giovedì 22 luglio 2021

Palù, la Bigia e tutti gli altri, parte 4

Palù, la Bigia e tutti gli altri... quarta ed ultima parte.

Palù, dal canto suo, ha calmato in parte la fame; sente freddo agli arti inferiori ma non gli dà eccessivo fastidio, e poi in quella posizione accosciata sente che riposa. Pensa che in tutta la sua carriera di rado ha dormito sdraiato a terra; sempre in piedi, ora su due zampe ora sulle altre due. È da quando è cominciata questa lunga marcia, che ha conosciuto il benefico riposo a terra. Sente il corpo del suo conducente adagiato sul suo fianco destro, appoggiato alla Bigia, e non muove un muscolo per non svegliarlo; sa che deve proteggerlo perché il conducente protegge lui. Ha notato che, prima di ogni altra cosa, appena lo ha fatto accasciare a terra, gli ha dato da mangiare, lo ha coperto con quel telone che ora comincia a pesare per la gran neve che il vento vi deposita sopra e prova un senso di riconoscenza per quell'uomo con il quale ha diviso la sorte per tanti anni. Ha un cuore grande, Palù, e dentro vi è posto per solo per il suo conducente.

Il mulo agita la testa mentre le sue robuste zampe affondano nella neve e procedono sicure. Il passo della Bigia è invece stanco, si direbbe che si lasci trascinare dal maschio e Scotto se ne accorge perché la testa della mula è sempre un mezzo metro indietro, rispetto a quella di Palù. "Forza Bigia", la incoraggia, e passa dalla sua parte lasciando la briglia del maschio e afferrando con la mano sinistra quella della mula. Camminando sente il respiro affannoso della bestia, quasi un rantolo che le gorgoglia nel lungo collo mentre la pelle delle zampe trema, come se i muscoli che sono sotto abbiano delle contrazioni dolorose. Il conducente pensa con raccapriccio che la mula sia ammalata, o esausta, e non abbia più la forza per farcela. Ma proseguono, passo dopo passo, forse più lenti del ritmo normale di marcia, ma con decisione, gli occhi fissi alle tracce lasciate dalle altre slitte e dagli zoccoli dei muli. Devono raggiungerla via della salvezza, ad ogni costo.

Quando comincia ad albeggiare è un pallido sole sorge a oriente, fanno una sosta e la Bigia crolla nella neve. Subito liberata dai finimenti, viene massaggiata dal conducente con del fieno, sulla pancia, sui fianchi, sul collo, sulle zampe. Ma il su occhio annebbiato, sbatte le palpebre dalle lunghe ciglia e respira a fatica; le orecchie hanno dei movimenti in avanti e indietro, come a cercare di percepire rumori che solo lei sente. "Bigia, anima mia, coraggio!", le sussurra il conducente e cerca di versarle delle gocce di grappa fra le labbra, ma quella le sputa. Palù irrequieto, si muove avanti e indietro, attaccato alle tirelle, gira di continuo la grande testa verso la sua compagna di fatiche e a tratti di sbuffa dalle dalle grandi narici, oppure emette un suono, con un richiamo inarticolato ma doloroso. Sente che la Bigia sta morendo: come tutti gli animali, al sentore della morte prima degli uomini e ne ha paura. Ad un tratto si rizza sulle zampe posteriori e agita le anteriori nell'aria, una, due volte. In quel momento la mula fa un lungo sospiro e la sua testa cadde nella neve, affondandovi a metà, un occhio fuori e l'altro sepolto nella coltre bianca; le sue zampe si irrigidiscono, sembrano più sottili e più lunghe. La sua coda si confonde col bianco della neve.

Scotto e lì immobile, una mano posata sulla testa dell'animale, lo sguardo fisso quel l'occhio ancora aperto ma senza più luce nella pupilla; si sente come svuotato, ha perduto la forza e la sua mente vaga come in un mare in tempesta; rivede in pochi attimi tutte le scene di guerre e di morte... E mentre l'ufficiale esegue l'operazione, il conducente sposta la slitta per lasciare la mula fuori dalle tirelle, poi prendo il badile e comincia a coprire la Bigia con tanta neve. Nessuno deve ridurre a bistecche la Bigia, dice a sé stesso, e in quel momento comincia a piangere. Le lacrime scendono nel passamontagna e si mescolano al ghiaccio rappreso davanti alla bocca, al sudiciume; scendono nei peli della barba dove sono andati i pidocchi. Ha gli occhi annebbiati il povero conducente, e lavora, lavora di badile, creando una montagnetta di neve sul corpo della bestia. Ultima a coprire è la testa, distesa e smagrita, con l'occhio sempre aperto, come se guardasse davanti a sé, la pista e le tracce delle slitte che sono passate di lì indicano a loro la via della salvezza.

