martedì 3 gennaio 2023

Libri: "AMINTO CARETTO"

"Aminto Caretto - Una vita al fronte: dalle trincee della Grande Guerra alla campagna di Russia".

Poche figure hanno attraversato la storia italiana del novecento lasciando un ricordo così indelebile come quella di Aminto Caretto. In un secolo caratterizzato da due devastanti guerre mondiali incarnò al meglio la figura di soldato valoroso trascorrendo quasi tutta la sua vita al fronte. Il giovane Capitano Caretto guidò con coraggio il Reparto d’Assalto della IV Brigata Bersaglieri da Carzano a Cima Valbella, fino al Piave e alla vittoriosa controffensiva finale.

Nel 1922 inoltrò domanda per essere dislocato presso le Truppe Coloniali d’Eritrea impegnate in Cirenaica. Caretto rientrato in Italia nel 1926 venne inviato all’ 11° Reggimento Bersaglieri a Gradisca d’Isonzo. Assunse il comando del Terzo Reggimento Bersaglieri nel 1940 dopo un breve periodo operativo nei Balcani, per poi essere inviato sul fronte russo. I documenti dell’epoca e i diari reggimentali ricostruiscono i nove cicli operativi che il Terzo effettuò tra l’estate 1941 e l’autunno 1942; culminando con la Battaglia di Natale. Il libro, attraverso la figura di Aminto Caretto, ricostruisce anche le operazioni di altri reparti che affiancarono le truppe alpine. Tra questi il Sesto, l’Artiglieria a Cavallo, i Cavalleggeri del Savoia Cavalleria e i Lancieri di Novara.

Ritorno sul Don, parte 8

Di notte, stando sulla riva alta di questo fiume, vedevamo lontano delle luci che parevano un altro firmamento; ed è da qui che sono partiti per liberare la loro patria e l'umanità dal nazismo. Si fermarono quando raggiunsero Berlino. Sul ponte di barche, nel mezzo del fiume, un vecchio è assorto a pescare e mi fermo con lui in silenzio. Dopo un poco gli chiedo in russo: - Kak dielà? - Nicevò, - mi risponde girando appena la testa. E sorride con gli occhi, non stupendosi del mio essere straniero.

Con tutto il cuore avrei voluto sostare a lungo su quel ponte a pescare con il vecchio, a sentire l'acqua frusciare contro i legni mentre il sole incendiava di colori il bosco autunnale. Anche i pesci che tirava su brillavano nell'ultimo sole come le cupole delle chiese ortodosse. Il vecchio voleva offrirmeli. Con un cenno lo salutai e ripresi la strada del ritorno. Mia moglie, Larissa e Boris mi aspettavano accanto alla macchina. E ripartimmo.

Allora, in quella notte del 18 gennaio 1943, questa pista che va a ovest era gremita di muli, di automezzi, di battaglioni di alpini della Tridentina che avevano lasciato il Don con troppo ritardo per obbedire a un ordine dell'OKW di Hitler; era stato lui che aveva ordinato al comando dell'VIII Armata italiana che il Corpo d'Armata Alpino non lasciasse il fiume. Da Rossoch saliva la Julia che per un mese in aperta steppa aveva fermato la fanteria e i carri armati russi che avevano rotto il fronte nell'ansa di Verk Mamon e che avevano tentato di aggirarci. Dalla zona di Karavut veniva il 1° reggimento alpini e da Staraia Kalitva il 2° e i gruppi del 4° artiglieria alpina. Dal Nord, dove la 23a divisione ungherese aveva abbandonato la linea di propria iniziativa, le masse degli sbandati ungheresi e tedeschi intasavano villaggi e piste da Judino a Podgornje.

I soldati russi dei reggimenti della Guardia e i carri armati stavano chiudendoci nella sacca. I villaggi bruciavano, negli ospedali gli ufficiali medici più giovani tiravano a sorte chi doveva restare per assistere i feriti che non potevano andarsene con le proprie gambe. Le tradotte con i complementi che arrivavano all'Italia, nelle stazioni a ridosso del Don invece di trovare i nostri comandi tappa trovavano i carri russi. Colonne motorizzate di servizi e di salmerie arretrate pistavano veloci al di là dello sbarramento per raggiungere Charkov.

