mercoledì 3 marzo 2021

Una tragedia annunciata, parte 5

Riporto la quinta ed ultima parte di un interessantissimo articolo, tutto da leggere, di Nicola Pignato apparso su "Storia Militare" numero 117 del giugno 2003; è un articolo dall'altissima valenza storica che ci permette di conoscere alcuni aspetti della Campagna di Russia, evidentemente fino ad oggi poco evidenziati.

Ci sembra infine il caso di sottolineare alcune inesattezze ancora presenti in lavori recentemente pubblicati e basati più sull'aneddotica che sui documenti. Anzitutto, la "leggenda" secondo la quale in un bollettino Armata rossa il N. 630 - sarebbe comparsa la frase "solo il corpo alpino italiano deve ritenersi imbattuto in terra di Russia". Si sarebbe riferito al fatto che i superstiti della Tridentina, guidati dal generale Reverberi, erano riusciti a spezzare l'accerchiamento dopo un'epica marcia, superando ripetuti sbarramenti nemici (e nonostante le condizioni meteorologiche proibitive), in località Nikolajewka, salvando cosi dalla prigionia (e con tutta probabilità dalla morte) non solo loro stessi, ma una moltitudine di sbandati che si era loro accodata.

Ebbene, in questi ultimi anni un'accurata indagine, recepita anche dall'Associazione Nazionale Alpini, ha dimostrato che mai il Comando sovietico aveva affermato alcunché di simile. Anzi, aveva trionfalmente proclamato la totale distruzione di tutte e tre le divisioni. E gli scampati sarebbero stati molti di più se si fosse stati più accorti: il 20 gennaio a Opit (relazione del gen. Nasci sui fatti d'arme del C.A. Alpino dal 14 gennaio al 21 gennaio 1943, A.C.S., Ministero della Real Casa, UPAC, Serie Speciale, p.9), dove erano concentrati nella sede del comando del C.A. alpino, senza averla apprestata a difesa, i pochi e preziosi mezzi di collegamento radio, questi rimasero distrutti durante un attacco russo; le divisioni alpine Julia e Cuneense restarono cosi senza direttive e i loro comandanti dopo pochi giorni finirono per arrendersi con i superstiti ormai demotivati (la pietà nei confronti dei prigionieri, dei quali solo una piccola percentuale sopravvisse ai maltrattamenti, non può esimerci dal ricordare che taluni di essi si trasformarono in aguzzini dei loro commilitoni e che uno dei tre generali, quando lo incarcerarono - tornò infatti quattro anni dopo i suoi gregari - dichiarò di essere stato deluso dall'accoglienza riservatagli - lui, che con i suoi due parigrado, aveva ricevuto un trattamento di favore - e che non si sarebbe arreso se avesse saputo ciò che l'aspettava. Non tutti avevano la tempra del maggiore - poi, da generale, comandante della brigata alpina Taurinense - Franco Magnani il quale seppe resistere alle minacce ed alle lusinghe anche a costo di scontare una lunga detenzione in campi di punizione e lavori forzati addirittura fino al 1951).

Anche questo episodio ha dello sconcertante: il genio del Corpo d'Armata Alpino era largamente provvisto di moderni apparati radio, tra i quali 4 stazioni autocarreggiate A 350 e 6 A 310. Non è chiaro perché queste fossero state abbandonate a Rossoch (precedente sede del comando) e siano andate distrutte quando quella località fu investita, il 15 gennaio, da un attacco sovietico, restando, una volta che l'altro centro radio di Postojali (con altre 2 RF3C ed 1 R4) era andato perduto il 14, con le sole tre RF3C di Opit. Sia ben chiaro che con queste precisazioni non si vuole sminuire il valore e il coraggio di tanti che si batterono senza risparmio, ma soltanto mettere in evidenza la disorganizzazione dei comandi italo-tedeschi: le eccezionali doti di saldezza delle nostre truppe da montagna, se bene inquadrate e comandate, si sono evidenziate in tante occasioni da non avere bisogno di ulteriori apprezzamenti, specie se di dubbia origine come quelli inventati dai fuorusciti (si veda N. Pignato, Lo sfortunato epilogo della campagna di Russia in "Panorama Difesa", novembre 1998).

La storia del "bollettino" faceva il paio con l'altrettanto assurda menzogna, questa di provata origine sovietica: il cosiddetto "eccidio di Leopoli", dove i tedeschi avrebbero eliminato i superstiti dell'ARM.I.R. Come i lettori sapranno, fu soltanto dopo costose inchieste sollecitate, per non meglio identificati bassi interessi filosovietici, da qualche sprovveduto politico (quando già nel 1964 il Maresciallo Messe, nella 4a edizione delle sue memorie, aveva chiarito che la strage era esistita solo nella fantasia di una povera mitomane) che anch'essa venne clamorosamente smentita. Eppure nel 1988, e poco prima che emergesse la verità, chi scrive, in possesso di numerosi documenti inediti che ne confermavano la falsità, si offri di consegnarli a un quotidiano "d'informazione" perché venissero pubblicati. Ma il giornalista all'uopo contattato si penti di aver accettato la collaborazione e si defilò quasi subito, probabilmente perché una presa di posizione del genere non sarebbe Stata in sintonia con la linea politica della sua redazione.

