lunedì 2 gennaio 2023

Ritorno sul Don, parte 7

Il luogo mi è noto anche se non c'è la neve. Sono certo di essere tra Postojali e Seljachino. Ma perché queste macchie d'alberi lontani, questa terra, queste lunghe erbe secche e questo cielo si impastano e sfumano in un'unica linea orizzontale? Si sciolgono come se una calda luce liquida li dissolvesse. Da laggiù siamo arrivati dopo aver lasciato il Don e per questo lungo dosso abbiamo camminato tra il 20 e il 22 gennaio. Vorrei camminare come allora lungo una traccia che so, e dormire nelle isbe; e vorrei che fossero qui anche loro: gli amici che sono rimasti vivi e che mai, forse, qui potranno ritornare. Ma gli altri come potranno capire questo?

Ecco, da qui, a ogni gruppo di isbe è legata la nostra storia; una storia di alpini della Julia, della Cuneense, della Tridentina, del Cervino. Siamo passati per ogni pista e i nostri nomi gridati nella tormenta di queste steppe. Morte, speranza, disperazione, fatalismo. Chi potrebbe dire tutto? Nessuno. Nessuno saprà tutto. E per tutti e per ognuno una storia diversa. Ed eravamo in tanti.

Cammino un poco da solo, e ai margini di uno stagno inselvatichito osservo i resti di quattro isbe. Vedo tra le erbacce le stufe di mattoni, i camini crollati, qualche trave carbonizzata. Per chi si sarà svolta qui l'ultima parte del dramma? Da quale paese delle nostre montagne sono venuti a morire qui? Tutt'intorno non si vede un essere vivente. Nemmeno corvi, o uccelli nello stagno. Mi sembra d'essere dentro un profondo oceano, ma anche provo una malinconica pace. Mia moglie, Larissa e Boris non parlano; forse anche loro sono colpiti da questo immobile silenzio. Passiamo per Olichovatka; scendiamo lungo il Kalitva e alle due pomeridiane arriviamo a Rossoch. Boris, Larissa e mia moglie cercano un ristorante o un'osteria, se c'è, ma io vado intanto per le strade dove hanno combattuto e sono morti gli amici del Cervino e della Julia. Mi guardo attorno e mi sembra strano vedere la gente tranquilla vicino alla chiesa ad aspettare la corriera, e non sentire i carri armati e le raffiche dei mitra. Proprio li, tra la chiesa di San Nicola e la stazione (che ancora porta i segni di allora) è stato visto per l'ultima volta il Mario Pesavento, mio compagno alle elementari. Suo padre lo vedevo tutti i giorni passare davanti a casa mia quando tornava dalla cava; ora ha tanti anni, ma l'ultimo suo lavoro di scalpellino è stato un monumento per i dispersi in Russia.

Anche qui a Rossoch c'è un monumento dentro un giardino di betulle e di aceri; è per i loro caduti e a fatica traduco: «Alla gloria eterna di coloro che sono morti per la liberazione e l'indipendenza del loro paese». Un poco fuori del centro, lungo la strada che scende a Novo Kalitva, hanno trovato un ristorante. Prima di sedermi al tavolo mi avvicino al banco per comperare qualcosa per il viaggio perché prevedo una cena molto lontana: - Sono un italiano, - dico alla donna che mi serve. E vedo il suo viso trasfigurarsi: impallidire, arrossire, gli occhi illuminarsi e inumidirsi; sorridere, infine.

Non riusciamo a parlarci. Questa donna che per l'emozione non è capace di avvolgere il pacchetto avrà avuto vent'anni. Mi dice: - Dasvidània! - E poi, in italiano: - Arrivederci -. E nient'altro. Mangiamo la solita solianka, montone arrosto, cavoli. Per bere c'è vino di ciliegie o birra. Boris solamente acqua, come aveva fatto Jurii del resto perché chi guida non può assolutamente bere alcolici.

