giovedì 29 dicembre 2022

Ritorno sul Don, parte 4

Lasciamo Charkov al primo albore perché la strada sarà molto lunga. Dopo circa centocinquanta chilometri di camionabile asfaltata ci inoltreremo per piste di terra battuta sino a raggiungere Valuiki, poi piegheremo a nord-est per Nikitovka e Arnautovo, e da li, per Nikolajevka lungo la strada del nostro ripiegamento, ritorneremo a Charkov per Sebekino e Bielgorod. Per buona sorte il cielo è limpido e la temperatura fresca, appena qualche grado sotto zero. Il nostro autista si chiama Jurij e l'accompagnatrice, che parla il francese, Larissa. La macchina, una Volga, affronta con buona velocità la strada e sorpassiamo i camion dei kolcosiani che vanno al lavoro, trattori, motocarrozzelle. Dopo una cinquantina di chilometri costeggiamo un grande lago artificiale e Larissa ci spiega con orgoglio che quest'acqua serve per le industrie metallurgiche di Charkov: viene pompata, usata, depurata e nuovamente qui rimessa.

Più avanti entriamo in quella parte dell'Ucraina meno abitata, i villaggi sono lontani tra di loro decine di chilometri; a tratti, dopo le distese di terra nera e grassa, affiorano colline biancheggianti solcate dai calanchi; le isbe hanno quasi tutte il tetto di paglia; le strade sono piste di terra battuta, come allora, e, ai lati di queste, ogni tanto compaiono i lunghi pagliai dove avevano trebbiato nell'estate. Era sui pagliai come questi che molte notti si cercava riparo dal freddo e dalla tormenta; qualche volta venivano incendiati da quelli che stavano sotto, e chi stava sopra finiva bruciato. Spiego questo sottovoce a mia moglie ma anche Larissa ha capito qualcosa e chiede spiegazioni. In russo-francese tento di farmi capire e l'autista che segue attentamente le mie parole dice dopo: - Anch'io ho combattuto da queste parti; da Voronesc a Valuichi nell'inverno del '43. Davanti a noi avevamo gli ungheresi; ma poi ho visto anche gli italiani. E sempre camminando sono arrivato sino a Berlino nel 1945. Ha la mia stessa età, ed è uno dei rari sopravvissuti di questa leva in Urss. - I nostri compagni, - dice, - sono tutti morti!

La strada diventa sempre più accidentata, sul fondo delle balche ci sono dei fossi che ci fanno sbattere la testa contro il tetto della vettura, ma Jurij è un autista eccezionale e guida la sua Volga come fosse un carro armato. Il viso di Larissa non è più allegro come alla partenza; anche per lei, abituata ad accompagnare operatori stranieri nelle officine di Charkov, questa Russia forse è nuova. Quando attraversiamo un villaggio mia moglie guarda curiosa le isbe e dice: - A vederle, le donne sembrano vestite in maniera goffa, ma tra le casupole ho visto stesa della biancheria che non ha niente da invidiare alla nostra.

È mezzogiorno e abbiamo continuato ad andare senza mai fermarci; consultando le carte e i chilometri fatti dico che si dovrebbe essere fuori dall'Ucraina e già nella repubblica russa. - È vero! - mi conferma Jurij. E Larissa ridendo: - Andiamo per le Russie! Finalmente incontriamo una tabella che indica Valuichi a quarantatré chilometri. Ci arriviamo dopo l'una e quando scendo dalla macchina sento che ora, si proprio ora, sono tra loro. Tra gli alpini, dico. E mi allontano dal gruppo per una strada qualsiasi. Quasi mi viene da chiamare nomi. Qui, tra queste case, per queste strade, per questi orti finirono i resti della Julia e della Cuneense tra il 26 e il 28 gennaio del 1943. I paesani e i ragazzi mi guardano curiosi: - Chi sarà questo straniero dal passo incerto?

Mia moglie mi chiama e anche Larissa e Jurij mi fanno cenno di ritornare. Nel ristorante del Soviet locale è pronto da mangiare per noi. Ma io prima mi aggiro ancora, solo, attorno alla chiesa bianca e celeste dove vecchie contadine sono forse venute in pellegrinaggio dalla campagna. Cantano sommesse, e sopra le loro voci esili sento quella baritonale del pope. Quanti nostri feriti, quanti nostri morti alpini saranno stati dentro e attorno questa chiesa di Valuichi? La luminosità del cielo, il miele dorato della chioma delle betulle sopra il prato, il suono delle campanelle nell'arco della porta bianca e azzurra, i canti sussurrati, i giochi delle ombre che il sole tra le foglie fa sui volti di alcune vecchie appoggiate al muro e che mi guardano miti, mi fanno per un attimo cancellare ben altre immagini che impetuose risalgono vivide e con violenza. Sto trepidante a guardarmi attorno assorbendo da ogni poro questo di oggi per mitigare quello di allora.

Finché mia moglie e Jurij mi vengono a prendere perché la tavola è già imbandita e la solianka va raffreddandosi. La nostra colazione non è ancora terminata che viene da noi un uomo con gli occhiali; ci dice: - Il segretario del Soviet di Valuichi vi aspetta nella sede; vi prego, quindi, appena avete finito, di seguirmi.

L'edificio vecchio mi ricorda la scuola elementare della mia infanzia: le spesse mura di pietra, i pavimenti di legno, le porte tinteggiate con olio di lino e terraombra, le pareti a calce, l'odore di varechina e il silenzio. Si, certo, qui dentro c'erano; mi sembra di sentire la loro presenza fisica e guardo attorno in ogni angolo e sento parole piemontesi e furlane nell'aria immota. Saliamo in silenzio quattro rampe di scale; in un corridoio un ufficiale d'artiglieria - forse un generale? - passeggia in attesa di qualcosa. L'accompagnatore con gli occhiali e dall'aria di seminarista, senza bussare apre una porta e ci fa entrare. Mi accorgo che con noi non c'è Jurij e mi sento come indifeso; sento pure la preoccupazione di mia moglie e la improvvisa remissività di Larissa.

Stava dietro una scrivania e dietro, sopra la parete campeggiavano un ritratto di Lenin e una bandiera rossa ricamata con simboli in oro. Con un gesto ci indica una panca laterale dove sederci; di fronte a noi, sull'altra panca, stanno seduti l'uomo che che è venuto a chiamarci e un altro uomo più anziano dall'aria bonaria di fabbro paesano. Senza farsi vedere dagli altri, mi sorride con gli occhi. Il segretario del Soviet è magro, asciutto, dal lineamenti del viso decisi e convinti, lo sguardo assorto; parla sottovoce senza alcun gesto o inflessione. Anche Larissa, che è seduta sull'orlo della panca dopo mia moglie e fu da interprete, risponde sottovoce e computa: sembra di essere in una chiesa di frati ma anche, mi sembra, un interrogatorio.

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