martedì 1 febbraio 2022

Rapporto sui prigionieri, parte 13

Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

LA PROPAGANDA POLITICA NEI CAMPI.

L'Italia aveva un milione e mezzo di suoi cittadini prigionieri in tutti i continenti, ma solo i diecimila sopravvissuti in mano ai russi furono sottoposti al logorio di una pressante e perversa propaganda mirante a modificare le idee politiche e le convinzioni economiche, sociali e religiose di quelli che aveva catturato. Questa pretesa, che nelle democrazie è affidata al confronto critico tra le diverse opinioni attraverso la libera discussione e la libera stampa, nelle dittature è un obbiettivo costante. Esse pretendono di impossessarsi del cittadino obbligandolo a pensare, ad agire, a leggere quello che vogliono loro ed a non fare, non leggere, non studiare, non interessarsi di quello che la dittatura ritiene debba essere ignorato.

Con i suoi cittadini, l'URSS aveva raggiunto il suo scopo, con decenni di rozza e soffocante propaganda, ma soprattutto con il terrore. Quando i sovietici ebbero tra le mani degli italiani, non si lasciarono sfuggire l'occasione di indottrinare a dovere gli appartenenti ad una nazione nella quale, fino ad allora, avevano avuto ben scarso successo di penetrazione. E con i prigionieri italiani usarono i metodi che avevano sempre usato con i loro sudditi: lo stordimento mentale, le lusinghe, le minacce, l'infiltrazione di delatori, la punizione dei resistenti, l'eliminazione di quelli che ostacolavano la loro opera di convincimento. Nei campi, in un primo tempo, il compito di intervenire sui prigionieri, fu affidato per praticità ad una trentina di italiani residenti in Unione Sovietica. Erano fuggiti dall'Italia, perseguitati dal governo fascista, altri avevano combattuto in Spagna nelle Brigate Rosse Internazionali. ln Russia speravano di aver trovato la vera loro patria: trovarono invece campi di concentramento e prigioni dalle quali solo quella trentina era sopravvissuta.

Questi "fuoriusciti" (il termine è di conio fascista) furono impiegati subito come interpreti e, teoricamente, come intermediari tra i prigionieri e le autorità preposte ai campi. Ben presto fu chiaro che, anziché fungere da cuscinetto, essi erano totalmente al servizio dei russi, anzi, alle dirette dipendenze degli ufficiali dell'NKVD - la polizia politica che sovraintendeva ai campi dei prigionieri di guerra, oltre che ai lager dei deportati politici. Vestiti con divisa russa, avevano la qualifica di Commissario Politico. Sicché, invece di aiutare, cercare d'intervenire per rendere meno drammatica e pesante la prigionia dei loro connazionali, fungevano da manovalanza dei russi nella loro schiacciante offensiva psicologica. Alcuni di loro furono utilizzati anche al fronte, al seguito dei reparti russi, sia per diffondere a mezzo altoparlante inviti alla resa, sia per tendere tranelli, diffondere notizie false e dirottare reparti durante la ritirata.

La caduta del fascismo, l'uscita dell'Italia dalla guerra e l'occupazione tedesca che ne seguì, portarono ai russi un'insperato aiuto nella loro opera di lavaggio dei cervelli. Infatti il loro obbiettivo poteva benissimo essere mascherato sotto l'etichetta di "antifascismo" e trovare una qualche giustificazione ed in definitiva una più facile breccia nella resistenza o nell'apatia di almeno una parte dei prigionieri italiani. I russi avevano in materia un'esperienza trentennale e seppero trovare subito nella massa dei prigionieri - anche ufficiali - gli individui fisicamente più deboli che servirono loro da quinta colonna.

Nei campi furono costituiti i "Gruppi antifascisti" ai quali venivano invitati ad aderire i delusi del fascismo. I campi vennero inondati dalle opere di Lenin e di Stalin in lingua italiana; sull'immancabile giornale murale gli antifascisti sfoggiavano o erano obbligati a mettere in luce il loro nuovo credo. Nei campi fu diffuso un foglio redatto in lingua italiana: "L'ALBA" diretto da un comitato alle dipendenze di Togliatti. Per tre anni diede ai nostri soldati un'informazione guidata e parziale degli avvenimenti italiani e dell'andamento del1a guerra, ma soprattutto fu un veicolo per convincere i lettori che la Russia era il paese della libertà, dell'eguaglianza, il paese dove comandavano i lavoratori. dove non esitavano padroni ecc. ecc. Periodicamente, i prigionieri venivano convocati in assemblee, presiedute dai commissari politici russi dove questi facevano interminabili discorsi, tradotti dai nostri commissari: ad essi dovevano seguire dibattili ai quali, dopo i primi esperimenti nessuno partecipava. Infatti, qualsiasi intervento, non solo di contraddizione, ma anche di mera puntualizzazione di notizie o dati inesatti, era considerato sabotaggio e propaganda antisovietica ed il malcapitato che aveva osato parlare entrava nella categoria degli elementi da torchiare.

Un altro sistema per obbligare i prigionieri a prendere posizione e, quindi a discriminarli in favorevoli e contrari, era quello di inviare continuamente messaggi, appelli, mozioni di plauso o di sdegno agli italiani, o ringraziamenti ed elogi alla gloriosa Armata Rossa ed al suo Capo per le vittorie sui tedeschi. Il sistema più subdolo fu, tuttavia, quello della schedatura e la costituzione di un fascicolo personale dove la posizione politica del prigioniero veniva minuziosamente annotata. Con periodici interrogatori, specialmente notturni, gli ufficiali del NKVD, coadiuvali dai comunisti italiani distaccali in ogni lager, raccoglievano il profilo e la storia particolareggiata di ciascuno. Queste notizie venivano continuamente integrate con le informazioni che i delatori - reclutati o introdotti in ogni stanza, in ogni ambiente di lavoro, in ogni gruppo - si premuravano di far prevenire ai russi, sui discorsi e sulle idee di quei prigionieri che, durante gli interrogatori, si guardavano bene dal scoprire le loro carte. Nei dossier finivano, anche, tutte le carte scritte che periodicamente venivano sequestrate ai prigionieri.