Noi si restava dentro la bufera; ancora reparto per reparto, squadra per squadra. Fino a quando abbiamo trovato i magazzini abbandonati dove i pochi civili rimasti nei villaggi e i partigiani cercavano di salvare dalle fiamme quanto potevano. Allora incominciarono a staccarsi i primi; e di quelli che trovarono il cognac nelle botti forse non si è salvato nessuno. Le notti e i giorni del 19 e del 20: incursioni di carri armati, mitragliamenti aerei, i primi morti assiderati ai lati delle piste, i primi bruciati dentro le isbe. La prima grande fame di sonno e di baita.

Ora abbiamo lasciato alle nostre spalle le case di Bielogoroje, e al rosso di quello straordinario tramonto sul Don si è ora sostituita una notte tranquilla. Quelle luci che vedo alla mia destra sono forse delle isbe di Kasinka; allora, lassé, c'era il Verona, e di là partimmo in una notte di estremo gelo per andare giù verso Bojvolovka, a dare il cambio in linea al Valcismon della Julia. Che notti in quel dicembre del 1942! E don Carlo Gnocchi con gli alpini dell'Edolo preparava il presepio in una tana sopra il fiume gelato. Ricordo le postazioni, le pattuglie di collegamento con il Morbegno, le ore nei ricoveri e l'odore e la macina del grano e la polenta di segale e i semi di girasole; e le armi che non volevano sparare e l'alpino Lombardi che stava sempre silenzioso e staccato, indifferente nel suo grande coraggio perché la morte era già in lui. Giuanin: - Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?

Vorrei dire a Boris di fermare la macchina per farmi scendere, a Larissa di accompagnare mia moglie a Charkov e farla ripartire per l'Italia e io restarmene qui solo, per tutto l'inverno in questi villaggi, e camminare dall'uno all'altro. In silenzio, sulla neve. Fino a primavera, fino al disgelo, e dopo riprendere il treno per casa. Ma questo non lo posso chiedere; posso solamente pensarlo e immaginarlo; nemmeno accennarlo, a loro. È già molto cosi. Quanti di quelli che siamo usciti dalla sacca, dai Lager, dalla Resistenza, dalla guerra degli alpini, insomma, vorrebbero essere qui stasera con me?

La macchina corre veloce tra il Don e Alessjevka; ancora paesi di allora: dopo Podgornje, Opit, Postoiali, Novo Charkovka. Borìs tiene il finestrino completamente abbassato per sentire il vento della corsa tenerlo sveglio e fuma in silenzio; mia moglie per il freddo si stringe a me. Ma forse non è solamente per il freddo. Larissa dovrebbe essere molto stanca perché da qualche ora non dice una parola. Ad un tratto accende la radio e dopo la musica jazz e cubana sentiamo il bollettino meteorologico; Larissa mi spiega che nel Nord della Russia nevica, che il freddo e il fronte di basse pressioni ha investito l'Ucraina settentrionale.

E' per questo che prima, guardando in cielo, non vedevo più le stelle. Le foglie di betulla che il vento strappa dai rami vengono ad illuminarsi davanti ai fari della macchina come balenanti farfalle: «Se venisse ora a nevicare, - penso, - forse saremmo costretti a fermarci, a cercare un'isba per chiedere ospitalità e ripartire domani». Ora desidero questa neve che ho tanto maledetto, che mi ha ossessionato per anni; la desidero per passare una notte sopra la stufa di un'isba, perché troverei ad aspettarmi tutti gli amici e i compagni che non sono arrivati a baita.

Cronaca di una sconfitta annunciata, 03.01.43

Cronaca di una sconfitta annunciata; dall'11 dicembre 1942 al 31 gennaio 1943, giorno per giorno, la cronistoria dell'ARMIR durante l'offensiva sovietica "Piccolo Saturno". Tratto da "Le operazioni delle unità italiane al Fronte Russo (1941-1943), edito dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.

