martedì 3 gennaio 2023

Ritorno sul Don, parte 8

Di notte, stando sulla riva alta di questo fiume, vedevamo lontano delle luci che parevano un altro firmamento; ed è da qui che sono partiti per liberare la loro patria e l'umanità dal nazismo. Si fermarono quando raggiunsero Berlino. Sul ponte di barche, nel mezzo del fiume, un vecchio è assorto a pescare e mi fermo con lui in silenzio. Dopo un poco gli chiedo in russo: - Kak dielà? - Nicevò, - mi risponde girando appena la testa. E sorride con gli occhi, non stupendosi del mio essere straniero.

Con tutto il cuore avrei voluto sostare a lungo su quel ponte a pescare con il vecchio, a sentire l'acqua frusciare contro i legni mentre il sole incendiava di colori il bosco autunnale. Anche i pesci che tirava su brillavano nell'ultimo sole come le cupole delle chiese ortodosse. Il vecchio voleva offrirmeli. Con un cenno lo salutai e ripresi la strada del ritorno. Mia moglie, Larissa e Boris mi aspettavano accanto alla macchina. E ripartimmo.

Allora, in quella notte del 18 gennaio 1943, questa pista che va a ovest era gremita di muli, di automezzi, di battaglioni di alpini della Tridentina che avevano lasciato il Don con troppo ritardo per obbedire a un ordine dell'OKW di Hitler; era stato lui che aveva ordinato al comando dell'VIII Armata italiana che il Corpo d'Armata Alpino non lasciasse il fiume. Da Rossoch saliva la Julia che per un mese in aperta steppa aveva fermato la fanteria e i carri armati russi che avevano rotto il fronte nell'ansa di Verk Mamon e che avevano tentato di aggirarci. Dalla zona di Karavut veniva il 1° reggimento alpini e da Staraia Kalitva il 2° e i gruppi del 4° artiglieria alpina. Dal Nord, dove la 23a divisione ungherese aveva abbandonato la linea di propria iniziativa, le masse degli sbandati ungheresi e tedeschi intasavano villaggi e piste da Judino a Podgornje.

I soldati russi dei reggimenti della Guardia e i carri armati stavano chiudendoci nella sacca. I villaggi bruciavano, negli ospedali gli ufficiali medici più giovani tiravano a sorte chi doveva restare per assistere i feriti che non potevano andarsene con le proprie gambe. Le tradotte con i complementi che arrivavano all'Italia, nelle stazioni a ridosso del Don invece di trovare i nostri comandi tappa trovavano i carri russi. Colonne motorizzate di servizi e di salmerie arretrate pistavano veloci al di là dello sbarramento per raggiungere Charkov.

Noi si restava dentro la bufera; ancora reparto per reparto, squadra per squadra. Fino a quando abbiamo trovato i magazzini abbandonati dove i pochi civili rimasti nei villaggi e i partigiani cercavano di salvare dalle fiamme quanto potevano. Allora incominciarono a staccarsi i primi; e di quelli che trovarono il cognac nelle botti forse non si è salvato nessuno. Le notti e i giorni del 19 e del 20: incursioni di carri armati, mitragliamenti aerei, i primi morti assiderati ai lati delle piste, i primi bruciati dentro le isbe. La prima grande fame di sonno e di baita.

Ora abbiamo lasciato alle nostre spalle le case di Bielogoroje, e al rosso di quello straordinario tramonto sul Don si è ora sostituita una notte tranquilla. Quelle luci che vedo alla mia destra sono forse delle isbe di Kasinka; allora, lassé, c'era il Verona, e di là partimmo in una notte di estremo gelo per andare giù verso Bojvolovka, a dare il cambio in linea al Valcismon della Julia. Che notti in quel dicembre del 1942! E don Carlo Gnocchi con gli alpini dell'Edolo preparava il presepio in una tana sopra il fiume gelato. Ricordo le postazioni, le pattuglie di collegamento con il Morbegno, le ore nei ricoveri e l'odore e la macina del grano e la polenta di segale e i semi di girasole; e le armi che non volevano sparare e l'alpino Lombardi che stava sempre silenzioso e staccato, indifferente nel suo grande coraggio perché la morte era già in lui. Giuanin: - Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?

Vorrei dire a Boris di fermare la macchina per farmi scendere, a Larissa di accompagnare mia moglie a Charkov e farla ripartire per l'Italia e io restarmene qui solo, per tutto l'inverno in questi villaggi, e camminare dall'uno all'altro. In silenzio, sulla neve. Fino a primavera, fino al disgelo, e dopo riprendere il treno per casa. Ma questo non lo posso chiedere; posso solamente pensarlo e immaginarlo; nemmeno accennarlo, a loro. È già molto cosi. Quanti di quelli che siamo usciti dalla sacca, dai Lager, dalla Resistenza, dalla guerra degli alpini, insomma, vorrebbero essere qui stasera con me?

La macchina corre veloce tra il Don e Alessjevka; ancora paesi di allora: dopo Podgornje, Opit, Postoiali, Novo Charkovka. Borìs tiene il finestrino completamente abbassato per sentire il vento della corsa tenerlo sveglio e fuma in silenzio; mia moglie per il freddo si stringe a me. Ma forse non è solamente per il freddo. Larissa dovrebbe essere molto stanca perché da qualche ora non dice una parola. Ad un tratto accende la radio e dopo la musica jazz e cubana sentiamo il bollettino meteorologico; Larissa mi spiega che nel Nord della Russia nevica, che il freddo e il fronte di basse pressioni ha investito l'Ucraina settentrionale.

E' per questo che prima, guardando in cielo, non vedevo più le stelle. Le foglie di betulla che il vento strappa dai rami vengono ad illuminarsi davanti ai fari della macchina come balenanti farfalle: «Se venisse ora a nevicare, - penso, - forse saremmo costretti a fermarci, a cercare un'isba per chiedere ospitalità e ripartire domani». Ora desidero questa neve che ho tanto maledetto, che mi ha ossessionato per anni; la desidero per passare una notte sopra la stufa di un'isba, perché troverei ad aspettarmi tutti gli amici e i compagni che non sono arrivati a baita.

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