vera luce'.

Dopo questa premessa il sen. D'Onofrio è entrato nel vivo della questione cominciando con l'affermare che la cifra di 80 mila prigionieri in Russia è esagerata. Dalle dichiarazioni degli stessi prigionieri essi sarebbero stati non più di 10 o 12 mila. Secondo studi effettuati dagli Stati Maggiori, l'Armir avrebbe perduto 84 mila uomini e in questa cifra vanno compresi naturalmente oltre quelli catturati dai russi, i morti e i feriti. Ora, giacché l'URSS ha restituito all’Italia 12 o 13 mila prigionieri, va da sé che la differenza che manca è data dal numero dei caduti.

La responsabilità di un cosi elevato numero di morti, secondo D'Onofrio, è tutta dei capi che non furono capaci di organizzare una resa che avrebbe salvato tante vite.

A questo punto il pubblico che fino ad allora aveva assistito silenziosamente e compostamente al dibattito, reagisce alle dichiarazioni del senatore con vivaci mormorii di disapprovazione, tanto che il Presidente è costretto ad intervenire per ristabilire il silenzio nell'aula. Ma prima che torni la calma, qualcuno, che non è possibile identificare, nella folla grida: 'Allora non è morto nessuno nei campi di concentramento?'.

Avv. Taddei: 'Sicché la Russia avrebbe restituito all'Italia più uomini di quanti non ne avesse catturati!'.

Ma D'Onofrio non raccoglie l'insinuazione della difesa, e prosegue nella sua esposizione dei fatti, scagionando la Russia da ogni diretta responsabilità nelle morti dei soldati.

D'Onofrio: 'Era inevitabile che i prigionieri fossero sottoposti ad una vita di grandi disagi specialmente quando venivano trasferiti. Le condizioni della Russia, causa la guerra, non consentivano viaggi agevoli. Quindi le sofferenze durante tali viaggi non possono essere attribuite a malevolenza da parte russa. Quanto ai casi di malattia e alle epidemie tra i prigionieri, si trattava di malattie di cui i prigionieri stessi erano già affetti prima ancora della cattura. Quanto alla mancanza dell'acqua era anche essa inevitabile, perché in certe zone l’acqua mancava completamente e la stessa popolazione civile ne era priva. Per tornare ai trasporti è vero che i trasferimenti venivano effettuati su carri bestiame ma quelli russi sono più grandi di quelli usati in Italia e nella parte centrale di essi era stata sistemata una stufa, cosicché i prigionieri potevano godere di un minimo di comfort'.

Questa ultima dichiarazione di D'Onofrio suscita un fragoroso scoppio di ilarità e il presidente è costretto per la seconda volta a richiamare il pubblico al silenzio.

Dalla deposizione del senatore comunista si apprende che le condizioni dei prigionieri andarono sempre più migliorando. Nel settembre del 1943 la razione di un ufficiale prigioniero, ad esempio, sarebbe stata così composta: 300 grammi di pane bianco; 300 grammi di pane nero; 10 grammi di farina; 100 grammi d'orzo; 200 grammi di pasta; 75 grammi di carne; 80 grammi di pesce; 40 grammi di burro; 40 grammi di zucchero; 10 grammi di olio; 10 grammi di frutta fresca; 400 grammi di patate; 190 grammi di verdure.

Nuova eccitazione fra i presenti, a stento frenata dal Presidente, quando la Russia viene additata come una nazione amica.

Costretto a fuggire dall’Italia per le persecuzioni fasciste, D'Onofrio passò prima in Francia e di lì in Spagna dove combatté nelle file antifranchiste. Nel 1939 accompagnò in Russia un gruppo di reduci dalla guerra di Spagna e quando stava già per tornare indietro fu sorpreso dallo scoppio del secondo conflitto mondiale. Rimase perciò in Russia.

D'Onofrio: 'Ero convinto che la guerra voluta dai fascisti non dovesse continuare. Ma da ciò non si deve dedurre che io fossi un disfattista. Io ho sempre sostenuto l’urgenza di una uscita dell’Italia dal conflitto, prima che venisse la disfatta. Mi ripromettevo di elevare la coscienza democratica dei prigionieri attraverso una costante opera di persuasione e di convinzione: mi proponevo di unire tutti i nostri prigionieri su questa base politica.

Prima del 25 luglio 1943 tenni nel campo di Oranki e in quello di Skit due conferenze. E in ambedue le manifestazioni ricevetti le congratulazioni e l’applauso di tutti i presenti. Lo stesso cap. Magnani, nel campo di Skit, manifestò il suo entusiasmo dicendo che era la prima volta che in Russia sentiva parlare un vero italiano. Parlai poi, tra i prigionieri, del settimanale 'L'Alba' che doveva essere diffuso nei vari campi di concentramento e molti avanzarono proposte sul come tale giornale avrebbe dovuto essere fatto.

Gli aderenti ai gruppi antifascisti non avevano un trattamento migliore degli altri. L'adesione a tali gruppi era assolutamente volontaria e chi vi faceva parte era spinto da convinzione personale e non da tornaconto'.

