martedì 22 febbraio 2022

Il viaggio del 2011, Nikolajewka

Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... la discesa dalla quale attaccarono i nostri soldati attaccarono Nikolajewka, vista dalla massicciata ferroviaria.



Storia Illustrata 1967, parte 2

Storia Illustrata del Dicembre 1967, speciale 1941-1943 la Campagna di Russia, seconda parte.

























martedì 15 febbraio 2022

Il viaggio del 2011, Nikolajewka

Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... la ferrovia e la massicciata a Nikolajewka.





Rapporto sui prigionieri, parte 15

Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

IL PROCESSO D'ONOFRIO.

Nell'aprile 1948. alla vigilia di una difficile campagna elettorale, i reduci dalla prigionia russa pubblicarono un opuscoletto per informare gli italiani di cosa era successo ai soldati italiani catturati dai sovietici e denunciare come i comunisti italiani in Unione Sovietica si fossero comportati nei confronti dei loro connazionali rinchiusi nei lager. L'opuscolo, chiamato con un po' di presunzione "Numero Unico', conteneva. tra l'altro, un breve intervento sull'attività di D'Onofrio quale attivista comunista nei campi di Oranki e Skit e la parte da lui avuta, con minacce ed interventi concreti, sui provvedimenti in seguito adottati dai russi nei confronti di un gruppo di prigionieri. L'opuscolo concludeva con una specie di manifesto nel quale si accusavano i comunisti italiani in Russia, con in testa D'Onofrio, di aver fatto nei campi di concentramento, i commissari politici al servizio della polizia politica sovietica, qualificandoli di rinnegali ed aguzzini.

Il clima era molto infuocato e nei manifesti, nei giornali e nei discorsi si usavano parole grosse e non si andava per il sottile pur di controbattere e demolire l'avversario. E' rimasta famosa la frase di Togliatti che disse di voler calzare un robusto paio di scarponi chiodati per poter dare, a elezioni avvenute, un bel calcio nel sedere di De Gasperi. D'Onofrio denunciò per calunnia ed offese i firmatari dell'articolo che erano una ventina, ma in fase di stampa ne erano stati citati solo tre, seguiti da un "ecc.." . II processo fece epoca e si concluse con l'assoluzione degli imputati perché i fatti riportati nell'articolo erano veri e provati.

Oggi a cinquant'anni di distanza, un esame spassionato di quel manifesto suggerisce qualche considerazione. A parte le cifre un tantino forzate, la qualifica di aguzzino andava benissimo per D'Onofrio e Robotti, molto meno per gli altri. D'Onofrio era un individuo pericoloso. Già durante la guerra di Spagna stilava rapporti sui compagni che combattevano nelle Brigate Internazionali. Nei confronti dei prigionieri italiani si atteggiò ad emulo di Viscinski, l'accusatore nei grandi processi staliniani, usandone i metodi brutali di inquisitore. Che i suoi metodi non fossero adatti, lo capì immediatamente Togliatti che, dopo l'esperienza di Oranki, non gli fece mettere più piede in un lager di italiani e lo sostituì con Robotti, uomo molto intelligente, perciò forse più insidioso.

Gli altri comunisti italiani erano uomini che in cuor loro. dopo aver conosciuto cos'era l'URSS, avrebbero preferito cento volte il Tribunale Speciale Fascista dal quale erano sfuggiti. Anche loro erano prigionieri, vittime di un meccanismo che li avrebbe stritolati senza pietà, come era avvenuto a molti altri loro compagni di fede, scomparsi nei lager siberiani con il beneplacito di Togliatti. Sapevano che la loro pagella e la loro sorte dipendeva dal numero di prigionieri che riuscivano a portare dalla parte dei russi, e si sforzavano di farlo alla loro maniera, in modo goffo, maldestro ed, in definitiva, controproducente. Non dimentichiamoci che molti prigionieri italiani diventati comunisti, si sono comportati nei confronti dei loro colleghi di prigionia in maniera analoga, se non peggiore e la loro citazione tra gli aguzzini ed i rinnegati non sarebbe stata fuori luogo.

