domenica 11 luglio 2021

Palù, la Bigia e tutti gli altri, parte 3

Palù, la Bigia e tutti gli altri... terza parte.

Prima ripulisce la bestia dalla tanta neve ghiacciata che aveva attaccata alle zampe, sulla testa e sulla coda, che sembrava una scopa fuori uso, rigida e dura. Rubacchia del fieno dal deposito, trova del mangime, versa nel sacco alcune gocce di grappa che aveva tenuto in serbo, e dà il tutto al mulo. Palù lo ringrazia leccandogli la mano che lo accarezza, è stanco, lo si vede, ma sta bello rito sulle zampe; tiene la testa alta ad osservare gli altri quadrupedi e il personale addetto ad essi; osserva la Bigia che gli sta a fianco e che sembra più provata da quella sgropponata di dodici ore di marcia. Anche ad essa Scotto dedica le sue cure, la ripulisce e le dà fieno e mangime, con gocce di grappa. La mula scuote la testa, all'odore dell'alcool, ma poi infila il muso nel sacco e comincia a masticare l'Energon. "Cara mia", dice Scotto, "ti devi abituare, abbiamo giorni tristi davanti a noi e tu devi seguire Palù. Vedrai che ce la faremo".

Pensa che è la prima volta ad essere lasciato all'aperto, per tante ore, mentre fa un freddo boia che gli congela gli arti, rendere rigide le zampe e le articolazioni, gli penetra nelle orecchie. Pensa anche alla Bigia, che gli sta a fianco e si appoggia a lui, con la schiena, perché anch'essa ha freddo, tanto freddo, in quel clima glaciale. Quando il conducente rientra nell'isba, il mulo forse parla con la sua compagna e misura le sue forze con quelle di lei, pensando che non ce la farà, se quella corvée dovesse durare tanti giorni. La Bigia è buona, remissiva, sopporta fatiche e privazioni, ma non ha la struttura del suo compagno di tiro. Fissa Palù con i suoi occhi intelligenti, scuote la testa, sfrega il suo fianco destro contro il sinistro del maschio e muove le zampe e sente fredde e intirizzite. Fra i due, in quel momento, si è stabilita un'intesa: gli uomini hanno bisogno di loro e devono fare tutto il possibile per sostenerli.

Scotto, con due secchi di acqua scaldata, raggiunge Palù e la Bigia e da loro da bere. I quadrupedi sembrano gradire quell'acqua non troppo pulita in cui il conducente ha versato un po' di grappa, tanto per dare sapore e riscaldare le bestie. Poi preleva fieno dalla slitta del foraggio e lo da abbondante ai due muli che sono affamati. Dopo il fieno un sacchetto di Energon e infine, dal fondo della sua slitta, tira fuori una scatola di zucchero e prende alcune zollette. Palù annusa subito lo zucchero e allunga le labbra prendendo con delicatezza le zollette. Anche la Bigia, che di rado in passato aveva avuto tante attenzioni dal suo Visca, gradisce lo zucchero. "E ora, bestioni", dice Scotto, "se volete potete sdraiarvi a terra, su questa poca paglia, così riposate le zampe". Fa cenno a Palù di accosciarsi è quello obbedisce, stende il collo e appoggia la testa a terra, con un profondo sospiro. E' soddisfatto.

Scotto salta in piedi, infila i valenki, che sono induriti per l'umidità penetrata nel feltro, poi si avvicina ad una delle finestrelle dell'isba. Fuori il giorno sta declinando, il cielo è grigio plumbeo e, attraverso i vetri gelati, si vedono delle ombre che corrono verso l'improvvisata scuderia. Indossa il pastrano, ne chiude i lembi, e metti in testa di colbacco, uscendo quindi nel gelo della sera incombente. Il freddo taglia la faccia, come una lama seghettata, trasportando cristalli di neve ghiacciata. La scuderia è vicina e il conducente la raggiunge in breve. Come prima cosa osserva Palù e la Bigia che sono in piedi, uno accostato all'altra; tira un respiro di sollievo. Ma in fondo al magazzino gli alpini sono attorno a un mulo steso a terra. E la Tuta e il capitano medico la sta palpando sulla pancia che è gonfia. Gli occhi della bestia sono opachi, e girano da uno all'altro come per chiedere: "Cos'ho?". Il suo conducente le accarezza la testa e il collo, ha il volto contratto che esprime ansietà. "Temo che sia una colica", dice il capitano, "ma io non sono veterinario, non saprei cosa fare".

Scotto avanza, scostando due uomini che sono vicini alla bestia e si china sull'animale; gli palpa la schiena, la pancia, le cosce e nota che queste non rispondono al tocco. "E' spacciata, signor capitano", dice rialzandosi e al conducente del mulo, che lo osserva interdetto, spiega, "è cominciato con la colica, ma ormai è paralizzata, non c'è più niente da fare". Anche il capitano medico si è rialzato e osservo il quadrupede che sta soffrendo molto, ha la lingua che penzola sul lato sinistro del labbro, l'occhio quasi vitreo. "Dobbiamo abbatterla", conclude l'ufficiale con un triste sospiro. "Ma non possiamo fare niente per salvarla?", chiede il conducente della Mula. "No, Martino, non possiamo fare proprio niente", sentenzia Scotto. "Vai, lascia fare a noi, credi mi dispiace, come se fosse il mio Palù; da anni la Tuta ci ha seguito dappertutto, povera bestia!". Il conducente si allontana, seguito da due commilitoni. Quando lo sparo risuona nel grande locale, rompe in pianto e un compagno gli mette le mani sulle spalle, come a proteggerlo.

