martedì 27 dicembre 2022

Ritorno sul Don, parte 2

Questa era la terza volta che andavo nelle Russie; la prima fu quando partimmo da Aosta con il Cervino, la notte del 13 gennaio 1942. Nevicava, allora. Gli alpini salivano sui vagoni con fiaschi e bottiglie in mano e nello zaino, e vino in corpo; si cantava e uno della mia squadra frantumò un fiasco pieno sulla testa di un ufficiale superiore che ci voleva contegnosi e disciplinati. Il vino rosso gli colava giù dal viso e fino in terra lungo la divisa, e con il cappello schiacciato in testa stava li stupito senza dire parola. Il viaggio fu lungo, durò fino al 21 febbraio: quaranta giorni attraverso la Germania, la Polonia e l'Ucraina. Il freddo era intenso e persistente. Il treno tutto coperto di ghiaccio molte volte era costretto a fermarsi perché si congelavano gli impianti di riscaldamento, o i freni non funzionavano. Nei vagoni installammo delle stufe e per farle funzionare molte volte andavamo a rubare il carbone nei depositi delle stazioni.

Più avanti, in Polonia, il treno si fermava perché i partigiani facevano saltare i binari o i ponti sui fiumi. Allora, in quelle lunghe soste, l'aiutante di battaglia Gualdi ci raccontava di quando era stato al Polo Nord con il capitano Sora alla ricerca della Tenda Rossa; o, anche, con Gigi Panei cantavamo le canzoni abruzzesi. Ogni mattina con il fiato scioglievo un cerchietto di ghiaccio sul vetro del finestrino e attraverso questo foro osservavo curioso un mondo insolito e nuovo: sterminate pianure, foreste sepolte nella neve, villaggi, voli di corvi, lepri, caprioli. Un giorno incrociammo un treno carico di feriti che scendevano dal fronte di Mosca; stavano ammucchiati sulla paglia dentro i vagoni merci, fasciati con bende di carta, poco coperti, pidocchiosi. Erano nelle medesime condizioni di come si sarebbe stati noi un anno dopo, all'uscita della sacca del Don. Un alpino di Gressoney che parlava tedesco chiese a uno di loro sua volta ci aveva chiesto da fumare: - Come va la guerra? - Merda! - ci rispose.

Nello scompartimento di terza classe assieme a me c'erano De Marzi, Bonomi e Marcellin; due dormivano sulle panche e due sui teli da tenda tesi come amache. Io stavo sopra, dentro il telo, e quando il treno partiva o si fermava gli scossoni erano tali che si dondolava per un bel poco. Nelle stazioni dove si fermavano per fare rifornimento di acqua e carbone, andavamo di corsa nei posti di ristoro della Croce Rossa; là ci davano in abbondanza infusi di tiglio che le inservienti si ostinavano a chiamare tè, o anche, ci davano, pappette di semolino. Strane, in quelle stazioni, erano anche le latrine: stanghe sospese orizzontalmente sopra le fosse dove si stava accovacciati con la stanga sotto le ginocchia come lunghe file di uccelli sui fili della luce.

Una volta ci dissero che il treno sarebbe stato fermato per almeno sei o sette ore. C'era una stazioncina semidistrutta con un passaggio a livello, e lontano, dentro la bianca pianura, un villaggio coi tetti di paglia. Andammo verso il villaggio, e lungo la strada un contadino ci fece salire sulla sua slitta. C'era il mercato: uova, galline, nastri, paste colorate, semi di girasole, sedie impagliate, utensili da tavola in legno e donne che conversavano animatamente. Due soldati tedeschi delle SS, armati di tutto punto, osservavano staccati e con aria di sufficienza. Barattammo due saponette e un pettine con parecchie uova.

In un altro villaggio incontrai un vecchio che nel 1917 era stato con gli austriaci nel mio paese devastato; io gli offrii tabacco e lui mi portò un secchio di birra, e stemmo a conversare in una lingua strana, ma dicendoci tante cose, durante tutta la sosta. Il 7 febbraio eravamo a Leopoli e qui più che altrove si vedevano i segni della guerra. I cittadini silenziosi e dimessi nella stazione semidistrutta mi fecero più impressione che non i carri armati e gli aeroplani sui campi delle grandi battaglie. E dopo, a mano a mano che ci si addentrava nell'Ucraina, non si vide una stazione ferroviaria intatta, né una fabbrica; cosi che pareva impossibile che un treno potesse ancora andare.