Ora ho fretta di arrivare sul Don, anche se Larissa dopo essersi allontanata dal gruppo per telefonare, mi dice che il Soviet di Rossoch gradirebbe una visita. - No, - dico, - se è possibile; si farebbe troppo tardi. E poi bisogna ritornare a Charkov viaggiando tutta la notte. Andiamo subito a Podgornje. Vorrei anche andare verso Staraja e Novo Kalitva, a Quota Pisello, dove hanno combattuto quelli della Julia e della Cuneense. Ma lassù c'è il mio caposaldo: - Andiamo, - dico, accennando al Nord.

Ecco Podgornje con la fabbrica di calce e i carrelli che passano sopra la strada; qui ogni cartello indica un nome noto: Saprina, Morosovka, Serghejevka, Opit, Dacia, Scororyb, Basovka, Morosov. Passo dopo passo, dal Don fino a qui, la prima notte della ritirata, fino a queste isbe che ora mi vedo davanti nella verzura degli orti e con le donne sedute sulle panchine a chiacchierare. Allora ci apparvero dentro il fumo della tormenta dopo la notte più lunga e fredda. E dopo, l'uscita da questo paese per la salita dove i camion non ce la facevano, e i magazzini che bruciavano e il nostro ospedale divisionale con la grande bandiera bianca e la croce rossa, e i feriti che si trascinavano fuori sulla neve della via perché volevano venire con noi. sulla strada che va a Dacia c'è ancora il mulino a vento dove un giorno incontrai il Silvio dalle Ave che faceva il guardafili; ero passato con gli sci prima di andare in linea, per trovare Rino al comando del battaglione genio. Questo mulino indicava la strada ai nostri conducenti e ai portaordini, ed è come rivedere un campanile di paese. Stiamo attraversando un villaggio e Boris ferma la macchina vicino a un pozzo perché ha sete. Anch'io scendo per bere e sento il cuore salirmi in gola: in queste isbe c'era il comando del mio battaglione, del Vestone e là, verso la balca, avevamo scavato i ricoveri per invernarci. Invece, quando furono finiti, andammo in linea per prendere il posto del Valcismon.

Gli scavi erano grandi e profondi, per stare al caldo e al sicuro; uno ogni due plotoni. Noi mitraglieri del tenente Sarpi eravamo con i fucilieri di Cenci. Quanto abbiamo cantato là sotto quando veniva la sera! Ci sono ancora i segni degli scavi ed è come mi ritrovassi davanti tutti i compagni di allora e le voci: Artico, Tardivel, Moreschi, Bodei, Monchieri, Linardi, Corazza, Barp. Tutti. Bevo avidamente l'acqua di questo pozzo che ci dissetò anche allora. E adesso andiamo, andiamo in fretta Boris, voglio arrivare sul Don con la luce.

Bielogoroje; il paese che declina verso il fiume, a destra e a sinistra le due montagne biancheggianti, il boschetto e la piana con il fosso anticarro, le erbe, la riva e l'acqua che va lenta. Lo riconoscete, amici del Tirano, questo posto? Quante volte siete venuti di pattuglia dove ora cammino e non sparano? Quaggiù sulla riva c'erano i posti avanzati dove venivate di notte; sui dossi ci sono ancora i segni delle trincee delle postazioni e guardando verso il sole che tramonta indico con la mano i caposaldi. C'era il caposaldo «Madonna di Tirano» della 46, poi venivano quelli del Val Chiese e del Verona; laggiù, lungo il fiume, l'Edolo, il Vestone, il Morbegno. E poi ancora, lontano, la Cuneense e la Julia.

Scendo alla riva, con l'acqua mi bagno la fronte e raccolgo una manciata di terra. Un cartello dice che è vietato fare il bagno: forse perché sul letto ci sono ancora bombe a mano o mine? Un ponte di barche unisce le due rive; al di là la strada prosegue dentro il bosco e camminando su questo ponte dondolante ho l'impressione della vastità delle Russie. Quante migliaia di chilometri ancora? Foreste, città, pianure, fiumi, deserti, laghi, villaggi, steppe, montagne fino dove finisce il mondo.

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