venerdì 6 settembre 2019

Diario di viaggio, giorno 5

5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: dal libro “Da i più non ritornano” di Eugenio Corti: “Arbusov si trova in una grande vallata ovale, poco profonda. È costituita essenzialmente da un agglomerato di isbe, poco sopra la base di uno dei due pendii maggiori: se ricordo bene, quello nord. Da tale agglomerato si staccano verso est - mantenendosi sul pendio - numerose casupole sparse, dapprima abbastanza vicine, poi sempre più lontane tra loro e come disperse. Dalla parte opposta, dunque a ovest, esce invece dall'agglomerato una lunghissima fila di isbe che - fiancheggiata da una strada - risale obliquamente il pendio fino ad allargarsi, in alto, in un agglomerato minore. Da questa lunghissima fila si dirama in direzione sud un’altra file di abitazioni piuttosto distanziate fra loro, la quale - tornando per così dire indietro, con un’ampia parabola, attraverso la conca e lungo il piede dell’opposto pendio - tende a riunirsi all'agglomerato maggiore. Non lo si può raggiungere, perché nel fondo valle c’è una palude.

Allora questi acquitrini formavano una caotica distesa di ghiacci impolverati di neve, con grandi banchi di canne palustri secche e incessantemente agitate dal vento, che suggerivano uno straordinario senso di desolazione. Orbene: l’agglomerato maggiore e parte della fila principale di isbe, col pendio soprastante, erano in mano nostra; tutto il resto era del nemico che si annidava specialmente tra le canne del fondo valle, mentre le sue armi pesanti stavano dietro di lui, piazzate oltre la sommità del suo pendio”. “Attacchi alla baionetta! Quel giorno fu memorabile. Non tutti partecipammo agli attacchi. I più, anzi, rimasero in paese, asse scure continuamente in moto e sbandatisi continuamente sotto i colpi di mortaio e di cannone russi. Ciononostante quel giorno il fronte nemico venne dovunque travolto, e le nostre postazioni coronarono nel pomeriggio tutta la vallata in cui era Arbusov. Fu l’ultima grande visione di eroismo italiano.

In quegli attacchi quasi tutti i migliori caddero (non parlo retoricamente, riferisco un dato obiettivo)”. “Dall'alto del costone ero calato nell'appendice est di Arbusov, formata di isbe sparse. Le quali - tutte piccole e molto rustiche - seguivano, irregolarmente distanziate tra loro, i due lati di una strada, o meglio pista, che con qualche curva si prolungava fino a perdersi lontano. C’erano morti, e morti, e morti dappertutto: italiani, russi, poi ancora italiani e italiani. Qua e là, accasciato o seduto nella neve, qualche ferito agli estremi invocava sua madre, oppure urlava per il dolore. Altri feriti venivano accompagnati frettolosamente indietro da uno o due commilitoni: avevano il viso segnato più che dalla sofferenza fisica, dall'ansia per ciò che adesso sarebbe accaduto di loro.

Erano infatti rimasti menomati combattendo per tutti, ma nessuno ora li avrebbe potuti aiutare. Avanti. Le pallottole fischiavano dappertutto”. “L’intera vallata - insisto - appariva disseminata di morti. Anche i feriti erano numerosissimi. Sentivamo con angoscia che non li avremmo potuti curare: erano tutti, o quasi, destinati a morire nel giro di poche ore. Si erano formati alcuni ‘posti di medicazione’: ricordo soprattutto quello dentro Arbusov, intorno alla casetta infermeria. Adesso i due locali di cui la casa si componeva e la stalla erano talmente gremiti, da non potervisi in alcun modo camminare. I feriti stavano addirittura uno sull'altro. Anche fuori si udivano i loro lamenti e le loro grida, così piccole nel gelo tremendo. Quando uno dei pochi soldati che s’erano dedicati alla loro cura, entrava per portare soccorso di un po' d’acqua, ai lamenti si mescolavano le urla e le imprecazioni di quelli che egli involontariamente calpestava. Lo spettacolo più miserando non era dato però dalla casa, ma dal terreno ad essa circostante.

Qui sulla neve era stata allargata un po' di paglia, e sopra la paglia giaceva qualche centinaio di feriti. Erano stati lasciati in tutte le posizioni da coloro che ve li avevano frettolosamente portati. Non tuttavia a contatto uno dell’altro, di modo ch'era possibile camminare tra loro. Questi si mantenevano in genere silenziosi. La temperatura doveva essere di 15-20 gradi sotto zero. Stavano per lo più raggomitolati sotto una misera coperta da campo incrostata di neve, e rigida, al solito, come una lamiera; certuni erano senza coperta, e non avevano altro riparo che il cappotto. Mescolati ai feriti c’erano già dei morti: le loro lacerazioni - alcune mostruose - erano state a malapena fasciate, ed essi non avevano potuto resistere nella lotta tremenda contro la perdita di sangue, il digiuno, e il freddo assommati.

In questo golfo di dolore si aggirava un unico medico il quale, stremato dalla fatica, cercava di prestare le cure che poteva. Sentii confusamente dire che - non so se quel giorno, o nei successivi - egli sarebbe stato ferito ben due volte da schegge nemiche, mentre eseguiva delle amputazioni mediante lamette da barba”. “In tal modo lasciammo la Valle della Morte: il paese era semidistrutto, molte isbe bruciate, e molti civili, vecchi, donne, bambini, uccisi dalla battaglia o dall'odio dei tedeschi. Ci lasciavamo indietro una vallata disseminata dovunque di morti: con i morti tedeschi, apatici, e i russi, in qualche punto fucilati in file regolari di dieci, i nostri morti. I nostri, di gran lunga i più numerosi: uccisi dal bombardamento nemico, o caduti a ondate negli assalti alla baionetta, morti per gli stenti, morti di freddo.

Pensiero forse ancora più angosciante delle migliaia di morti, le centinaia e centinaia di feriti abbandonati sopra la neve, su poca paglia”. “Sottovoce cercammo di ricostruire le fasi dell’azione che aveva rotto il ferreo cerchio stretto dal nemico intorno alla vale di Arbusov. L’ordine di incolonnamento era stato trasmesso dal comando tedesco a quello italiano verso le 21.30. La colonna italiana doveva essere pronta per le 23.30. Gli italiani che, come me, Corti e Candela, giacevano all'addiaccio nelle buche, nei fossati, nei canneti della valle, non erano stati informati dell’ordine di incolonnamento. Alle 23.30 i pochi mezzi corazzati tedeschi e i reparti d’assalto della 298a divisione, con azione fulminea, avevano travolto il munitissimo caposaldo nemico di Arbusov alta e avevano aperto il varco attraverso il quale erano passati gli assediati. La retroguardia, costituita da reparti della divisione Torino, aveva respinto i rabbiosi attacchi dei russi, riorganizzatisi dopo lo sfondamento, e aveva consentito al grosso della colonna italiana di evitare la cattura. Centinaia di nostri feriti, per la mancanza di mezzi di trasporto, erano stati abbandonati nelle isbe, affidati ad alcuni ufficiali medici che si erano offerti volontariamente di assisterli in prigionia”.

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