3 GENNAIO.

Nulla di rilevante viene riportato nel testo dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.

lunedì 2 gennaio 2023

Storia Illustrata 1999, parte 9

Speciali di Storia Illustrata, Campagna di Russia - La tragedia dell'ARMIR, Agosto 1999, nona e ultima parte.

































































Cronaca di una sconfitta annunciata, 02.01.43

Cronaca di una sconfitta annunciata; dall'11 dicembre 1942 al 31 gennaio 1943, giorno per giorno, la cronistoria dell'ARMIR durante l'offensiva sovietica "Piccolo Saturno". Tratto da "Le operazioni delle unità italiane al Fronte Russo (1941-1943), edito dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.

2 GENNAIO.

Nulla di rilevante viene riportato nel testo dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.

Ritorno sul Don, parte 7

Il luogo mi è noto anche se non c'è la neve. Sono certo di essere tra Postojali e Seljachino. Ma perché queste macchie d'alberi lontani, questa terra, queste lunghe erbe secche e questo cielo si impastano e sfumano in un'unica linea orizzontale? Si sciolgono come se una calda luce liquida li dissolvesse. Da laggiù siamo arrivati dopo aver lasciato il Don e per questo lungo dosso abbiamo camminato tra il 20 e il 22 gennaio. Vorrei camminare come allora lungo una traccia che so, e dormire nelle isbe; e vorrei che fossero qui anche loro: gli amici che sono rimasti vivi e che mai, forse, qui potranno ritornare. Ma gli altri come potranno capire questo?

Ecco, da qui, a ogni gruppo di isbe è legata la nostra storia; una storia di alpini della Julia, della Cuneense, della Tridentina, del Cervino. Siamo passati per ogni pista e i nostri nomi gridati nella tormenta di queste steppe. Morte, speranza, disperazione, fatalismo. Chi potrebbe dire tutto? Nessuno. Nessuno saprà tutto. E per tutti e per ognuno una storia diversa. Ed eravamo in tanti.

Cammino un poco da solo, e ai margini di uno stagno inselvatichito osservo i resti di quattro isbe. Vedo tra le erbacce le stufe di mattoni, i camini crollati, qualche trave carbonizzata. Per chi si sarà svolta qui l'ultima parte del dramma? Da quale paese delle nostre montagne sono venuti a morire qui? Tutt'intorno non si vede un essere vivente. Nemmeno corvi, o uccelli nello stagno. Mi sembra d'essere dentro un profondo oceano, ma anche provo una malinconica pace. Mia moglie, Larissa e Boris non parlano; forse anche loro sono colpiti da questo immobile silenzio. Passiamo per Olichovatka; scendiamo lungo il Kalitva e alle due pomeridiane arriviamo a Rossoch. Boris, Larissa e mia moglie cercano un ristorante o un'osteria, se c'è, ma io vado intanto per le strade dove hanno combattuto e sono morti gli amici del Cervino e della Julia. Mi guardo attorno e mi sembra strano vedere la gente tranquilla vicino alla chiesa ad aspettare la corriera, e non sentire i carri armati e le raffiche dei mitra. Proprio li, tra la chiesa di San Nicola e la stazione (che ancora porta i segni di allora) è stato visto per l'ultima volta il Mario Pesavento, mio compagno alle elementari. Suo padre lo vedevo tutti i giorni passare davanti a casa mia quando tornava dalla cava; ora ha tanti anni, ma l'ultimo suo lavoro di scalpellino è stato un monumento per i dispersi in Russia.

Anche qui a Rossoch c'è un monumento dentro un giardino di betulle e di aceri; è per i loro caduti e a fatica traduco: «Alla gloria eterna di coloro che sono morti per la liberazione e l'indipendenza del loro paese». Un poco fuori del centro, lungo la strada che scende a Novo Kalitva, hanno trovato un ristorante. Prima di sedermi al tavolo mi avvicino al banco per comperare qualcosa per il viaggio perché prevedo una cena molto lontana: - Sono un italiano, - dico alla donna che mi serve. E vedo il suo viso trasfigurarsi: impallidire, arrossire, gli occhi illuminarsi e inumidirsi; sorridere, infine.

Non riusciamo a parlarci. Questa donna che per l'emozione non è capace di avvolgere il pacchetto avrà avuto vent'anni. Mi dice: - Dasvidània! - E poi, in italiano: - Arrivederci -. E nient'altro. Mangiamo la solita solianka, montone arrosto, cavoli. Per bere c'è vino di ciliegie o birra. Boris solamente acqua, come aveva fatto Jurii del resto perché chi guida non può assolutamente bere alcolici.