Che il contenuto dell'opuscolo difficilmente potesse essere smentito, lo dimostra il fatto che degli altri fuoriusciti, citati dal manifesto, né tantomeno Togliatti, anche lui chiamato in causa come loro capo, si associarono alla denuncia né alzarono un dito in segno di solidarietà.

domenica 13 febbraio 2022

Le fotografie di Mario Bagnasco, 17

Le fotografie di Mario Bagnasco, Primo Capo Squadra o Capo Squadra della Legione CC.NN. "Valle Scrivia".

"Si costruiscono baracche... Gadiusche ottobre (1942?)".

Il viaggio del 2011, Nikolajewka

Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... in prossimità di Nikolajewka.





Storia Illustrata 1967, parte 1

Storia Illustrata del Dicembre 1967, speciale 1941-1943 la Campagna di Russia, prima parte.









giovedì 10 febbraio 2022

I prossimi viaggi

I prossimi viaggi in Russia, Covid e situazione internazionale permettendo.

Estate 2022: con un gruppo chiuso e già definito replicheremo il percorso della ritirata della Divisione Tridentina dal Don a Nikolajewka; la prima volta anche per me in questo periodo dell'anno, ma una buona idea da riproporre anche per i successivi.

Fine estate 2022: un altro viaggio "esplorativo" ma alla portata di tutti, sia nelle zone degli Alpini che delle Fanterie, con la possibilità concreta di vedere il fronte a ridosso del Don grazie alla navigazione con apposito mezzo, più altre visite guidate in alcune località già raggiunte in passato (ansa del "cappello frigio", Arbusovka, ecc.) e in alcune nuove località (ansa di Werch Mamon, Isbuscenskij, ecc.); nella fase di rientro prevediamo la sosta in qualcuno dei più tristemente famosi campi di prigionia.

Gennaio 2023: probabilmente con una formula leggermente differente dal passato che consenta alle numerose persone che hanno espresso interesse di poter partecipare, ripercorreremo ancora una volta il percorso della ritirata della Divisione Tridentina dal Don a Nikolajewka, a distanza di 80 anni esatti da quei tragici giorni.

Estate 2023: primo viaggio "esplorativo" a Stalingrado e dintorni, lungo tutta la sacca dove venne intrappolata la 6a Armata tedesca e parte della 4a Armata, oltre che a 77 autieri italiani che quasi nessuno ricorda; un primo viaggio molto particolare alla ricerca delle tracce di quella che fu forse la più famosa battaglia della Seconda Guerra Mondiale.

Gennaio 2024: per la prima volta proveremo a ripercorrere il percorso della ritirata delle Divisioni Julia, Cuneense e Vincenza dal Don fino a Valujki, dove i pochi resti dei reparti citati furono sopraffatti e presi prigionieri dall'Armata Rossa.











Racconti di Russia, la notte di Arnautowo

Un'altra testimonianza tratta dal libro "Nikolajewka: c'ero anche io" a cura di Giulio Bedeschi. Tenente Giuseppe Capriata, 33a Batteria, Gruppo Bergamo, 2° Reggimento Artiglieria Alpina.

Il ferimento del maggiore Meozzi a Nikitowka nel pomeriggio del 25 gennaio, provoca un terremoto nel Gruppo Bergamo, il capitano Bonfatti lo sostituisce ed il sottoscritto deve assumere il comando della 33ª Batteria, mi trasmette l'ordine il tenente Faglia del Comando Gruppo. Gli uomini tutti sono al limite delle loro possibilità, disponiamo di poche munizioni salvo le granate a pallette (per buona fortuna racimolate a Opyt...).

Porto la batteria avanti 4-5 chilometri, battendo neve fresca, ricevo l'ordine di attestarmi un po’ indietro, sulle alture di Arnautowo ove ci sono 5-6 isbe. Dispongo i pezzi, le guardie armate, due serventi per pezzo, le mitragliatrici; a fatica si sistemano gli uomini ammucchiati dentro le isbe. C'è con noi il R.M.V. del nostro gruppo; arriveranno poi, sul tardi, pattuglie del Val Chiese. Le guardie catturano a un certo punto due prigionieri, li passo in consegna al capitano Comolli, fuggiranno dopo un po’ di tempo!