Accenniamo solamente, poi, alle inesattezze che, insieme con la "favola" del bollettino ancora si riscontrano in un volume apparso ed ampiamente pubblicizzato nel 1998 (A. Petacco, L'armata scomparsa, Milano, Mondatori). Qui, addirittura, il numero degli effettivi dell'8a Armata viene elevato - in quarta di copertina - a ben 250.000 (appena un corpo d'armata in più!); i carri T-34 (pag. 118) raggiungono le 50 tonnellate (come se le 26,5 tonnellate del modello 76 B allora in uso non fossero già abbastanza per assalire fanterie sprovviste di mezzi di contrasto). Si aggiunga che il lettore era Stato già "informato" (p. 16) che il nostro carro L aveva preso questa sigla dalla parola "Littorio" (anziché, essere, come sanno anche i sassi, l'abbreviazione di "leggero") e che pesava, invece delle sue 3,5 tonnellate, quasi un terzo di meno - 2,6 - al fine, forse, di rendere più impressionante la sproporzione! (ovviamente, mai i due modelli di carro ebbero occasione di confrontarsi. In realtà, quasi tutti i carri L3 inviati inviati in Russia nel 1941, all'epoca degli avvenimenti di cui ci occupiamo erano stati eliminati, ed era stato rimpatriato il III Gruppo di cavalleria carrista San Giorgio che li aveva in dotazione; in seguito erano stati inviati alla III Divisione Celere un battaglione di carri L 6/40 - 6,8 t, con mitragliera da 20 - e 24 semoventi da 47 sul medesimo scafo. I primi non dettero buona prova, degli altri non si sa nemmeno se mai trovarono impiego in combattimenti veri e propri).

Sarebbe ora il caso, dopo sessant'anni, di rivedere attentamente queste vicende, per trarne anche gli opportuni ammaestramenti (benché simili fatti non potranno mai ripetersi, almeno in quelle situazioni). Magari, riesaminando lo svolgersi degli avvenimenti avvalendosi di tutti i documenti finalmente disponibili, nonché di quelle testimonianze rese "a caldo" e non mediate o peggio influenzate dall'età e dalle periodiche successive letture. Andrà soprattutto messo in rilievo come, indipendentemente dal tardivo intervento di Roma e dallo scadente armamento di alcune delle nostre divisioni, il comando germanico avesse disatteso in quella occasione i più noti principi dell'arte della guerra. Senza scomodare Jomini, Clausewitz, Foch, Fall e Fuller, vorremmo anticiparne brevemente le motivazioni. Riteniamo possa essere escluso quello della massa (che purtroppo, dato la conformazione dello spiegamento, lineare e sottile per tutti i 270 km tenuti dall'8a Armata, poteva essere messo in atto solo dal nemico a nostro danno), ricordiamo, in primis, quelli dell'iniziativa/offensiva e della manovra (si privilegiò invece una difesa rigida e statica, e il dispositivo era stato previsto in funzione appunto di questa scelta). Fu un grave errore non aver lasciato l'unica divisione motorizzata in riserva e non aver predisposto una riserva d'armata: rinuncia, quindi, ad ogni moltiplicatore di risorse. E anche il non aver previsto la rottura del contatto per un ordinato ripiegamento, visto che non esisteva schieramento in profondità.

Si tenga presente che fino ad allora sembrava che le forze contrapposte fossero equivalenti e che la superiorità numerica dei sovietici potesse essere bilanciata con la qualità e la fiducia in sé stessi propria delle armate germaniche. Altrettanto nefasta si dimostrò l'unitarietà di comando (sia perché questo veniva esercitato da chi non era in grado di valutare sul posto l'evolversi della situazione e quindi non poteva emanare ordini tempestivi, sia per la complessità della catena di comando determinata dalle unità multinazionali presenti nello schieramento). Fu inoltre trascurato il principio dell'economia delle forze: ovvero impiegare solo ciò che è indispensabile al raggiungimento dello scopo (in sostanza, presidiare la riva del Don) e, nella fattispecie, il mancato accorciamento della linea, mediante il quale, invece, si poteva creare una piccola riserva. La mancanza dell'elemento sorpresa era un punto a nostro favore: il 21 settembre 1942, alle 20, il generale Gariboldi aveva avvertito tutti comandanti dei corpi d'armata in sottordine: "L'apparente calma del nemico non illuda nessuno. Alt. est probabile prossima ripresa grossa puntata a largo obiettivo. Alt. Tutti siano preparati con le predisposizioni più opportune dei mezzi a disposizione e di quelli eventualmente e progressivamente assegnati. Alt. Sia data comunicazione di quanto sopra ai comandanti delle dipendenti divisioni. Alt.".

Questo dimostra che c'era tempo per prendere tutti i provvedimenti necessari. Perfino dopo l'inizio dell'offensiva, vi sarebbe stata possibilità, da parte del C.A. alpino, che era fronteggiato da una sola divisione sovietica, di sferrare un attacco diversivo che avrebbe almeno avuto l'effetto di disorientare il nemico. Per ciò che attiene alla sicurezza o alla protezione, mancò infine un'efficace cooperazione aerea (ricognizione e appoggio tattico), specialmente durante la ritirata. Si ricordi la teoria di Clausewitz sulla forza decrescente dell'offensiva, di cui non si tenne alcun conto. Del morale dei nostri, fattore anch'esso tanto caro a Clausewitz, si è già detto: resterebbe da soffermarsi sul problema della disciplina, fattore che - allora come oggi - è il presupposto dell'efficienza di qualsiasi forza armata. Ma a questo riguardo, lasciamo la parola al generale Antonio Ricchezza il quale, nelle considerazioni conclusive stilate al termine di una sua opera (Storia illustrata di tutta la campagna di Russia, Milano, Longanesi, 1972, Vol. III, p.128), si è espresso al riguardo senza mezzi termini: "In Russia occorreva, fin dal primo momento, reagire [allo sfaldamento dei reparti] anche con la fucilazione sul posto degli elementi che abbandonavano le armi".

Nessun commento:

Posta un commento