Ora ho fretta di arrivare sul Don, anche se Larissa dopo essersi allontanata dal gruppo per telefonare, mi dice che il Soviet di Rossoch gradirebbe una visita. - No, - dico, - se è possibile; si farebbe troppo tardi. E poi bisogna ritornare a Charkov viaggiando tutta la notte. Andiamo subito a Podgornje. Vorrei anche andare verso Staraja e Novo Kalitva, a Quota Pisello, dove hanno combattuto quelli della Julia e della Cuneense. Ma lassù c'è il mio caposaldo: - Andiamo, - dico, accennando al Nord.

Ecco Podgornje con la fabbrica di calce e i carrelli che passano sopra la strada; qui ogni cartello indica un nome noto: Saprina, Morosovka, Serghejevka, Opit, Dacia, Scororyb, Basovka, Morosov. Passo dopo passo, dal Don fino a qui, la prima notte della ritirata, fino a queste isbe che ora mi vedo davanti nella verzura degli orti e con le donne sedute sulle panchine a chiacchierare. Allora ci apparvero dentro il fumo della tormenta dopo la notte più lunga e fredda. E dopo, l'uscita da questo paese per la salita dove i camion non ce la facevano, e i magazzini che bruciavano e il nostro ospedale divisionale con la grande bandiera bianca e la croce rossa, e i feriti che si trascinavano fuori sulla neve della via perché volevano venire con noi. sulla strada che va a Dacia c'è ancora il mulino a vento dove un giorno incontrai il Silvio dalle Ave che faceva il guardafili; ero passato con gli sci prima di andare in linea, per trovare Rino al comando del battaglione genio. Questo mulino indicava la strada ai nostri conducenti e ai portaordini, ed è come rivedere un campanile di paese. Stiamo attraversando un villaggio e Boris ferma la macchina vicino a un pozzo perché ha sete. Anch'io scendo per bere e sento il cuore salirmi in gola: in queste isbe c'era il comando del mio battaglione, del Vestone e là, verso la balca, avevamo scavato i ricoveri per invernarci. Invece, quando furono finiti, andammo in linea per prendere il posto del Valcismon.

Gli scavi erano grandi e profondi, per stare al caldo e al sicuro; uno ogni due plotoni. Noi mitraglieri del tenente Sarpi eravamo con i fucilieri di Cenci. Quanto abbiamo cantato là sotto quando veniva la sera! Ci sono ancora i segni degli scavi ed è come mi ritrovassi davanti tutti i compagni di allora e le voci: Artico, Tardivel, Moreschi, Bodei, Monchieri, Linardi, Corazza, Barp. Tutti. Bevo avidamente l'acqua di questo pozzo che ci dissetò anche allora. E adesso andiamo, andiamo in fretta Boris, voglio arrivare sul Don con la luce.

Bielogoroje; il paese che declina verso il fiume, a destra e a sinistra le due montagne biancheggianti, il boschetto e la piana con il fosso anticarro, le erbe, la riva e l'acqua che va lenta. Lo riconoscete, amici del Tirano, questo posto? Quante volte siete venuti di pattuglia dove ora cammino e non sparano? Quaggiù sulla riva c'erano i posti avanzati dove venivate di notte; sui dossi ci sono ancora i segni delle trincee delle postazioni e guardando verso il sole che tramonta indico con la mano i caposaldi. C'era il caposaldo «Madonna di Tirano» della 46, poi venivano quelli del Val Chiese e del Verona; laggiù, lungo il fiume, l'Edolo, il Vestone, il Morbegno. E poi ancora, lontano, la Cuneense e la Julia.