La marea degli sbandati si muove come una valanga, precipita giù per il vallone, risale la china, si accalca verso il sottopassaggio; alcuni salgono sul terrapieno e dilagano nella città seguendo i combattenti. Anche le slitte dei feriti si muovono e scivolano per il pendio; i conducenti trattengono i muli e frenano le slitte con forza per non travolgere i quadrupedi. Il fondo della vallata è coperto di cadaveri e i conducenti guidano i muli onde evitare quei miseri resti raggomitolati o distesi nella neve, quasi irriconoscibili con il passamontagna ricoperto di sangue o con chiazze sul petto, sul dorso, mentre la neve è rossa ovunque.

Introdursi nel sottopassaggio è impresa ardua, con le slitte, perché la gran massa che vi si accalca dentro, vociante in diverse lingue e in tutti di dialetti d'Italia, resa cattiva e feroce da giorni e giorni di lotta, di privazioni e di fame; protesa verso l'uscita del sottopassaggio che in quel momento rappresenta la via della salvezza. E gli uomini calpestano i feriti, si fanno largo a spallate, a spintoni, bestemmiando, urlando, minacciando con le più diverse armi, dalle baionette alle pistole, che intralcia il passo. Qualcuno spara contro un commilitone e quello si accascia, subito travolto e calpestato dagli altri. Scotto ferma la sua slitta e aspetta con pazienza che la marea sia passata, non vuole rischiare la vita sua e del suo mulo in quella calca infernale. La fiumana di sbandati si assottiglia; adesso gli uomini passano là sotto con più facilità, c'è un po' di spazio fra uno e l'altro.

Ma in quel momento il destino ha segnato l'ora fatale per il mulo Palù. Procedendo cauto, appoggia lo zoccolo destro su uno strato di neve che sembra consistente e gelata, ma cede, la zampa affonda, con un rumore sinistro, fino al ginocchio; il conducente avverte il sordo rumore e nello stesso tempo il suo braccio, che tiene la briglia, subisce uno strappo in avanti; la testa del mulo picchia a terra, la zampa sinistra si piega sotto il corpo dell'animale e Palù lancia una specie di urlo di dolore. Gli altri non hanno udito e stanno proseguendo lungo il terrapieno ma Scotto chiama, urla: "Aiuto, aiutatemi!". La slitta che lo precede si arresta, poi si arrestano le altre e i conducenti accorrono. Scotto ha già staccato le tirelle, ha liberato la bestia dei finimenti e continua a ripetere: "Bono Palù, bono, non ti muovere".

Il mulo obbedisce, paziente, appoggiato il muso nella neve e gira i suoi grandi occhi attorno, come un cerca di aiuto. Il suo conducente scava con le unghie la neve, attorno alla zampa sepolta dell'animale, penetra nella cavità, sente che una buca di pochi decimetri di diametro; lo zoccolo appoggio sul fondo, ma sente anche che lo stinco di Palù è spezzato, le ossa premono contro la pelle puntute, come coltelli. È come se il sangue si fosse ghiacciato nelle vene del povero conducente; alza gli occhi sui compagni che stanno lì ad osservare, pronti ad aiutarlo, poi dice sotto voce, quasi non volesse far sentire al mulo: "Ha uno stinco spezzato!". Gli uomini si prodigano, afferrano l'animale sotto la pancia e, facendo forza tutti insieme, lentamente lo sollevano. La zampa lesionata viene alla luce e il mulo nitrisce di dolore. Lo fanno coricare sul fianco sinistro e Scotto è lì con lo sguardo allucinato; non ha più forza e il suo cervello è come paralizzato. Sa cosa significa una zampa spezzata, è la morte, inesorabile, sicura. Si avvicina la testa di Palù, accarezza la grande fronte, dove spicca la stella bianca, le froge calde e fumanti; sente il respiro ansimante della bestia, ma non ha il coraggio di guardarla negli occhi.

