lunedì 29 marzo 2021

Il processo D'Onofrio, parte 4

Il processo D'Onofrio, quarta parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.

LA QUARTA UDIENZA.

Comincia, con l'udienza del 25 maggio 1949, la sfilata dei testimoni a discarico. Saranno dieci gravi accuse contro l'attività del sen. D'Onofrio in Russia, alle quali faranno riscontro in seguito i dieci primi testi che quella attività invece, difenderanno.

Primo teste della giornata è l'avv. Mario Bosello, il quale, tenente di artiglieria nella campagna di Russia, fu catturato il 22 dicembre del 1942. Durante la marcia estenuante per raggiungere a piedi il campo di Oranki i russi gli tolsero le scarpe e al ten. Ferretti la pelliccia. La razione di viveri consistette in una sola fetta di pane di non più di 300 grammi assolutamente immangiabile. Quando già da un mese i prigionieri si trovavano nel campo di Oranki giunse un italiano: vestiva una casacca e, sotto, l'uniforme dell’esercito russo. Egli interrogò il teste su i suoi pronostici e sui suoi desideri circa l'esito della guerra in corso. Il teste ha poi ricordato che un certo ten. Ballarin, il quale aveva sottoscritto un manifesto murale con cui si invitava l'esercito italiano a deporre le armi, redarguito dal cap. Lombardo che lo minacciò di denuncia quando fossero rientrati in Italia, si recò dal commissario Fiammenghi a riportare l'accaduto. Il Fiammenghi convocò immediatamente il cap. Lombardo e lo minacciò di fucilazione immediata.

Nel maggio del 1943 corse voce per il campo che gli ufficiali che avevano aderito alle idee del commissario Fiammenghi preparavano un messaggio alle truppe nel quale si incitavano i soldati a gettare le armi. Il teste, insieme ad un gruppo di altri ufficiali di quelli che si trovavano in peggiori condizioni fisiche, fu trasferito alla fine di giugno nel campo convalescenziario di Skit. Fu qui che comparve per la prima volta il D'Onofrio il quale dichiarò subito di essere di professione 'cospiratore'.

Presidente: 'Cosa disse ai prigionieri il D'Onofrio?'.

Bosello: 'Ricordo che ci parlò a lungo dell’Italia e della democrazia e noi ne ricavammo una ottima impressione, fummo soddisfatti del modo con il quale egli ci intrattenne per oltre mezz'ora. Ma un paio di giorni dopo D'Onofrio chiamò me ed altri cinque colleghi, fra i quali il cap. Magnani. Appena entrammo nella sua stanza egli chiuse la porta e ci fece sedere. Accanto a lui era il commissario Fiammenghi e il magg. Orloff. E cominciò l’interrogatorio.

Il sottotenente Sandali al quale per primo furono rivolte le domande, si trincerò sul divieto fatto ai militari dal regolamento di esprimere opinioni politiche e chiese che fosse rispettato il suo diritto, come prigioniero di guerra, di non essere interrogato su fatti politici. La secca risposta del Sandali provocò un violento scatto del D'Onofrio il quale urlò nelle orecchie del sottotenente: 'È necessario che lei riveda le sue posizioni perché con queste idee in Patria, lei, non ci tornerà mai più'. E rivolto a tutti: 'Quello che dico a lui vale per tutti i presenti'. Fiammenghi e il magg. Orloff prendevano appunti su alcuni fogli di carta.

Presidente: 'Gli altri ufficiali convocati, furono interrogati?'.

Bosello: 'Le stesse domande poste al primo vennero poi fatte a tutti gli altri. Per tutti noi, però, rispose il cap. Magnani che eravamo venuti in Russia per combattere perché un soldato deve obbedire senza discutere e che saremmo stati ossequienti al nuovo governo italiano. L'interrogatorio durò tre ore e alla fine, mentre uscivamo dalla stanza, D'Onofrio ci gridò dietro: 'Se non cambiate idea in Italia non si torna'.

