martedì 9 marzo 2021

Il processo D'Onofrio, parte 2

Il processo D'Onofrio, seconda parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.

LA QUERELA PRESENTATA DA EDOARDO D'ONOFRIO.

Ill.mo Sig. Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di ROMA.

È stato in questi giorni pubblicato e viene diffuso in migliaia di copie, sotto il nome "Russia", un cosiddetto numero unico, a cura dell’U.N.I.R.R. (Unione Nazionale Italiani Reduci di Russia) nel quale, a caratteri di scatola, si leggono all'indirizzo di alcuni cittadini italiani e fra essi il sottoscritto Edoardo D'Onofrio, espressioni come le seguenti: "rinnegati postisi a servizio della polizia sovietica, aguzzini" (dei nostri prigionieri dell'Unione Sovietica).

Inoltre in un articolo stampato in grassetto e sotto il titolo: "Edoardo D'Onofrio", si accusa il sottoscritto di avere fra l'altro nei campi di concentramento di Oranki e di Skit, sottoposto ad estenuanti interrogatori dei prigionieri italiani detenuti in quei campi, e ciò alla presenza di un ufficiale dell'N.K.V.D.; che non si trattava di semplici conversazioni politiche come D’Onofrio vorrebbe far credere, ma di veri e propri interrogatori durante i quali veniva messo a verbale quanto il prigioniero rispondeva; che immediatamente dopo la visita di D'Onofrio in quei campi, alcuni dei prigionieri italiani che in quei giorni erano stati sottoposti ad interrogatorio furono allontanati e rinchiusi in campi di punizione; che simili procedimenti avevano il duplice scopo di far crollare prima con lusinghe e poi con esplicite minacce (non tornerà a casa; lei non conosce la Siberia? Allusioni alla famiglia, carcere e simili) la resistenza fisica e morale di questi uomini.

Questo articolo, o dichiarazione che sia, risulta sottoscritto da Domenico Dal Toso - Luigi Avalli - Ivo Emett ecc.

L'essenza e il fine diffamatori di tali pubblicazioni per le espressioni adoperate e per gli addebiti specifici sono palesi e non v’è bisogno di illustrarli, tanto più quando siano messi in relazione col fatto che, precedentemente, il sottoscritto in una polemica sulle colonne di "Risorgimento Liberale", aveva già posto in chiaro la vera natura e la portata democratica e patriottica della propaganda antifascista e antitedesca che il sottoscritto svolse nei suoi contatti coi prigionieri italiani nell'Unione Sovietica, prima e dopo l’8 settembre 1943, propaganda che si svolse all'infuori di qualsiasi ingerenza della polizia sovietica, a servizio della quale, contrariamente alla calunniosa accusa di cui sopra, il sottoscritto non è mai stato.

Del resto l'indole dell’attività politica e propagandistica del sottoscritto sui suoi rapporti con i suoi connazionali, in quel tempo prigionieri nella Unione Sovietica, è consegnata nella collezione del giornale "L'Alba" che sarà esibita, al fine di contribuire all’accertamento della verità. Pertanto il sottoscritto, costituendo le pubblicazioni in parola il reato di diffamazione in suo danno a mezzo della stampa, sporge formale querela, facendo istanza per la punizione dei sigg.:
1) Giorgio Pittaluga, che figura come Direttore della pubblicazione;
2) Ugo Graioni, il cui nome è a sua volta indicato come redattore responsabile;
3) Domenico Dal Toso;
4) Luigi Avalli;
5) Ivo Emett;
quanto agli altri tre, e a chiunque altro ne debba rispondere, limitatamente all’articolo pubblicato a pagina 7, sotto il titolo "Edoardo D'Onofrio".

Relativamente al Pittaluga, direttore, e al Graioni, redattore responsabile, sembra al sottoscritto che, entrambi, e non soltanto il Graioni, debbano rispondere di diffamazione a mezzo della stampa, sia perché trattandosi di pubblicazione non periodica, tutti e due devono considerarsi coautori della pubblicazione stessa, e sono quindi punibili ai sensi dell’art. 57 Cod. Pen., sia perché la figura del redattore responsabile, secondo la recente legge sulla stampa, è stata soppressa, risalendo, in ogni caso di pubblicazioni periodiche, la responsabilità allo stesso direttore.

Con riserva di indicare testimoni o di produrre documenti nonché di costituirsi parte civile, il sottoscritto concede ai querelati la più ampia facoltà di prova in ordine agli addebiti come sopra mossigli.

Elegge infine il proprio domicilio in Roma, via Giosuè Carducci n. 2, presso l’avv. Mario Paone, che delega per tutti gli adempimenti relativi alla presente querela.

Salvo ogni altro diritto. Con osservanza. EDOARDO D'ONOFRIO.

I PROTAGONISTI DEL PROCESSO.

Presso il Tribunale penale di Roma - Sez. X - Aula della 1a Sezione della Corte d'Assise.

