venerdì 30 ottobre 2020

I giorni e gli anni, parte 3

Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. La cartina riportata è stata ricavata da Google Earth dopo le opportune verifiche sul campo e riporta la posizione del Raccordino rispetto agli altri punti di riferimento citati nel libro.

IL RACCORDINO.

La notte del Raccordino fu la notte del freddo, del sonno, della rassegnazione. Ci accanivamo a battere i piedi a terra o contro le pareti del trincerone, dove si era raccolto tutto il gelo di Russia, o ci picchiavamo sulle braccia incrociando le mani guantate. Fermarsi per la stanchezza significava sentire subito le ossa scricchiolare come legna secca. A turno ci buttavamo sui tavolacci umidi e sporchi dell’unico rifugio. Il fumo della stufa rendeva l’aria irrespirabile. Appena entrati gli occhi lacrimavano e la tosse prendeva alla gola, poi ci si abituava al fumo e all’aria pestilenziale. Si era al caldo, dopo tutto, e si aveva l’impressione di sentirsi quasi al sicuro.

Percorrevo il camminamento-trincea e ad ogni piazzola trovavo la solita domanda: "Non è ancora venuto il nostro turno di andare a scaldarci?". "No, c'è tempo. Battere i piedi e tenere gli occhi aperti". Non avevamo un compito da poco. La nostra posizione, che doveva fungere da raccordo fra due capisaldi, in realtà era una trincea isolata, piazzata non su una "gobba" del terreno, ma in una zona piuttosto piatta. A destra, il caposaldo X rimaneva a più di mezzo chilometro e il collegamento era tenuto da una pattuglia di 8 uomini che tra l’altro aveva il compito di sorvegliare la balka boscosa che scendeva fino a Ogolewka, perché di lì i pattuglioni russi avrebbero potuto infiltrarsi alle spalle del nostro schieramento. A sinistra, a circa due chilometri, il caposaldo Z, con cui "si sarebbe dovuto" mantenere il collegamento per mezzo di una pattuglia di tre uomini, che "avrebbe dovuto" incontrare a metà strada un'altra pattuglia di eguale forza proveniente dal caposaldo Z. C'era tutto per stare insicuri e rassegnati.

I russi non davano tregua con le mitragliere, coi mortai, coi proiettili traccianti che sembravano partire a volte da postazioni oltre il fiume, a volte da armi piazzate a poche decine di metri da noi allo scopo di mantenere il nostro improvvisato schieramento in una costante tensione. I loro razzi colorati illuminavano a giorno tutta la riva destra del Don.

Da noi le Breda ogni tanto si inceppavano, il moschetto 91 era poco più che un bastone ingombrante, le due mitragliatrici pesanti in nostro possesso erano tenute in esercizio, sparando raffiche a casaccio, per non trovarle bloccate dal gelo. Le sentivamo così preziose che, quantunque il trincerone non fosse lungo più di 200 metri, le cambiavamo sovente di postazione per cercare di renderle più difficilmente individuabili dai precisi mortai russi.

Così aspettammo le prime luci dell'alba, l'ora ufficiale delle sorprese, degli attacchi improvvisi. Ancora nelle viscere la sensazione che solo il caso poteva proteggerci.

Il caso (o l'imperscrutabile piano operativo dei russi?) per quella notte fu dalla nostra parte. Estrema tensione degli animi per quanto avrebbero potuto fare gli altri, ma niente di più. Così ancora nelle prime ore del mattino. Il fronte era come caduto in un improvviso letargo, non si udiva nessuno sparo, la calma era assoluta. Il freddo, il sonno, la tensione avevano accasciato anche i più resistenti; poi trascorse qualche ora tranquilla, si vide chiaro, arrivò il caffè caldo e un po' di cognac. Alla tensione subentrò la rassegnazione di fronte alla prospettiva, ritenuta certa, di passare nel trincerone del Raccordino, russi permettendo, ancora giorni e notti. Invece, verso mezzogiorno, una compagnia di guastatori, ravvolti in bianche casacche, venne a darci il cambio. Un quarto d'ora per passare le consegne, per dare alcune indicazioni sommarie all'ufficiale genovese che comandava i guastatori, poi una stretta di mano, "Ciao, Poggi, ti lascio il Raccordino. Buona fortuna!". "Buona fortuna anche a te. Arrivederci".

Nei pressi dell'Olimpo si ricongiungemmo con quanto rimaneva del 6° battaglione e ci mettemmo in marcia nella direzione di Getreide Swiss, rifacendo a piedi la strada percorsa in camion la mattina del 12. Cominciava a scendere la sera quando ci fermammo presso un immenso capannone dai muri di mattone e dal tetto di paglia, forse la stalla o il magazzino di un colcos. Ci buttammo sulla paglia, soddisfatti di quanto avevamo trovato. I combattimenti dovevano aver ripreso ad infuriare a pochi chilometri di distanza, perché ne giungeva l’eco chiarissima; ma a noi pareva già di essere lontanissimi, fuori tiro.

Restammo nel capannone il 14 e il 15 dicembre. Dormimmo e riorganizzammo alla meglio i reparti, equilibrando i vuoti. Da casa era giunta molta posta; a me anche un pacco con l’uva augurale per il primo dell’anno. Occupai varie ore a rispondere ai miei. Mi piaceva scrivere singolarmente a mia moglie, ai miei genitori, a mia nonna, anche se sapevo che le lettere differenziate sarebbero state lette collegialmente, riuniti tutti alla sera attorno al tavolo su cui troneggiava Laura addormentata o sgambettante nella piccola culla. Del resto, lo schema degli scritti era unico: assicuravo che il battaglione era a riposo nelle retrovie, perciò i miei dovevano stare tranquilli; l'inverno, poi, e tutta la neve che sarebbe caduta, avrebbe impedito le operazioni di guerra, nessuno si sarebbe mosso; il freddo secco e sano si sopportava bene. La mistificazione "pietosa" era conforme alla propaganda del regime.

Noi, forse, cercavamo di esorcizzare la realtà di cui eravamo prigionieri, inseguendo ingenuamente anche l'obiettivo di "ricaricarci", ma sui giornali giunti dall'Italia col solito mese di ritardo leggemmo un discorso di Mussolini che ci parve rivelare, forse per la prima volta in maniera tanto scoperta, che la retorica non poteva più nascondere le difficoltà e le debolezze del regime all’interno e sui fronti di guerra. Ci fu chi disse che ormai la campana dava un suono fesso.

Tuttavia quel po’ di riposo, come sempre accadeva, ridiede confidenza con la vita e riaprì l'animo alla speranza. Speranza di vivere, non di vincere. Elemento determinante per quella generale ritonificazione fu la notizia, fatta circolare la sera del 14, che il generale Troiano, che aveva sostituito nel comando del raggruppamento il gen. Diamanti, tornando in Italia ai primi freddi, era partito in macchina per andare a cercare nelle retrovie gli accantonamenti, dove avremmo trascorso tranquillamente e al caldo tutto l'inverno.

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