A questo punto il Presidente ha fatto leggere al teste l'ordine del giorno presentato dalla parte civile, per sapere se il testo corrisponda a quello con cui D’Onofrio invitò i prigionieri a sottoscrivere.

Bosello: 'Ho la netta sensazione che non sia quello l'ordine del giorno che allora fu presentato ai prigionieri'.

Il teste ha ricordato poi che, qualche sera dopo gli interrogatori, un soldato russo entrò nella baracca e, chiamato il cap. Magnani, gli ordinò di prendere la sua roba e di seguirlo. Il Magnani abbracciò il commilitone con le lacrime agli occhi perché sapeva che non avrebbe più rivisto i suoi bambini.

Avv. Mastino Del Rio: 'Le risulta che il cap. Magnani fosse un criminale di guerra?'.

Bosello: 'Il capitano era un uomo d'onore, decorato di tre medaglie d’argento'.

Avv. Taddei: 'Il teste da che cosa deduce che le risposte fornite durante gli interrogatori venissero verbalizzate?'.

Bosello: 'Nel campo di Susdal fui sottoposto ad un altro interrogatorio. Dalle domande che il commissario politico Rizzoli mi fece, mi accorsi che conosceva già le risposte che avevo dato nei precedenti interrogatori. Mi risulta poi che i fuorusciti italiani erano nient'altro che funzionari sovietici. Infatti al sergente Paolozzi furono inflitti dieci giorni di prigione con la seguente motivazione: 'Si rifiutava di rispondere ad un funzionario politico sovietico'. Il sergente, durante un interrogatorio, aveva detto al Rizzoli che non avrebbe mai risposto alle domande di 'un fuoruscito italiano'.

Il secondo teste chiamato a deporre è il sottotenente dei bersaglieri Franco Santoro.

Santoro: 'Appena arrivati al campo di Oranki fummo sottoposti ad un bagno di disinfezione. La stanza era caldissima. Dopo il bagno a 30 gradi, fummo portati all'aperto con una temperatura di 35 gradi sotto zero. Alcuni morirono. Io, svenuto, fui portato in ospedale. Presi la polmonite doppia, la dissenteria e il tifo petecchiale'.

Il racconto del reduce provoca vivaci mormoni del pubblico che si tramutano in sonore risate quando il teste ribadisce che nel campo di Skit il D'Onofrio gli si presentò come cospiratore di professione.

Avvocati della Parte Civile: 'Allora bisognava ridere, non oggi; oggi è troppo facile!'.

Il tenente Santoro ha narrato poi dell’interrogatorio subito insieme al teste che lo lui preceduto. Nel corso della 'conversazione', D'Onofrio accusò le truppe italiane di essersi comportate malissimo nel territorio russo occupato. Disse che le truppe italiane rubavano, incendiavano, uccidevano e perciò noi prigionieri non dovevamo aspettarci un trattamento migliore di quello che ricevevamo. Il teste ha smentito le accuse di D'Onofrio. I nostri soldati, egli ha detto, quando abbandonavano i paesi occupati, erano seguiti dalle donne e dai bambini russi con i quali avevano diviso fino all’ultimo momento, il pane e anche i vestiti.

Anche al Santoro il Presidente fa leggere la copia dell’ordine del giorno esibito dalla parte civile, ma il teste lo disconosce.

Chiamato insieme al cap. Magnani, per un secondo interrogatorio, e invitato perentoriamente a mutare il proprio atteggiamento che influiva sugli altri e soprattutto sui soldati, il teste disse al D'Onofrio che non poteva tradire i suoi bersaglieri morti. 'Lei parla troppo dei suoi bersaglieri - lo interruppe D’Onofrio. La differenza che passa fra lei e loro è soltanto questa: lei è un criminale di guerra vivo, quelli sono dei criminali di guerra morti'.