Digiuno pressoché dal giorno prima, quando tutto è a posto mi butto per terra per riposare. Dopo una mezz'ora circa, alle ore 22, una guardia mi scuote: signor tenente sparano, corra... Do l'allarmi - serventi ai pezzi! – mando due portaordini sciatori indietro a Nikitowka a chiedere rinforzi: il caporale Pranzini modenese, l'artigliere Colombo bergamasco. Verrà su il Battaglione Tirano sette ore dopo... sette ore di calvario per noi! Il Tirano avrà le difficoltà ad adunarsi e mettersi in moto, difficoltà che palesa anche la batteria a schierarsi, cosa si può pretendere da uomini così provate e stanchi!? Alcuni, tramortiti dagli stenti, si renderanno conto di quanto sta succedendo anche una o due ore dopo. Taluni accorrono subito, il sottotenente Mazzagio tra i primi.

Mi trovo poi con alcuni ufficiali delle pattuglie del Val Chiese, si tiene un rapido consiglio di guerra: articolare pattuglie per individuare la direzione di un probabile attacco russo, la batteria ne mandi una sulla destra in basso da dove anche si spara. Volontario parte Mazzagio con dietro i caporali Giudici e Cairoli, mitra in spalla con la tuta bianca, li vedo fantasmi allontanarsi dietro l'autoblindo tedesca sopraggiunta non so da dove. Non li rivedremo più...

Tento di far spostare il secondo pezzo più a destra oltre una rete metallica; non si riesce, desisto, verrà poi portato alcune ore dopo e farà strage. D'accordo con gli alpini incomincia a sparare il primo pezzo di Panazza, direzione strada per Nikolajewka dove si vedono luci e spari di traccianti, si vuole anche rallentare l'attacco russo facendo capire che si dispone di artiglieria. A un certo punto iniziano i russi con i mortai, colpi sulle isbe poi sulla linea pezzi; mi rendo conto che un mortaio sta inquadrando il primo pezzo: colpo lungo, colpo corto... dal 4º pezzo corro verso il primo: "sospendete il tiro..."; arriva il colpo a forcella; colpiti il capo pezzo Ruggeri, il tiratore Tirinzoni, il tenente Panazza, ed io a una trentina di passi.

Accorre Capacci, mi porta e ci porta nell'isba infermeria che incomincia a riempirsi di feriti di morti... Segue un po' di disorientamento... i pezzi tacciono, poi riprendono a sparare, dopo un po' mi si presenta un ufficiale mai visto: "Sono il capitano Capitò del comando Corpo d'Armata Alpino, la batteria è in crisi, voi tutti i feriti..., se credi ne prendo io il comando". "D'accordo!" Dopo un ora anche lui sarà colpito a morte. Seguono ore convulse, alle linea pezzi come alle armi automatiche si succedono i giovani ufficiali della batteria che verranno metodicamente feriti: Celesia, Fiocca, Forchielli, Bughi. Sottufficiali e soldati vi si prodigano assieme, senza mai perdere la calma, seppure momenti di entusiasmo si accompagnino a momenti di disperazione... le munizioni si riducono, i rinforzi non arrivano...

Da segnalare i tenenti Magnolini, Apostoli, Martinelli, Offeddu del R.M.V., essi pure impegnati a fondo ai mitragliatori a mantenere coi denti posizioni disperate, cadrà Magnolini, cadrà pure colpito in pieno petto da un anticarro, il nostro indimenticabile sergente maggiore Guicciardi di Spilamberto; cadranno tanti, tanti soldati nostri e anche delle pattuglie Val Chiese! Italiani e russi affratellati nella morte... [...]

Incomincio a dubitare dell'arrivo di rinforzi, se c'è gente a Nikitowka appena dietro di pochi chilometri, dovrebbero essere già arrivati... guardo il mio Zenith quadro da polso, sono le due, forse l'ultima notte che mi resta da vivere! [...] Sogni che realtà! Quante realtà si concludono attorno, quanti sogni si spezzano. Ognuno di noi ha una sua storia, storia che per molti si sta chiudendo inesorabilmente anonima; senza testimonianza si dissolvono fatti e uomini senza i quali nessuno sarebbe sopravvissuto a raccontare oggi a tanti anni di distanza.