Scendo alla riva, con l'acqua mi bagno la fronte e raccolgo una manciata di terra. Un cartello dice che è vietato fare il bagno: forse perché sul letto ci sono ancora bombe a mano o mine? Un ponte di barche unisce le due rive; al di là la strada prosegue dentro il bosco e camminando su questo ponte dondolante ho l'impressione della vastità delle Russie. Quante migliaia di chilometri ancora? Foreste, città, pianure, fiumi, deserti, laghi, villaggi, steppe, montagne fino dove finisce il mondo.

domenica 1 gennaio 2023

Il viaggio del 2013, da Podgornoje a Postojalyi

Immagini del mio primo trekking effettuato nel 2013... Sabato 19 gennaio - 1a tappa Km.29: da Podgornoje a Opit, a Postojalyi. Nell'abitato di Opit incontriamo una "babushka" che, riconosciutoci quali italiani, nel pieno inverno russo ci viene incontro e inizia a parlare con la nostra guida Sasha. Racconta, racconta... e ci porta a questo vecchio fienile, e scopriamo che abbiamo di fronte a noi un pezzo di storia di quei tragici giorni. Il fienile era utilizzato come posto di medicazione per i numerosi feriti che le nostre truppe ebbero durante i primi scontro della ritirata. Nessuno di noi ha voluto entrarci, quasi a rispetto di quel luogo e delle sofferenze vissute all'interno.





Cronaca di una sconfitta annunciata, 01.01.43

Cronaca di una sconfitta annunciata; dall'11 dicembre 1942 al 31 gennaio 1943, giorno per giorno, la cronistoria dell'ARMIR durante l'offensiva sovietica "Piccolo Saturno". Tratto da "Le operazioni delle unità italiane al Fronte Russo (1941-1943), edito dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.

1 GENNAIO.

BLOCCO SUD.

Il 1° gennaio la colonna si spostava ad Ust Provalskij, dove sostava per un giorno. Il 3 raggiungeva Forschstadt, sul Donez. Di là, finalmente, i reparti erano trasportati per ferrovia a Rykovo, dove si raccoglievano il 5 gennaio.

BLOCCO NORD.

Il 1° gennaio continuavano i bombardamenti terrestri del nemico. I tedeschi restituivano al presidio italiano i magazzini italiani di quel centro logistico, che avevano subito vaste asportazioni di generi alimentari. Venivano tuttavia reperiti galletta bastante per 40 giorni per l'intero blocco di marcia, pasta e riso per 30, carne in scatola per 10, scarsissimi i grassi. Frattanto le forze della 19a Divisione corazzata tedesca, inviate a sbloccare Tcertkovo, erano state fermate a 14 chilometri da una consistente presenza del nemico, mentre il maltempo impediva l'intervento degli aerei tedeschi per rompere quella resistenza. Nelle giornate del 2 e del 3 gennaio non si verificavano particolari avvenimenti.

FRONTE DEL CORPO D'ARMATA ALPINO.

Nei giorni 1, 2 e 3 gennaio non veniva svolta importante attività operativa. Intensissima l'attività logistica per sostenere la resistenza fisica dei combattenti mediante distribuzioni straordinarie di viveri di conforto, calze di lana, cappotti con pelliccia, mantelli mimetici. I tedeschi concorrevano con la distribuzione di calzature di feltro, mandate a prelevare nelle lontane retrovie di Karkov e di Poltava. L'attività degli alpini era dedicata, nelle giornate di sosta, anche al perfezionamento dei lavori difensivi e della rete dei collegamenti.

DIFESA Dl VOROSCILOVGRAD E DI UN ALTRO SETTORE SUL DONEZ.

Tra il 1° ed il 6 gennaio, la Ravenna eseguiva l'ordine e si schierava sulla sponda destra del Donez, nel tratto compreso tra la confluenza del Derkul e l'abitato di Michajlovka. La fronte assegnata era ampia 45 chilometri. Alla Divisione erano stati assegnati i compiti di: - vigilare la sponda destra, occupandone gli abitati e sorvegliando gli intervalli; - impedire infiltrazioni nemiche con azioni convergenti partenti dalle località occupate; - arrestare puntate di carri armati isolati; - dare profondità alla difesa, occupando centri abitati arretrati.

Le forze combattenti disponibili constavano, in tutto, di tre battaglioni di fanteria, una batteria controaerei da 20 mm, una da 75/27, una da 100/17, due pezzi da 105/28. Però, tranne queste due ultime bocche da fuoco reduci dal Don, le batterie, armate di materiali tratti da magazzini d'Intendenza dislocati anche in lontane località, potevano prendere posizione soltanto il 13 gennaio. Lo schieramento veniva effettuato occupando i paesi di riva sinistra del Donez con una compagnia ciascuno: - II/38°: Makarof - Kruscilovka - Iljevka e Comando di battaglione a Iljevka; - III/38°: Davjdo Nicholskij - Bolscioj Suchodol - Petrovka e Comando di battaglione a Petrovka; - Comando del 38° fanteria ad Ivanovka; - I/37°: Podgornoe - Popovka - Belenki - Malyi Suchodol e Comando di battaglione a Malyj Suchodol; - Comando del 37° fanteria a Voroscilov.