Presidente del Collegio: Dott. Vincenzo Carpanzano.
Pubblico Ministero: Dott. Pietro Manca.

I comunisti.
Querelante: Sen. Edoardo D'Onofrio.
Rappresentanti della Parte Civile: Avv. Mario Paone e Avv. Prof. Giuseppe Sotgiu.

I reduci di Russia.
Imputati: Ugo Graioni, Giorgio Pittaluga, Ivo Emett, Domenico Dal Toso, Luigi Avalli.
Collegio di difesa: Avv. Mastino Del Rio e Avv. Rinaldo Taddei.
Imputazione: diffamazione a mezzo stampa di cui agli art. 595 cod. pen. e 13 l. 8 febbraio 1948 n. 47.

LA PRIMA UDIENZA.

Palazzo di Giustizia di Roma - Lunedì 16 maggio 1949.

La tragedia dei nostri soldati in Russia aveva bisogno di una cornice più vasta che non fosse la solita, piccola aula dove quotidianamente i magistrati amministrano giustizia. Per questo, forse, è stato deciso che il giudizio si tenga nell’aula della 1a Sezione della Corte d'Assise; la stessa, per la cronaca, nella quale per sette mesi si svolse il processo a carico dell’ex Maresciallo d'Italia, Rodolfo Graziani.

Ore 9,10 precise: entra il tribunale. Tutti gli imputati sono presenti al loro banco. D'Onofrio, invece, siede ad un tavolo situato al centro del pretorio. La parte dell'aula riservata al pubblico è affollatissima. Curiosità? No! Non è la morbosa curiosità che porta le folle sotto le gabbie e i plotoni di esecuzione. Sono reduci che vogliono rivivere le sofferenze trascorse, attraverso il racconto, che qui dentro si andrà facendo, della loro triste odissea; sono soldati che sperano di ritrovare il commilitone perduto; sono spose, madri, sorelle, fidanzate, amici di chi non è più tornato; è una folla sulla quale il tempo è passato senza riuscire a lenire dolori e sofferenze. È l'Italia che piange ì suoi figli perduti e si erge severa e solenne contro i traditori della patria e della civiltà.

Breve e precisa, la messa a punto del 'responsabile' del numero unico 'Russia', Giorgio Pittaluga, dà il via al dibattito, dopo che il Presidente ha dichiaralo aperta l'udienza. Egli permise la pubblicazione dell’articolo riguardante il sen. D'Onofrio perché ebbe assicurazione dagli autori stessi che tutti i fatti specificati nello scritto erano perfettamente rispondenti alla realtà. Si trattava di un riferimento obiettivo senza alcuna intenzione diffamatoria, fatto col puro e semplice animus narrandi.

Ugo Graioni, il direttore del numero unico, ne dà conferma aggiungendo che molti reduci dalla Russia con i quali ebbe occasione di parlare gli ribadirono l'esattezza dei fatti riassunti nello scritto.

Il primo a narrare quello che accadde ai nostri soldati è l'imputato Domenico Dal Toso, tenente del IV artiglieria alpina della Divisione Cuneense, caduto prigioniero nel gennaio del 1943, trasferito al campo di Krinovaia con una lunga, estenuante marcia forzata.

Dal Toso: 'Partimmo in tremila, arrivammo in millecinquecento. Ci nutrivamo di semi di girasole. Avevamo avuto come viveri per il viaggio, soltanto un filone di pane da 500 grammi. Giunti nel campo di Krinovaia venimmo distribuiti a seconda del rango, in alcuni box simili a quelli dove, nelle scuderie, si rinchiudono i cavalli: in ognuno dei quali eravamo stipati in ventisei persone. Lo spazio era così limitato che era impossibile perfino sdraiarsi. Vi rimanemmo per quattro giorni, senza acqua, prima che ci fosse acconsentito di attingerne da un pozzo. Ci legavamo le gavette alla cintura e ci si spenzolava giù per poter arrivare fino in fondo. Molti, nel tentativo, caddero nell'acqua ed annegarono. L'acqua s'inquinò e non potemmo più berne.

Nel campo, insieme al Dal Toso, si trovava un cappellano militare, padre Turla, il quale era a conoscenza delle tristissime condizioni in cui versavano i prigionieri negli altri campi. Egli disse al Dal Toso che in alcune sezioni riservate ai soldati semplici erano avvenuti addirittura casi di cannibalismo.

'Cannibalismo?' - interrompe qualcuno nell'aula su cui grava una atmosfera di dolore e di morte. Dal Toso: 'Sì. Cannibalismo. Aspettavano che un commilitone morisse e poi ne mangiavano il cuore ed il fegato'.