La storia di Capitò come mai si trovava lì ad Arnautowo, qual senso del dovere lo spinse ad offrirsi, in piena battaglia, ad assumere il comando della 33a conscio che le probabilità di uscirne vivo erano quasi nulle, come si può essere così corretti e riguardosi di volere un crisma ufficiale, una consegna da parte del comandante ferito prima di buttarsi nella mischia... lo vedo ancora entrare, cercarmi, uscire deciso tutto, coscio di un grave compito da assolvere per il bene di tutti. Non me ne accorgerò, più tardi, quando Mainetti di Mandello Lario, capo pezzo del terzo pezzo, lo trascinerà lì ferito, paralizzato agli arti inferiori da un colpo alla spina dorsale... poche medaglie d'oro alla memoria saranno state così ben concessa sul campo e meritate!

[...] Alle 5 del mattino finalmente si diffondono voci: arriva il Tirano... Arriverà anche il Valcamonica e la 29a batteria di Moizo... Verso le 7 i russi sono annientati; il loro attacco tenace e violento durato una lunga notte è fallito. La strada è di nuovo aperta e di lì ricominceranno a passare i reparti che erano dietro di noi, e precisamente i battaglioni Verona e Vestone, una compagnia del Val Chiese, il comando del 6° Alpini, la colonna della divisione col comandante, il generale Reverberi, colonna che raggiungerà Nikolajewka, giusto in tempo per l'attacco decisivo sull'ultimo caposaldo dell'accerchiamento russo.

Fu evidente lo sforzo nemico di bloccare nella notte una parte della colonna in ritirata a cavallo tra Nikitowka e Arnautowo; a Nikolajewka sarebbe stato più agevole contrastare gli altri reparti superstiti. Merito della nostra batteria l'avere impedito una manovra così rischiosa, merito anche dei migliori elementi del reparto R.M.V. del Bergamo, degli alpini del Val Chiese caduti al nostro fianco, dell'apporto ultimo decisivo del Tirano che immolò su quelle alture il fior fiore dei suoi uomini: capitano Briolini, tenente Soncelli, tenente Slataper, e decine e decine di altri valorosi, come il capitano Grandi e il tenente Perego. La batteria in quella notte sparò oltre 200 colpi (ne rimasero 19 per Nikolajewka!...). La mitragliatrice Fiat 914/37 di Gafforelli sparò più di 3000 colpi!

RICCARDO

domenica 6 febbraio 2022

Le fotografie di Mario Bagnasco, 16

Le fotografie di Mario Bagnasco, Primo Capo Squadra o Capo Squadra della Legione CC.NN. "Valle Scrivia".

"Fattoria collettiva lungo il percorso del ripiegamento 18 dicembre 1942".

Rapporto sui prigionieri, parte 14

Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

IL GIORNALE L'ALBA.

Si è già accennato al giornale L'ALBA, diffuso nei campi dei prigionieri italiani. Lo dirigeva Robotti, vi collaboravano alcuni fuoriusciti ma, dopo qualche mese, ufficiali e soldati italiani intervennero sempre con maggior frequenza con articoli, appelli, dibattiti. Il giornale dava informazioni sull'andamento della guerra, privilegiando quanto avveniva sul fronte russo. Le vicende italiane avevano spazio, ma se ne accentuava l'aspetto catastrofico, anche a guerra finita, per demolire il morale dei prigionieri e diminuire la resistenza psicologica. Gran parte del giornale era poi dedicata ad illustrare e magnificare le istituzioni e le realizzazioni sovietiche ed alla pacchiana adulazione e glorificazione di Stalin.

L'occasione era ottima per imbottire i prigionieri con una grossolana propaganda, la cui etichetta di antifascista non riusciva a mascherare, nemmeno ai più sprovveduti, un marxismo ed un leninismo bello e buono. Lo scopo era lo stesso delle conferenze, degli interrogatori a ripetizione. delle minacce e delle lusinghe: arruolare più gente possibile al credo comunista, in modo da preparare preziosi fiancheggiatori al momento del ritorno dei prigionieri in Patria.