Il 23 febbraio il generale Messe che comandava il CSIR venne a Jassinovataja e ci fece il discorso. Disse che il Cervino era un battaglione speciale, da non sprecarsi, e che il nostro compito sarebbe stato di far pattuglie nelle retrovie russe e colpi di mano.

Venne un marzo freddo che per niente annunciava la primavera. Si andava di pattuglia con gli sci per le pianure nei dintorni di Rikovo, e un giorno ci imbattemmo in una grande fossa ricolma di cadaveri nudi di ogni età e sesso. Restammo sconvolti e quando un tenente volle ritornare su quel posto con la macchina fotografica, trovò le fosse coperte con terra e neve. Nei giorni di riposo andavamo a fare i tiri contro le piramidi dei materiali di scarto delle miniere, o anche in un grande stabilimento dove ci dicevano di disfare gli impianti elettrici e i grossi cavi di rame delle centrali. E mi faceva rabbia veder distruggere impianti costosi per ricavare il metallo. Dicevano, gli alpini, che il rame serviva in Italia per solforare le viti.

Qualche pomeriggio ci portavano anche a teatro. La compagnia teatrale era di ragazze e ragazzi ucraini che ballavano e cantavano in costume. I soldati che affollavano il teatro di Rikowo fischiavano, urlavano e battevano i piedi quando nel ritmo della danza apparivano le ginocchia delle ragazze o sobbalzavano i seni. Ma certe canzoni profondamente malinconiche facevano stare tutti zitti. Quel che era strano in quel periodo era che di notte si facevano pattuglie e colpi di mano e di giorno si andava a spasso per la città o a teatro.

Nella primavera del 1942 ritornai in Italia con alcuni compagni, alla Scuola d'Aosta. Alla stazione di Jassinovataja, Simonutti e Anzi rubarono alla sussistenza un barile di cognac; dopo la bevuta si addormentarono in Russia e si svegliarono a Udine. Nell'estate ritornai al mio reggimento e ripartimmo per le Russie la seconda volta.

Eravamo in tanti, questa volta, tre divisioni: nove reggimenti di alpini e tre di artiglieria, e i servizi; tanti lunghi treni, con tanti muli, non i trecento alpini del Cervino. Diceva, radio scarpa, che si sarebbe andati nel Caucaso per poi scendere da lì per l'Armenia sino a incontrare l'armata dell'Africa che sarebbe salita dall'Egitto. Ma in una tampa a Torino, la sera prima di partire un operaio della Fiat mi aveva detto: - Non finirà tanto presto questa guerra. La Russia è grande. Cosa credono di fare Mussolini e Hitler? La fine di Napoleone, faranno. Quello che ti auguro è di ritornare a casa-. Bevemmo insieme un paio di bottiglie.

Era una domenica mattina e, al comando «Zaino in spalla, riposo», uscimmo dalla caserma Monte Grappa con la bocca ancora impastata per il vino della notte. Le strade mattutine di una Torino ancora addormentata erano deserte; i rari passanti si fermavano sui marciapiedi e ci guardavano passare senza farci alcun gesto. Il rumore dei chiodi degli scarponi e zoccoli dei muli sull'asfalto di corso Vinzaglio sembrava riempire la città; nelle case la gente dentro i letti forse ascoltava questo rumore giungere alle finestre e svanire come un brontolio. Erano gli alpini della Tridentina che andavano in Russia.

Alle 10,40 la tradotta parti, e Gazzoli, il tromba della compagnia, suonò l'avanti; il macchinista rispose con il fischio del vapore. Gli alpini urlarono. Dopo i primi giri delle ruote Bona intonò: «Non ti potrò scordare piemontesina bella...» e tutto il treno rispose al suo invito. Cosi, con un grande coro, partimmo dalla stazione di Porta Nuova quella domenica del 26 luglio. A Brescia trovammo tanto vino perché dalle montagne erano scesi i parenti dei nostri compagni bresciani; vino, pane e salame anche a Verona per i veronesi, e anche a Trento per i trentini. Poi, quando il treno scese dall'altra parte delle Alpi, stavamo a guardare dalla porta spalancata del carro ferroviario, con le gambe a penzoloni.

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