Il tenente Santoro si gira lentamente sulla poltrona e fissa il querelante, che lo ha tacciato di falso e di impostura, con sguardo di sfida.

LA QUINTA UDIENZA.

27 maggio 1949 - Man mano che i giorni passano e i racconti dei reduci si ripetono, uguali, tragicamente uguali nella rievocazione dell’odissea, l'atmosfera del dramma in quest’aula di tribunale si fa più cupa, terribile. Certamente nessuno dì quelli che si vanno avvicendando sulla poltrona dei testimoni, o di quelli che si affollano nello spazio riservato al pubblico avrebbe mai pensato, ai tempi della prigionia, che in un’aula di tribunale, davanti alla maestà della giustizia, avrebbe incontrato i superstiti della tragedia.

Dalla deposizione del sottotenente di fanteria Sergio Fiaschi, si apprende come egli fu portato in un 'campo-scuola' a 300 chilometri dall’Afghanistan.

Presidente: 'In che cosa consisteva questa scuola?'.

Fiaschi: 'Ufficialmente doveva avere un carattere informativo, ma ben presto ebbi modo di sapere in che cosa realmente consistesse. Dopo tre mesi di permanenza in quel campo fui chiamato dal fuoruscito Robotti il quale mi disse che la scuola mi tacciava di 'fascista'. E per quella volta la cosa finì lì. Ma poi fui chiamato una seconda volta insieme ad altri che si trovavano nelle mie stesse condizioni per sentirmi ripetere questa accusa con la aggiunta che il mio atteggiamento e quello dei miei colleghi meritavano una severa punizione.

Vissi durante tutti e tre gli anni della prigionia nel continuo terrore di essere gettato in un carcere. D'Onofrio faceva soltanto brevi apparizioni nella scuola il giovedì. Gli insegnanti erano i fuorusciti Robotti e Reghenti oltre il maggiore russo Orloff'.

Avv. Mastino Del Rio: 'Quale trattamento era riservato ai più zelanti frequentatori di questa scuola?'.

Fiaschi: 'A coloro che dimostravano maggiore attività nella frequenza della scuola veniva riservato un trattamento migliore. Essi erano chiamati 'assistenti', non erano obbligati a lavorare e mangiavano meglio degli altri'.

Un cappuccino, dalla lunga barba ben curata, è il secondo teste della giornata chiamato a deporre: padre Giuseppe Fiora, cappellano dell'8° Reggimento Alpini, fatto prigioniero nel gennaio 1943. P. Fiora: 'Sento il bisogno di premettere che al campo di Krinovaia, dove venni portato prima di essere trasferito ad Oranki, la fame dei prigionieri era tanta da dar luogo a casi di cannibalismo. Un giorno si presentò a me un soldato italiano il quale, in una gavetta, mi offrì di mangiare con lui il cuore di un commilitone morto: 'Padre, vuol mangiare?' mi disse. Mi prodigai con gli altri cappellani prigionieri, anche per invito dei fuorusciti e dei russi, perché quei gravissimi fatti avessero a cessare. Ripetemmo ai prigionieri le assicurazioni fatteci dai fuorusciti di future migliorie. Ma nessun miglioramento si verificò mai, né allora né dopo. La promessa non fu mantenuta.

Durante il viaggio di trasferimento da Krinovaia ad Oranki fu data come razione di viveri ai prigionieri soltanto un pezzo di pane secco e pesce salato. Niente acqua. E quando gli uomini ne chiedevano, le guardie russe rispondevano: 'Perché siete venuti a combattere contro di noi? Adesso la pagate!'. Appena arrivati ad Oranki tutti furono infettati di tifo petecchiale. Nessuna assistenza sanitaria fu data ai malati dai sovietici: l'unico a prendersi cura di loro fu il tenente medico italiano Reginato il quale non ha fatto più ritorno dalla Russia.

