venerdì 6 settembre 2019

Diario di viaggio, giorno 6

6 SETTEMBRE - Il lager di Krinovaja, le lapidi presso il cimitero civile dove oggi riposano alcuni dei prigionieri italiani ed ungheresi morti nel terribile lager.

Guido Maurilio Turla - Cappellano del Battaglione Saluzzo: "Una sera degli ultimi di febbraio (1943), un alpino della Valcamonica viene a scongiurarmi di seguirlo nell'alloggiamento soldati. "Venga subito, padre; vogliono mangiare mio cugino. Compagni, pazzi e inferociti dalla fame, attentano alla sua vita". Lungo il percorso si notano evidenti tracce di antropofagia: scheletri decapitati, braccia e gambe spolpate, ventri squartati, brandelli di membra abbandonati tra detriti di ogni genere. L'alpino mi racconta di scene ributtanti che avvengono nottetempo. Suo cugino, uscito dal campo a lavorare, è stato colpito a fucilate da una guardia russa, nell'atto di lasciare la fila per raccogliere patate gelate ai margini della strada. Ne ha riportato una gamba stroncata ed è in pericolo di vita. Al mio arrivo nell'alloggiamento, quattro forsennati tentavano di forzare la porta di una stalla con un legno appuntito, usato come leva. Il sangue di cui il ferito ha segnato il percorso, li ha richiamati alla porta, dietro la quale altri invasati difendono come un tesoro la sorgente di quel sangue. La mia presenza convince i disgraziati a desistere dalla mostruosità; riesco a far loro comprendere che quello che stanno facendo è un delitto orribile, che macchia la loro coscienza di cristiani e di italiani. Tornano a poco a poco, vergognosi, in se stessi. Ora non pensano più a bere il sangue del moribondo: pregano con disperata invocazione. Il ferito è in agonia, assistito da qualche amico e dal cugino. Gli uomini che occupano quella baracca sono complessivamente una ventina. Il moribondo ha coscienza di quanto avviene attorno; mi prega di salvarlo dalla ferocia dei cannibali. Lo tranquillizzo e accolgo la sua confessione; con lui assolvo tutti quelli che hanno le ore contate.

In un'altra occasione... Un alpino aveva con sé un fratello; stavano sempre insieme, si parlavano continuamente, come se avessero tante cose da dirsi. Ciascuno aveva giurato all'altro di difendere il corpo contro gli assalti dei bevitori di sangue e dei mangiatori di visceri. Il servizio di sorveglianza, istituito (dagli alpini) per evitare tali eccessi, non arrivava dappertutto; ogni mattina si trovava qualche cadavere mutilato. Uno dei due fratelli si ammala, i compagni cominciano ad avvicinarsi al degente, ne fiutano la fine. Egli muore infatti dopo una decina di ore. E' già notte, nessuno sarebbe venuto a vedere quello che succedeva là dentro. Il fratello superstite rimane desto, con le spalle al muro, tenendo nell'arco delle gambe divaricate e con i piedi ben puntati contro il suolo, il corpo rattrappito del morto. Lottando contro il sonno tiene d'occhio i compagni che intorno a lui fanno finta di dormire. In realtà alcuni fra essi aspettano il momento buono per impadronirsi del cadavere e cuocerne i visceri sul coperchio della gavetta. Verso l'alba vanno in due a parlamentare con fratello. Gli dicono che non è il caso che egli continui in quello sforzo, che bisogna togliere il morto di mezzo, si sarebbero incaricati loro due della sepoltura. Gli parlano dolcemente, con inconsueta bontà. L'alpino stanco di quella notte, di quel dolore, di quella mostruosa paura, cede alle insistenze, consegna il cadavere di suo fratello e ridendo si lascia cadere a terra, è impazzito".



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