A questo punto il querelante fa presente al tribunale che dovrà parlare ancora per due ore almeno. Sono già le 13,30: l'esposizione dura ormai da quattro ore. Il Presidente decide allora di rinviare a domani la prosecuzione del dibattito.

LA TERZA UDIENZA.

24 maggio 1949. Il seguito della deposizione del sen. D’Onofrio, si protrae per tutta l'udienza odierna concludendosi con un vivace incidente fra gli avvocati della difesa e quelli di parte civile. Il querelante ha esordito smentendo di avere assunto in Russia lo pseudonimo 'Edo'.

Presidente: 'Ci parli delle sue conferenze con i prigionieri'.

D'Onofrio: 'Nei primi giorni dopo il mio arrivo al campo di Oranki ebbi alcune conversazioni singolarmente con gli ufficiali internati, soprattutto con quelli che costituivano il gruppo antifascista. Ma poi volli parlare con tutti gli ufficiali, molti dei quali avevano sollecitato questi colloqui'.

Presidente: 'Chi era presente a queste conversazioni?'.

D'Onofrio: 'Quasi sempre si svolgevano tra me e l'ufficiale senza la presenza di terze persone. Solamente qualche volta assistette alle conversazioni il magg. Orloff. La porta delle baracche, ove esse si svolgevano, era sempre aperta e non fu mai redatto alcun verbale, in alcuna lingua, di quanto si diceva nel corso di quelle conversazioni. La mia era, dunque, una semplice inchiesta giornalistica che mi doveva servire per i miei discorsi e per gli articoli da stampare sul settimanale 'L'Alba'. Gli ufficiali mi erano presentati dall’istruttore politico Fiammenghi'.

Presidente: 'Era presente il Fiammenghi alle conversazioni?'.

D'Onofrio: 'Solo qualche volta. Escludo che io o il Fiammenghi, o il magg. Orloff (il quale non è vero appartenesse alla polizia di Stato sovietica ma era soltanto ufficiale di amministrazione) abbiamo mai scritte in precedenza domande o risposte che avrebbero costituito l'oggetto delle conversazioni'.

Il D'Onofrio nega di aver minacciato, in un incontro personale, il ten. Ioli, che, a suo dire, faceva nel campo attiva propagando fascista, e di averne provocato l'invio in un campo di punizione. Ma non può contestare, che lo Ioli fosse in realtà gravemente punito e allontanato. Il senatore comunista dice di aver scritto su 'L'Alba' un ordine del giorno che costituirebbe un inno di italianità, di compiacimento per la caduta del fascismo e per il nuovo governo Badoglio, approvato all'unanimità. Inesistente quindi, a suo dire, l'appello antigovernativo e rivoluzionario. Inizia il serrato fuoco di fila delle domande, rivolte dagli avvocati, tramite il Presidente.

Avv. Taddei: 'Quale era la posizione giuridica degli italiani emigrati in Russia?'.

D'Onofrio: 'Io ho sempre mantenuto la cittadinanza italiana, in Francia, come in Spagna, come in Russia'.

Avv. Taddei: 'Perché, allora, mentre l'Italia era in guerra con l'U.R.S.S. lei circolava liberamente in Russia?'.

D'Onofrio: 'Non ritengo necessario rispondere a questa domanda'.

Avv. Paone: 'Qui si vuole fare il processo all'antifascismo. La domanda non è pertinente alla causa'.

Avv. Taddei: 'Spieghi, il sen. D'Onofrio, come mai il tenente Amadeo, fucilato nel 1943, poté far pervenire per radio notizie alla sua famiglia ancora nel 1946'.

D'Onofrio: 'Non conosco questo fatto specifico. Quel che posso dire è che tutti i messaggi venivano ammassati da Radio Mosca che li trasmetteva a gruppi; non è quindi escluso, dato il gran numero di essi, che alcuni potessero esser trasmessi con ritardo'.

Avv. Taddei: 'Il querelante, sa che contro qualcuno dei prigionieri italiani da lui interrogati, è stato celebrato in Russia un procedimento penale?'.

D'Onofrio: 'No. Non mi risulta... D'altra parte non ho mai fatto indagini in proposito'.

Avv. Taddei: 'Certi Danilo Ferretti e Fidia Gambetti, facevano parte del gruppo antifascista?'.

D'Onofrio: 'Sì. Li conobbi ambedue. L'uno e l'altro mi confermarono la loro fede fascista ma poi mutarono radicalmente le loro idee. Il Ferretti diventò collaboratore de 'L’Alba'.

Avv. Mastino Del Rio: 'Infatti... prima era capo della stampa e propaganda del fascismo e poi...'.

La frase dell’avvocato della difesa provoca un vivace incidente fra i patroni delle due parti e il pubblico, come al solito numeroso, sottolinea il battibecco con lunghi mormorii e con segni evidenti di nervosismo sicché il Presidente ritiene opportuno rinviare la udienza a domani.