L'artiglieria era assegnata per pezzi o per sezioni in rinforzo all'occupazione dei paesi di Makarof, Kruscilovka, Davjdo Nicholskij, Bolscioj Suchodol, Transiederei, Popovka. Al momento nel quale la Divisione assumeva la responsabilità del settore i grossi del nemico si trovavano nella zona tra Millerovo ed il Donez, fronteggiati dalla 304a Divisione tedesca in ripiegamento. Però punte avanzate sovietiche si spingevano fino ai paesi della riva settentrionale e minacciavano anche località dell'altra sponda ad ovest di Kamensk, sulla destra del nuovo schieramento della Ravenna.

Ritorno sul Don, parte 6

Mi fanno risalire in macchina e scendiamo lentamente per la strada che va verso la chiesa; da questa strada dove, dopo ore e ore di battaglia, il generale Reverberi e un gruppo di disperati hanno trascinato la massa che aspettava. Per questa strada, tra queste isbe che fanno da quinta, e la chiesa da fondale. É stata la porta che abbiamo aperto per arrivare a baita. Qui, davanti a questa chiesa, con Baroni ho chiamato quelli che mai più sarebbero venuti avanti; e il tenente Zanotelli diceva: - Ma dove sono tutti? Vestone! Vestone! - Il freddo, la notte e il silenzio erano scesi su questo villaggio. E gli alpini morti restavano nella neve. Mia moglie, Larissa e Jurij si guardano in faccia, dicono qualcosa che non capisco, ma vedo i loro occhi gonfi di pianto. E la macchina riparte veloce. È scesa la sera, non si vedono più villaggi e, quando mi giro, nemmeno Nikolajevka. Come allora neve e cielo, ora terra e cielo. Quando parlo dico a fatica: - Per questa pista siamo passati il 27 gennaio. La riconosco.

Quelle lunghe marce, eterne, senza soste, senza cibo, con i congelati che restavano ai lati della pista, con i feriti che morivano sulle slitte, con i sopravvissuti che si trascinavano. Neve cielo, notte giorno, neve cielo. Ma come abbiamo potuto? Dopo ore di corsa con la Volga incontriamo un villaggio, dopo ore un altro, e quando arriviamo a Sebekino è vicina la mezzanotte. Tutte le porte e le case sono chiuse; ma rivedo le isbe che ci hanno accolto dopo quei diciassette giorni di marcia dal Don; dove era il comando della Tridentina, e del 5° e del 6° alpini, e del 2° artiglieria. Qui ci siamo contati, e qui è morto il nostro colonnello Signorini. Ancora due ore di macchina e poi saremo a Charkov, in albergo. Un tè, un letto pulito, il caldo. Ma è possibile? Ma come è stato possibile?

Ho visto Kiev e Charkov; le università, gli alberghi, i negozi, i monumenti a Lenin, le piazze, le chiese, i musei. A lungo mi sono soffermato in una sala dove erano esposte molte armi della nostra guerra, bandiere naziste e, in una vetrina, alla rinfusa, croci di ferro di ogni classe, spalline di generali e un bastone di maresciallo. Sulle pareti, pannelli plastici in altorilievo riproducevano ingenuamente fasi di battaglie. Avevo chiesto anche di passare una giornata o due in un kolcos, ma, mi dicono, in questa stagione non possibile perché i kolcosiani sono tutti impegnati nell'aratura e nella raccolta delle barbabietole; e per questo l'ospitalità verrebbe trascurata. Mi propongono cambio una visita a una fabbrica, e una mattina fredda e ventosa andiamo.