La redazione interveniva di rado in prima persona e bisogna dire, che il tono non era peggiore di quanto veniva allora pubblicato sull'UNITA' o sull'AVANTI. Invece, faceva parlare moltissimo i prigionieri ai quali guidava la penna o aveva lavato il cervello. Che qualche soldato sia stato lusingato dalla possibilità di vedere il proprio nome in calce ad un articolo è comprensibile, quello che meraviglia è che degli ufficiali con un livello di cultura, di discernimento e di responsabilità superiore ai soldati, abbiano collaborato a quel foglio e non possono giustificarsi dicendo di averlo fatto in buona fede, perché non si possono proclamare certezze, in assoluto contrasto con la realtà che circondava i prigionieri o che essi avevano constatato quando, ancora liberi, vivevano a contatto con la popolazione russa; non si distorcono clamorosamente i fatti o si affermano cose assurde, se con il deliberato proposito di compiacere i propri carcerieri.

martedì 1 febbraio 2022

Le fotografie di Mario Bagnasco, 15

Le fotografie di Mario Bagnasco, Primo Capo Squadra o Capo Squadra della Legione CC.NN. "Valle Scrivia".

Rapporto sui prigionieri, parte 13

Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

LA PROPAGANDA POLITICA NEI CAMPI.

L'Italia aveva un milione e mezzo di suoi cittadini prigionieri in tutti i continenti, ma solo i diecimila sopravvissuti in mano ai russi furono sottoposti al logorio di una pressante e perversa propaganda mirante a modificare le idee politiche e le convinzioni economiche, sociali e religiose di quelli che aveva catturato. Questa pretesa, che nelle democrazie è affidata al confronto critico tra le diverse opinioni attraverso la libera discussione e la libera stampa, nelle dittature è un obbiettivo costante. Esse pretendono di impossessarsi del cittadino obbligandolo a pensare, ad agire, a leggere quello che vogliono loro ed a non fare, non leggere, non studiare, non interessarsi di quello che la dittatura ritiene debba essere ignorato.

Con i suoi cittadini, l'URSS aveva raggiunto il suo scopo, con decenni di rozza e soffocante propaganda, ma soprattutto con il terrore. Quando i sovietici ebbero tra le mani degli italiani, non si lasciarono sfuggire l'occasione di indottrinare a dovere gli appartenenti ad una nazione nella quale, fino ad allora, avevano avuto ben scarso successo di penetrazione. E con i prigionieri italiani usarono i metodi che avevano sempre usato con i loro sudditi: lo stordimento mentale, le lusinghe, le minacce, l'infiltrazione di delatori, la punizione dei resistenti, l'eliminazione di quelli che ostacolavano la loro opera di convincimento. Nei campi, in un primo tempo, il compito di intervenire sui prigionieri, fu affidato per praticità ad una trentina di italiani residenti in Unione Sovietica. Erano fuggiti dall'Italia, perseguitati dal governo fascista, altri avevano combattuto in Spagna nelle Brigate Rosse Internazionali. ln Russia speravano di aver trovato la vera loro patria: trovarono invece campi di concentramento e prigioni dalle quali solo quella trentina era sopravvissuta.

Questi "fuoriusciti" (il termine è di conio fascista) furono impiegati subito come interpreti e, teoricamente, come intermediari tra i prigionieri e le autorità preposte ai campi. Ben presto fu chiaro che, anziché fungere da cuscinetto, essi erano totalmente al servizio dei russi, anzi, alle dirette dipendenze degli ufficiali dell'NKVD - la polizia politica che sovraintendeva ai campi dei prigionieri di guerra, oltre che ai lager dei deportati politici. Vestiti con divisa russa, avevano la qualifica di Commissario Politico. Sicché, invece di aiutare, cercare d'intervenire per rendere meno drammatica e pesante la prigionia dei loro connazionali, fungevano da manovalanza dei russi nella loro schiacciante offensiva psicologica. Alcuni di loro furono utilizzati anche al fronte, al seguito dei reparti russi, sia per diffondere a mezzo altoparlante inviti alla resa, sia per tendere tranelli, diffondere notizie false e dirottare reparti durante la ritirata.