Un giorno venne al campo un uomo, che dimostrava una quarantina di anni d’età. Nessuno osò domandargli il nome, né lui si preoccupò di dircelo: era un italiano e noi aspettavamo da lui almeno una parola di conforto, in nome di quel vincolo fraterno che dovrebbe unire tutti coloro che sono nati entro gli stessi confini. Rudemente egli ci disse invece che dovevamo ringraziare Dio se ancora non ci avevano fucilato. Più tardi si presentò una commissione russa per trasferire coloro i quali fossero in grado di camminare, in un altro campo di concentramento. L'accertamento per la idoneità consisteva nel fare venti passi davanti alla commissione. Ma tanto era lo sfinimento che molti caddero prima di aver compiuto il percorso di prova. Il ten. Dal Toso fu tra i prescelti.

Dal Toso: 'Lasciammo Krinovaia in 400 ufficiali. Giungemmo ad Oranki in 290. Gli altri erano morti durante il trasferimento compiuto nell’interno di carri bestiame e senza alcun cibo. Nel nuovo campo scoppiò una violenta epidemia di tifo petecchiale. Ma non fu dato altro medicamento che del permanganato. Quando fui trasferito al campo convalescenziario di Skit, pesavo soltanto 39 chili. Durante la permanenza ad Oranki venne per la prima volta il Fiammenghi il quale tenne numerose conferenze ai prigionieri'.

Presidente: 'Cosa vi disse in particolare il Fiammenghi?'.

Dal Toso: 'Voleva conoscere la nostra opinione politica. Egli teneva ad informarci che in Italia le cose andavano molto male. Poiché il Fiammenghi fece capire chiaramente che a coloro i quali si fossero dichiarati antifascisti sarebbe stato concesso un miglioramento del rancio, qualcuno aderì alle nuove idee di cui veniva fatta ampia propaganda. È chiaro che, secondo la prassi del partito bolscevico, per antifascismo doveva intendersi, adesione alle dottrine marxiste'.

L'imputato narra poi come alla fine di luglio arrivò il signor D'Onofrio, il quale radunò gli ufficiali italiani proponendo loro che sottoscrivessero un appello al popolo italiano di incitamento ad abbattere il governo Badoglio e la monarchia. In Italia, come è noto, si era verificato il colpo di stato che aveva rovesciato il governo fascista il 25 luglio 1943.

A domanda del presidente, Dal Toso precisa che il signor D'Onofrio, comunista, si qualificò di professione 'cospiratore'.

Presidente: 'Come, come?...'. Dal Toso: 'Sì, sì, professione «cospiratore». Così ci disse. Egli era accompagnato da un ufficiale della polizia russa. Prima ci parlò a lungo della patria lontana, delle nostre case, delle famiglie, provocando la comprensibile commozione dei presenti. Poi ritornò per farci firmare il famoso appello al popolo. Il cap. Magnani, che era a capo della nostra comunità, rispose a nome di tutti che i soldati e gli ufficiali italiani erano legati da un giuramento al Re e che quindi mai avrebbero potuto firmare un appello del genere. D'Onofrio andò su tutte le furie e la sua reazione fu immediata. Il capitano Magnani fu chiamato dal D'Onofrio ed ebbe con lui, presente un capitano russo, un colloquio durato due ore. Al termine di esso il Magnani aveva il viso stravolto. Il giorno successivo veniva trasferito in altro campo e da allora non s’è saputo più nulla di lui se non che fu rinchiuso in un campo di punizione. D'Onofrio aveva detto: 'Al capitano Magnani ci penso io'.

Come tutti gli altri anche l'imputato dovette subire un interrogatorio, alla presenza di un ufficiale russo, il quale annotava tutte le risposte, al termine del quale il D'Onofrio lo minacciò di non riveder più sua madre se avesse coltivato certe idee di italianità perché in Russia ognuno era controllato e dalla Russia non era facile tornare indietro... In Russia vi erano regioni ancora più fredde, con chiaro riferimento alla deportazione in Siberia.

La lunga deposizione del primo imputato è finita: Dal Toso ha parlato con voce bassa che tradiva una visibile commozione interiore.

Subito dopo viene introdotto il secondo reduce querelato. È il tenente di fanteria della divisione Sforzesca, Luigi Avalli, fatto prigioniero nell’agosto 1942 in Russia. È tutto un racconto di sofferenze senza nome che si riassumono nel desiderio più volte espresso dai prigionieri di essere fucilati piuttosto di continuare a vivere in quegli infernali campi di concentramento. Krinovaja - Minciurinsk - Tamboff: nessuno ne parla eppure erano simili e forse anche peggiori di Meidanek - Buchenwald - Mathausen che tutto il mondo conosce! L'imputato narra le pressioni politiche cui i prigionieri erano sottoposti, con le continue conferenze, le domande, gli interrogatori del Fiammenghi e del D'Onofrio, che richiamavano all'ordine chiunque osasse esprimere opinioni sfavorevoli sul regime sovietico.

Con questa deposizione s’è chiusa la prima udienza. L'atmosfera nell’aula è grave, pesante. Il racconto dei reduci ha lasciato in tutti una penosa impressione.

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