domenica 1 gennaio 2023

Ritorno sul Don, parte 6

Mi fanno risalire in macchina e scendiamo lentamente per la strada che va verso la chiesa; da questa strada dove, dopo ore e ore di battaglia, il generale Reverberi e un gruppo di disperati hanno trascinato la massa che aspettava. Per questa strada, tra queste isbe che fanno da quinta, e la chiesa da fondale. É stata la porta che abbiamo aperto per arrivare a baita. Qui, davanti a questa chiesa, con Baroni ho chiamato quelli che mai più sarebbero venuti avanti; e il tenente Zanotelli diceva: - Ma dove sono tutti? Vestone! Vestone! - Il freddo, la notte e il silenzio erano scesi su questo villaggio. E gli alpini morti restavano nella neve. Mia moglie, Larissa e Jurij si guardano in faccia, dicono qualcosa che non capisco, ma vedo i loro occhi gonfi di pianto. E la macchina riparte veloce. È scesa la sera, non si vedono più villaggi e, quando mi giro, nemmeno Nikolajevka. Come allora neve e cielo, ora terra e cielo. Quando parlo dico a fatica: - Per questa pista siamo passati il 27 gennaio. La riconosco.

Quelle lunghe marce, eterne, senza soste, senza cibo, con i congelati che restavano ai lati della pista, con i feriti che morivano sulle slitte, con i sopravvissuti che si trascinavano. Neve cielo, notte giorno, neve cielo. Ma come abbiamo potuto? Dopo ore di corsa con la Volga incontriamo un villaggio, dopo ore un altro, e quando arriviamo a Sebekino è vicina la mezzanotte. Tutte le porte e le case sono chiuse; ma rivedo le isbe che ci hanno accolto dopo quei diciassette giorni di marcia dal Don; dove era il comando della Tridentina, e del 5° e del 6° alpini, e del 2° artiglieria. Qui ci siamo contati, e qui è morto il nostro colonnello Signorini. Ancora due ore di macchina e poi saremo a Charkov, in albergo. Un tè, un letto pulito, il caldo. Ma è possibile? Ma come è stato possibile?

Ho visto Kiev e Charkov; le università, gli alberghi, i negozi, i monumenti a Lenin, le piazze, le chiese, i musei. A lungo mi sono soffermato in una sala dove erano esposte molte armi della nostra guerra, bandiere naziste e, in una vetrina, alla rinfusa, croci di ferro di ogni classe, spalline di generali e un bastone di maresciallo. Sulle pareti, pannelli plastici in altorilievo riproducevano ingenuamente fasi di battaglie. Avevo chiesto anche di passare una giornata o due in un kolcos, ma, mi dicono, in questa stagione non possibile perché i kolcosiani sono tutti impegnati nell'aratura e nella raccolta delle barbabietole; e per questo l'ospitalità verrebbe trascurata. Mi propongono cambio una visita a una fabbrica, e una mattina fredda e ventosa andiamo.

L'ingegnere che mi guida nella visita era un pilota di aerei da combattimento; quelli che volavano bassi sopra la steppa e d'improvviso ti erano sopra a spezzonare e mitragliare. «La morte nera», li chiamavano i tedeschi; lui era stato abbattuto due o tre volte dietro le linee, e anche ferito malamente, e sempre se l'era cavata. Nel pannello dove sono le persone illustri che hanno lavorato in questa fabbrica c'è anche la sua fotografia perché eroe nazionale. Anche questo ingegnere, dopo una prima fase di staccata riservatezza, si lascia naturalmente andare e della fabbrica mi racconta e mi vuol far vedere tutto.

Ma io non me ne intendo assolutamente di meccanica e più che le macchine elettroniche e la produzione dei trattori mi interessano le bacheche dove sono esposte vecchie fotografie e lettere: si vede come qui vivevano e lavoravano settant'anni fa, Lenin che parla agli operai proprio in questa fabbrica, come l'avevano ridotta i tedeschi nel 1943. Quando vuole riparlarmi di motori Diesel dico ancora che non me ne intendo. - So solo, - gli dico, - che le vostre macchine, armi o carri o trattori che fossero, andavano sempre, anche quando sembravano scassate, mentre le nostre... - E lui ride divertito.

Al funzionario dell'Inturist, in albergo, dico del mio desiderio di ritornare ancora una volta sui campi di battaglia. Ma non a Poltava dove nel 1709 i russi sconfissero gli svedesi, e nemmeno a Jassinovataia e Rikovo, che mi propongono: tra l'altro arrivare laggiù, dove ero il primo inverno con il Cervino, o dove il 10 settembre il Vestone fu distrutto, è troppo lontano. - Sul Don, - dico, - desidero andare. Loro si sono già informati e mi spiegano che invece di rifare la strada per Valuichi è molto meglio arrivare a Rossoch scendendo da Alessievka perché la strada è asfaltata per bel tratto; non sanno, invece, come sarà verso Rossoch e il Don. Cosi, a un primo conteggio, i chilometri sono circa novecento. Ce la faremo?

Non c'è Jurij questa volta a guidare la Volga; ha ancora le reni rotte per il viaggio dell'altro giorno. Borìs si chiama il nuovo autista, ed è più giovane; Larissa è ormai rassegnata ad accompagnarci anche questa volta. Il mattino è meraviglioso e smaglianti i colori dell'autunno; nei campi senza fine stanno raccogliendo le barbabietole da zucchero e i mucchi immensi vengono caricati sui camion: ne incontriamo una lunghissima fila. Sono autocarri militari, ogni tanto intercalati da uno kolcosiano; i militari sono contenti di fare questo servizio, lo si vede dai loro visi sorridenti e dai saluti che ci fanno con la mano. Oltre Bielgorod un odore acuto penetra nella macchina: viene dagli zuccherifici che stiamo costeggiando.

La strada corre diritta: sale, scende, risale, ridiscende; i limiti dei kolcos sono segnati da insegne con il nome e il numero. Terre arate, terre seminate: nero, verde. Rosso di foreste di querce, bianco verticale di betulle con le chiome d'oro. Stagni con oche bianche e vaporose, pascoli con mandrie bicolori. La sorpresa in una balca è un gregge di pecore. Dopo Alessjevka il paesaggio cambia; diventa più selvaggio, ampie zone non sono coltivate, i villaggi sembrano più poveri; la strada è una pista di terra battuta che sovente dobbiamo lasciare per i lavori in corso sul fondo delle balche. Piccole mandrie di cavalli girano libere nei pascoli; corsi d'acqua si impaludano. - Fermati, - dico a Boris, - qui vorrei scendere.

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