La caduta del fascismo, l'uscita dell'Italia dalla guerra e l'occupazione tedesca che ne seguì, portarono ai russi un'insperato aiuto nella loro opera di lavaggio dei cervelli. Infatti il loro obbiettivo poteva benissimo essere mascherato sotto l'etichetta di "antifascismo" e trovare una qualche giustificazione ed in definitiva una più facile breccia nella resistenza o nell'apatia di almeno una parte dei prigionieri italiani. I russi avevano in materia un'esperienza trentennale e seppero trovare subito nella massa dei prigionieri - anche ufficiali - gli individui fisicamente più deboli che servirono loro da quinta colonna.

Nei campi furono costituiti i "Gruppi antifascisti" ai quali venivano invitati ad aderire i delusi del fascismo. I campi vennero inondati dalle opere di Lenin e di Stalin in lingua italiana; sull'immancabile giornale murale gli antifascisti sfoggiavano o erano obbligati a mettere in luce il loro nuovo credo. Nei campi fu diffuso un foglio redatto in lingua italiana: "L'ALBA" diretto da un comitato alle dipendenze di Togliatti. Per tre anni diede ai nostri soldati un'informazione guidata e parziale degli avvenimenti italiani e dell'andamento del1a guerra, ma soprattutto fu un veicolo per convincere i lettori che la Russia era il paese della libertà, dell'eguaglianza, il paese dove comandavano i lavoratori. dove non esitavano padroni ecc. ecc. Periodicamente, i prigionieri venivano convocati in assemblee, presiedute dai commissari politici russi dove questi facevano interminabili discorsi, tradotti dai nostri commissari: ad essi dovevano seguire dibattili ai quali, dopo i primi esperimenti nessuno partecipava. Infatti, qualsiasi intervento, non solo di contraddizione, ma anche di mera puntualizzazione di notizie o dati inesatti, era considerato sabotaggio e propaganda antisovietica ed il malcapitato che aveva osato parlare entrava nella categoria degli elementi da torchiare.

Un altro sistema per obbligare i prigionieri a prendere posizione e, quindi a discriminarli in favorevoli e contrari, era quello di inviare continuamente messaggi, appelli, mozioni di plauso o di sdegno agli italiani, o ringraziamenti ed elogi alla gloriosa Armata Rossa ed al suo Capo per le vittorie sui tedeschi. Il sistema più subdolo fu, tuttavia, quello della schedatura e la costituzione di un fascicolo personale dove la posizione politica del prigioniero veniva minuziosamente annotata. Con periodici interrogatori, specialmente notturni, gli ufficiali del NKVD, coadiuvali dai comunisti italiani distaccali in ogni lager, raccoglievano il profilo e la storia particolareggiata di ciascuno. Queste notizie venivano continuamente integrate con le informazioni che i delatori - reclutati o introdotti in ogni stanza, in ogni ambiente di lavoro, in ogni gruppo - si premuravano di far prevenire ai russi, sui discorsi e sulle idee di quei prigionieri che, durante gli interrogatori, si guardavano bene dal scoprire le loro carte. Nei dossier finivano, anche, tutte le carte scritte che periodicamente venivano sequestrate ai prigionieri.

L'aspetto più avvilente di questa ininterrotta pressione intellettuale e fisica - ad alcuni soggetti la tensione provocava un logorio fisico - era che i russi avevano validi ed infaticabili collaboratori tra gli stessi prigionieri, premiati con la sistemazione in posti di tutto riposo e razioni di vitto più abbondanti. Tra questi collaboratori, pochissimi erano gli utili idioti in buona fede, gli altri erano opportunisti che miravano solo a mangiare di più o gente spaventata dalle minacce che i russi non lesinavano. Per completare l'educazione di questi simpatizzanti fu istituita, nell'estate del 1943, una prima "Scuola Antifascista" ad Iuscia, nella regione di Ivanovo. Successivamente ai primi del 1944 fu aperta quella di Krasnogorosk alla periferia di Mosca, situata nel lager NKVD n°27; quest'ultima era ad un livello superiore ed era riservata agli ufficiali ed ai soldati che si erano distinti ad Iuscia. Un gruppo fisso di ufficiali prigionieri affiancava nell'insegnamento, i russi ed i fuoriusciti italiani.