L'ingegnere che mi guida nella visita era un pilota di aerei da combattimento; quelli che volavano bassi sopra la steppa e d'improvviso ti erano sopra a spezzonare e mitragliare. «La morte nera», li chiamavano i tedeschi; lui era stato abbattuto due o tre volte dietro le linee, e anche ferito malamente, e sempre se l'era cavata. Nel pannello dove sono le persone illustri che hanno lavorato in questa fabbrica c'è anche la sua fotografia perché eroe nazionale. Anche questo ingegnere, dopo una prima fase di staccata riservatezza, si lascia naturalmente andare e della fabbrica mi racconta e mi vuol far vedere tutto.

Ma io non me ne intendo assolutamente di meccanica e più che le macchine elettroniche e la produzione dei trattori mi interessano le bacheche dove sono esposte vecchie fotografie e lettere: si vede come qui vivevano e lavoravano settant'anni fa, Lenin che parla agli operai proprio in questa fabbrica, come l'avevano ridotta i tedeschi nel 1943. Quando vuole riparlarmi di motori Diesel dico ancora che non me ne intendo. - So solo, - gli dico, - che le vostre macchine, armi o carri o trattori che fossero, andavano sempre, anche quando sembravano scassate, mentre le nostre... - E lui ride divertito.

Al funzionario dell'Inturist, in albergo, dico del mio desiderio di ritornare ancora una volta sui campi di battaglia. Ma non a Poltava dove nel 1709 i russi sconfissero gli svedesi, e nemmeno a Jassinovataia e Rikovo, che mi propongono: tra l'altro arrivare laggiù, dove ero il primo inverno con il Cervino, o dove il 10 settembre il Vestone fu distrutto, è troppo lontano. - Sul Don, - dico, - desidero andare. Loro si sono già informati e mi spiegano che invece di rifare la strada per Valuichi è molto meglio arrivare a Rossoch scendendo da Alessievka perché la strada è asfaltata per bel tratto; non sanno, invece, come sarà verso Rossoch e il Don. Cosi, a un primo conteggio, i chilometri sono circa novecento. Ce la faremo?

Non c'è Jurij questa volta a guidare la Volga; ha ancora le reni rotte per il viaggio dell'altro giorno. Borìs si chiama il nuovo autista, ed è più giovane; Larissa è ormai rassegnata ad accompagnarci anche questa volta. Il mattino è meraviglioso e smaglianti i colori dell'autunno; nei campi senza fine stanno raccogliendo le barbabietole da zucchero e i mucchi immensi vengono caricati sui camion: ne incontriamo una lunghissima fila. Sono autocarri militari, ogni tanto intercalati da uno kolcosiano; i militari sono contenti di fare questo servizio, lo si vede dai loro visi sorridenti e dai saluti che ci fanno con la mano. Oltre Bielgorod un odore acuto penetra nella macchina: viene dagli zuccherifici che stiamo costeggiando.

La strada corre diritta: sale, scende, risale, ridiscende; i limiti dei kolcos sono segnati da insegne con il nome e il numero. Terre arate, terre seminate: nero, verde. Rosso di foreste di querce, bianco verticale di betulle con le chiome d'oro. Stagni con oche bianche e vaporose, pascoli con mandrie bicolori. La sorpresa in una balca è un gregge di pecore. Dopo Alessjevka il paesaggio cambia; diventa più selvaggio, ampie zone non sono coltivate, i villaggi sembrano più poveri; la strada è una pista di terra battuta che sovente dobbiamo lasciare per i lavori in corso sul fondo delle balche. Piccole mandrie di cavalli girano libere nei pascoli; corsi d'acqua si impaludano. - Fermati, - dico a Boris, - qui vorrei scendere.

Cronaca di una sconfitta annunciata, 31.12.42

Cronaca di una sconfitta annunciata; dall'11 dicembre 1942 al 31 gennaio 1943, giorno per giorno, la cronistoria dell'ARMIR durante l'offensiva sovietica "Piccolo Saturno". Tratto da "Le operazioni delle unità italiane al Fronte Russo (1941-1943), edito dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.

31 DICEMBRE.

BLOCCO NORD.

II 31 dicembre veniva aperto l'ospedale italiano, nei locali di una scuola. Vi erano ricoverati oltre 1.200 feriti più gravi, per i quali gli interventi operatori da compiere erano più di 700. La forza italiana controllata presente in Tcertkovo era di 7.000 uomini, dei quali 3.800 feriti e congelati.