Oltre al tifo altre epidemie scoppiarono nel campo. Fra esse la più grave fu la dissenteria. L'indice di mortalità raggiunse il 90 e anche il 95 per cento dei prigionieri. I malati giacevano su un tavolaccio e a noi cappellani non fu mai consentilo esercitare le nostre funzioni. Per essere ammessi nel lazzaretto dovemmo fare domanda di infermieri. Io però mi ammalai il giorno prima di essere assunto. Appena guarito fui assegnato ad un duro lavoro, quello di segare alberi e trasportarli per dei chilometri.

Ad Oranki, per volere di tutti gli internati, la sera si pregava ad alta voce. Fra le altre recitavamo la preghiera 'Pro Rege'. Un giorno però io e l'altro cappellano, don Brevi, fummo chiamati dal commissario politico del campo, Fiammenghi, il quale ci proibì di recitare quella preghiera perché il Re era 'un venduto allo straniero' e il 'capo dei reazionari'. Naturalmente abolimmo questa preghiera per il Re. Questo avveniva verso la fine di maggio del 1943. Dopo qualche mese Fiammenghi ci chiamò nuovamente e ci disse che dovevamo smettere di recitare preghiere perché in Russia non erano ammessi atti di culto esterno. I prigionieri, se lo volevano, potevano pregare privatamente. Chi non si fosse attenuto a questi ordini precisi sarebbe stato punito con il carcere.

Presidente: 'Lei ebbe occasione di parlare con D'Onofrio?'.

P. Fiora: 'Personalmente no. Assistetti, però, ad una sua conferenza nel campo di Oranki'.

Presidente: 'Che cosa disse il querelante?'.

P. Fiora: 'Non lo so perché poco dopo che aveva cominciato a parlare mi addormentai. Seppi, però, dagli ufficiali, al mio risveglio, che l'impressione riportata fu tutt’altro che buona'.

Avv. Taddei: 'L'intervento dei fuorusciti italiani migliorò le condizioni dei prigionieri?'.

P. Fiora: 'Lei è matto. L'unico nostro sollievo era la fratellanza'.

Presidente: 'Lei può andare'.

P. Fiora: 'No, Non ancora. Voglio aggiungere che quella nostra fratellanza fu distrutta proprio dai fuorusciti. Si deve esclusivamente a loro se si verificarono delle delazioni, delle vendette, dei rancori personali. E non basta. I fuorusciti cercarono in ogni modo di intralciare la nostra opera di umanità, tanto che riuscivamo ad ottenere più rivolgendoci ai russi che ai nostri connazionali. Cito un caso: per ben due volte chiesi al commissario politico Ossola il permesso di visitare un ufficiale che giaceva gravemente ammalato. Non ebbi mai risposta: neppure un rifiuto. Mi rivolsi allora al comandante russo del campo e nel giro di pochissime ore ottenni il permesso richiesto. Il senso di diffidenza che i fuorusciti erano riusciti a far serpeggiare nella nostra compattezza era tale che tra noi si diceva: siamo prigionieri degli stessi prigionieri italiani'.

Dalla deposizione di un altro testimone, il sottotenente di fanteria Luigi Esposito, nulla emerge che non sia già a conoscenza del tribunale. Egli fu portato al campo di Tamboff dove era ad attendere i prigionieri in arrivo un gruppo di fuorusciti italiani. La signora Torre che era nel gruppo accolse i nuovi arrivati con queste parole: 'Venite, venite, soldatini. Finalmente siamo riusciti a liberarvi dalla tirannia dei vostri ufficiali'.

L'udienza ormai sarebbe finita, ma l'avv. Taddei fa istanza perché venga richiesta alla Direzione Generale degli Affari Politici del Ministero degli Esteri la lista ufficiale dei militari italiani segnalati ufficialmente dalla Russia come criminali di guerra, istanza che il tribunale accoglie dopo una breve permanenza in camera di consiglio.

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