Frattanto un fatto increscioso si è verificato là fuori e nelle isbe. I superstiti del "Tolmezzo", affamati, non possono essere saziati con le poche scorte di viveri della colonna ambulanza. Hanno saputo che un mulo è stato abbattuto ed è cominciata una vera lotta. Il conducente della Tuta difende la carogna della sua mula, guai a chi si azzarda a toccarla. Ma quelli sono affamati, estenuati dalla fatica e dal digiuno. I colleghi del conducente, a fatica, cercano di calmarlo, gli dicono che ormai la Tuta è morta, può salvare questi poveri cristi da una fine atroce per fame. E alla fine l'evento si compie. Gli alpini scavano la neve, trovano la carcassa della mula e con le baionette, con il loro coltelli, con qualsiasi oggetto tagliente, ne aggrediscono le carni.

È uno spettacolo orrendo, quasi di cannibalismo. Quegli uomini portano alla bocca la carne sanguinolenta del mulo, la masticano a fatica, ne succhiano il sangue e sembra che ritrovino le forze. Alcuni hanno portato pezzi di carne nelle isbe e li fanno cuocere sul fuoco dei camini. Per l'aria si sente odore di carne arrostita, di corno bruciato e il conducente della Tuta se ne sta seduto, in quella che la temporanea scuderia, la testa fra le mani. Gli viene da piangere, non ha voluto assistere allo scempio delle carni della sua mula e ascolta le voci degli uomini che si stanno sfamando a spese di quel nobile animale. Perché per un conducente il mulo è più nobile del cavallo. Di quello ha l'intelligenza, dell'asino la forza; e paziente, obbediente, gli puoi chiedere qualsiasi sacrificio e lui risponde sempre; cammina per giorni e notti, non chiede altro che un po' di fieno, qualche ora di riposo, un po' di pulizia al pelame una volta ogni tanto e poi va, va sempre. È una cosa sola con il suo conducente e il povero alpino pensa che stanno distruggendo una parte di lui.

Palù e la Bigia vengono staccati dalla slitta e condotti nel locale della stazione. Scotto taglia grosse fette di fieno dalla slitta secondaria e si accorge che due balle sono esaurite. I muli ruminano con gran lena il foraggio mentre il conducente acceso un fuocherello e cerca di far sciogliere la neve in un secchio per dar loro da bere. Frattanto li massaggia con la brusca, sulle zampe incrostate di neve e ghiaccio, sul ventre e sul collo, le parti che il telone impermeabile e la coperta non possono proteggere durante la marcia. Palù volge la testa ad osservarlo e nel suo sguardo Scotto legge un grande interrogativo. La bestia capisce che questa è un'avventura fuori dal normale, che questo freddo mi paralizza gli arti, che lo stomaco gli si contorce per la fame, che ha difficoltà ad urinare e a liberare l'intestino. È preoccupato, Palù, e il conducente lo intuisce; è in allarme anche per la Bigia, la vede dimagrire giorno dopo giorno, tira con minor vigore del solito, mangia quasi con poca voglia. Per lei preleva dalla slitta mezzo sacchetto di avena e le annoda le cinghie del sacco sul collo. La mula mangia ora con più appetito; l'avena è un buon stimolante per un quadrupede. Massaggia la bestia, le sfrega la pancia e le zampe con mangiate di pieno, dopo aver passato la brusca.

"Bigia, ho promesso ad Arturo di tenerti bene, di portarti a casa, cerca di tenere duro. Voi muli non lo sapete ma siamo imbarcati in un'impresa pazza, centinaia di chilometri da percorrere in queste condizioni; nessuna possibilità di rifornimento; fame per tutti", e così dicendo addenta un pezzo di cioccolata che ha tenuto nelle tasche dei pantaloni perché non gelasse; tira fuori anche una galletta e ne rompe la crosta dura con i denti. Fa fatica a masticare e la cioccolata gli si incolla in bocca, ma deve mandarla giù; anche lui non deve cedere; ha quattro feriti sulla slitta e deve portarli a casa. Mette un po' di galletta davanti al muso di Palù che subito la afferra e la mastica. "Beato te che hai i denti forti".

Poi giungono sul campo di battaglia. Hanno notato, da diversi segni nella neve, che di lì sono passate formazioni di carri armati e di uomini. Le piste si infittiscono e, oltrepassato un boschetto di larici, l'orrore della lotta appare ai l'orologio. Scotto, che conduce la slitta di testa e ha al fianco il capitano medico, vede come prima cosa un carro armato sventrato; la torretta col suo cannone è stata lanciata ad una decina di metri di distanza, i cingoli sono distesi sulla neve, allineati, spezzati in una giuntura. Il corpo di un carrista è afflosciato sulla parte superiore del carro, là dove ruotava la torretta; a terra altri corpi carbonizzati, neri, nella grande massa bianca di neve. Poi cadaveri, rattrappiti, contorti, semisepolti. Russi nelle loro tute bianche, alpini nei loro pastrani scuri, laceri, insanguinati. Armi individuali e mitragliatrici, in buono stato o a pezzi, sparse ovunque. Una fila di cadaveri schiacciati dai cingoli dei carri armati, tutti in fila, ridotti allo spessore di pochi centimetri, con le budella fuori uscite dalla bocca o sparpagliate nella neve, i volti irriconoscibili, nerastri per il sangue raggrumato. Centinaia di corpi, inerti, nella bianca distesa di neve; nessun segno di vita fra tanta desolazione.

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