L'aspetto più avvilente di questa ininterrotta pressione intellettuale e fisica - ad alcuni soggetti la tensione provocava un logorio fisico - era che i russi avevano validi ed infaticabili collaboratori tra gli stessi prigionieri, premiati con la sistemazione in posti di tutto riposo e razioni di vitto più abbondanti. Tra questi collaboratori, pochissimi erano gli utili idioti in buona fede, gli altri erano opportunisti che miravano solo a mangiare di più o gente spaventata dalle minacce che i russi non lesinavano. Per completare l'educazione di questi simpatizzanti fu istituita, nell'estate del 1943, una prima "Scuola Antifascista" ad Iuscia, nella regione di Ivanovo. Successivamente ai primi del 1944 fu aperta quella di Krasnogorosk alla periferia di Mosca, situata nel lager NKVD n°27; quest'ultima era ad un livello superiore ed era riservata agli ufficiali ed ai soldati che si erano distinti ad Iuscia. Un gruppo fisso di ufficiali prigionieri affiancava nell'insegnamento, i russi ed i fuoriusciti italiani.

Dopo l'otto settembre, tutta la propaganda fu incentrata sulla cacciata dei tedeschi dall'Italia, lotta che tutti i prigionieri approvavano; purtroppo pochi capivano che i russi non vedevano l'ora di cacciare i tedeschi per prenderne il posto. Dall'altra parte - e questo la dice lunga sugli scopi e sulle caratteristiche della scuola - ai partecipanti veniva chiesto un giuramento, del quale, purtroppo, è nota solo una parte. Esso diceva: "Nel nome del popolo, giuro di dedicare la mia vita alla del proletariato. Possano i miei compagni sopprimermi nel sangue se vengo meno alla fede giurata" (dagli atti del Processo D'Onofrio).

Gli ufficiali licenziati dalla Scuola vennero mandati nei lager dei soldati ad integrare l'attività dei commissari politici italiani e, naturalmente, trascorsero una prigionia ben diversa da quella dei loro colleghi rimasti a Suzdal. I soldati che avevano frequentato la Scuola sarebbero divenuti delle docili pedine per la diffusione del comunismo in Italia, ma i russi non potevano aspettarsi che divenissero dei propagandisti nei campi di concentramento. Li utilizzarono invece come arma di ricatto, un odioso ricatto psicologico: furono armati, vestiti con una divisa che non era quella del soldato italiano e messi a guardia dei loro compagni al posto delle sentinelle russe. Beninteso, erano fieramente odiati, ma c'erano sempre ed ovunque quelli che al giudizio dei compagni anteponevano la possibilità di mangiare di più e, per giunta, di comandare. Alla prima occasione, chiedevano di andare alla Scuola.

Non si hanno dati precisi su quanti italiani abbiano frequentato le due Scuole. Si sa solo che da quella di secondo al lager 27, sono passati 550 tra ufficiali e soldati. Valutare quanti fra i 20.000 italiani abbiano aderito al comunismo non è possibile. Risulta che i collaboratori al giornale "L'ALBA" ed i sottoscrittori di non raggiunsero il migliaio. Anche volendo aggiungere altrettanti convertiti si arriva al 10% degli italiani prigionieri. Pertanto non è vero, come sovente è stato pubblicato, che solo chi si piegava e si vendeva ai russi poté tornare in Italia. La massa dei prigionieri, mantenne un atteggiamento neutrale, quale si confaceva ad un soldato in mano al nemico.

Per gli ufficiali, sui quali la pressione propagandistica fu certamente più pesante e minacciosa (perché condotta da persone molto preparate e con lunga esperienza nel mestiere di inquisitore) e che più dei soldati sentivano la responsabilità di un comportamento consono al grado, all'istruzione, allo stato sociale, la resistenza all'arruolamento nelle file comuniste fu una lunga e sofferta lotta. Una lunga lotta interiore, non tra l'accettare o meno, perché era pacifico che no, ma per soffocare la paura delle minacce e sottintese di non rivedere l'Italia, per resistere ai ricatti ed alle lusinghe. Una lotta di astuzie dialettiche, di tattiche temporeggiatrici per evitare dichiarazioni e prese di posizione compromettenti.

Un folto gruppo di ufficiali condusse questa lotta a viso aperto, controbattendo con vigore, nelle riunioni e negli interrogatori, tutto quanto i russi pretendevano di far ingoiare ai prigionieri sul marxismo e le mirabolanti conquiste sociali del sistema sovietico, tutte le grossolane menzogne sulla vita italiana nel periodo fascista che la propaganda interna russa aveva sfornato, specialmente durante la guerra, confondendo spesso fascismo con nazismo, vicende italiane con quelle tedesche. Soprattutto rinfacciava ai russi ed ai loro tirapiedi italiani, i bestiali trattamenti usati nei confronti dei prigionieri nel primo periodo. L'atteggiamento e la forte personalità di questi prigionieri era un evidente ostacolo al compito di catechizzazione che i russi si erano proposto. Furono subito isolati ed in seguito mandati in campi di punizione dove subirono soprusi di ogni genere. Alla fine, vista la loro irriducibilità, furono condannati come nemici del popolo sovietico a venti anni di lavori forzati.

Nessun commento:

Posta un commento