Dopo l'otto settembre, tutta la propaganda fu incentrata sulla cacciata dei tedeschi dall'Italia, lotta che tutti i prigionieri approvavano; purtroppo pochi capivano che i russi non vedevano l'ora di cacciare i tedeschi per prenderne il posto. Dall'altra parte - e questo la dice lunga sugli scopi e sulle caratteristiche della scuola - ai partecipanti veniva chiesto un giuramento, del quale, purtroppo, è nota solo una parte. Esso diceva: "Nel nome del popolo, giuro di dedicare la mia vita alla del proletariato. Possano i miei compagni sopprimermi nel sangue se vengo meno alla fede giurata" (dagli atti del Processo D'Onofrio).

Gli ufficiali licenziati dalla Scuola vennero mandati nei lager dei soldati ad integrare l'attività dei commissari politici italiani e, naturalmente, trascorsero una prigionia ben diversa da quella dei loro colleghi rimasti a Suzdal. I soldati che avevano frequentato la Scuola sarebbero divenuti delle docili pedine per la diffusione del comunismo in Italia, ma i russi non potevano aspettarsi che divenissero dei propagandisti nei campi di concentramento. Li utilizzarono invece come arma di ricatto, un odioso ricatto psicologico: furono armati, vestiti con una divisa che non era quella del soldato italiano e messi a guardia dei loro compagni al posto delle sentinelle russe. Beninteso, erano fieramente odiati, ma c'erano sempre ed ovunque quelli che al giudizio dei compagni anteponevano la possibilità di mangiare di più e, per giunta, di comandare. Alla prima occasione, chiedevano di andare alla Scuola.

Non si hanno dati precisi su quanti italiani abbiano frequentato le due Scuole. Si sa solo che da quella di secondo al lager 27, sono passati 550 tra ufficiali e soldati. Valutare quanti fra i 20.000 italiani abbiano aderito al comunismo non è possibile. Risulta che i collaboratori al giornale "L'ALBA" ed i sottoscrittori di non raggiunsero il migliaio. Anche volendo aggiungere altrettanti convertiti si arriva al 10% degli italiani prigionieri. Pertanto non è vero, come sovente è stato pubblicato, che solo chi si piegava e si vendeva ai russi poté tornare in Italia. La massa dei prigionieri, mantenne un atteggiamento neutrale, quale si confaceva ad un soldato in mano al nemico.

Per gli ufficiali, sui quali la pressione propagandistica fu certamente più pesante e minacciosa (perché condotta da persone molto preparate e con lunga esperienza nel mestiere di inquisitore) e che più dei soldati sentivano la responsabilità di un comportamento consono al grado, all'istruzione, allo stato sociale, la resistenza all'arruolamento nelle file comuniste fu una lunga e sofferta lotta. Una lunga lotta interiore, non tra l'accettare o meno, perché era pacifico che no, ma per soffocare la paura delle minacce e sottintese di non rivedere l'Italia, per resistere ai ricatti ed alle lusinghe. Una lotta di astuzie dialettiche, di tattiche temporeggiatrici per evitare dichiarazioni e prese di posizione compromettenti.

Un folto gruppo di ufficiali condusse questa lotta a viso aperto, controbattendo con vigore, nelle riunioni e negli interrogatori, tutto quanto i russi pretendevano di far ingoiare ai prigionieri sul marxismo e le mirabolanti conquiste sociali del sistema sovietico, tutte le grossolane menzogne sulla vita italiana nel periodo fascista che la propaganda interna russa aveva sfornato, specialmente durante la guerra, confondendo spesso fascismo con nazismo, vicende italiane con quelle tedesche. Soprattutto rinfacciava ai russi ed ai loro tirapiedi italiani, i bestiali trattamenti usati nei confronti dei prigionieri nel primo periodo. L'atteggiamento e la forte personalità di questi prigionieri era un evidente ostacolo al compito di catechizzazione che i russi si erano proposto. Furono subito isolati ed in seguito mandati in campi di punizione dove subirono soprusi di ogni genere. Alla fine, vista la loro irriducibilità, furono condannati come nemici del popolo sovietico a venti anni di lavori forzati.