"Palù, amico mio", gli mormora con dolcezza, "non aver paura, sono qua io!", e gli accarezza ed orecchie che vibrano a percepire tutti i suoni e i rumori. Il dolore della ferita deve essere lancinante. La zampa si è gonfiata in maniera orrenda, dal ginocchio allo zoccolo che quasi scompare, ora, sotto il gonfiore. Arriva il capitano medico che esamina subito la zampa lesionata, ma al tocco delle sue mani la bestia ha come un sobbalzo per il dolore; il medico si rialza e si avvicina al conducente, appoggiandogli il braccio ancora valido sulle spalle. "Coraggio, amico mio. Questa nobile bestia che ci ha portato in salvo, sta per finire di soffrire".

"Come sarebbe a dire?", salta su Scotto con atteggiamento quasi aggressivo. "Tu te ne intendi più di me", dice il capitano medico, "se fossimo al reggimento, con un'infermeria, un veterinario e tutti gli aiuti necessari, forse si potrebbe anche tentare di ridurre la frattura, ingessare la zampa e lasciare il mulo sdraiato per un mese o due; ma sarebbe comunque un mulo invalido per sempre, anche se potesse riprendere a camminare. Ma qui..." e si interrompe con un sospiro. "Allora vuol dire che dobbiamo abbatterlo?". Il capitano fa cenno di sì con la testa e non dice altro. Egli sa quale sia l'affetto che mulo e conducente hanno uno per l'altro; ha ammirato la forza, l'intelligenza, il coraggio di entrambi e sente un vero struggimento di fronte alla triste realtà e alla decisione che con Scotto deve prendere.

Il conducente, stretto nelle spalle, rimpicciolito dal dolore che lo stringe come una morsa, non piange, guarda tutti i morti che sono seminati lì attorno e per quelli non prova né pietà né dolore, ma per Palù sente il cuore che il cuore batte a ritmo accelerato, con colpi sordi, come se volesse scoppiarli un petto. Non sa cosa fare, non sa pensare, non sa ragionare e torna ad inginocchiarsi vicino alla grande testa nera, l'accarezza e gli occhi di Palù sembra chiedano cosa gli è successo, cosa vogliono fargli, perché è crollato mentre sente ancora tanta forza nei suoi muscoli poderosi. "Signor capitano", dice piano Scotto all'ufficiale che è lì ad attendere, "faccia lei, ma mi raccomando, che non soffra. Poi lo faccia coprire con il telone della slitta, lì ci sono delle traversine, le faccia mettere sul telo, che nessuno veda il cadavere del più bel mulo degli alpini". Accarezza un'ultima volta la grande testa di Palù, il collo in cui guizzano nervosi muscoli e tendini; le lacrime gli offuscano la vista e scendono copiose nella barba incolta. "Ciao, vecchio mio, fratello mio", mormora singhiozzando, poi si alza procedendo a tentoni, come se fosse ubriaco, e si allontana, dirigendosi verso le altre slitte.

Ma Scotto si sente solo, sperduto, come un forestiero che capiti in una città sconosciuta, dove la gente parla un'altra lingua, ed è allegra, ride, schiamazza, si diverte e lui non capisce una parola, non sa a chi rivolgersi, dove dirigere i propri passi; è preso dalla disperazione, dalla nostalgia per il paese lontano, dove parlano la sua lingua, sono come lui; puoi entrare in un bar per ordinare un bicchiere di vino, e subito trovi un amico. Ha sulle spalle il suo zaino e il "sacco comune" del mulo, nel quale verrà deposto lo zoccolo anteriore sinistro, quello col numero di matricola. Ma non lo consegnerà ad un comando militare per far scaricare dalla "forza" del reggimento il mulo Palù. Lo terrà con sé, per tutta la vita, lo metterà in camera sua, nella casetta lassù sulla collina di Pegli, accanto alla fotografia di Palù, quella che il tenente Morena mi ha fatto tanti anni addietro a tenda.

Si sente lontano uno sparo, dietro a loro. Ecco, Palù è morto, adesso lo copriranno, il capitano staccherà lo zoccolo e lo porterà lui, magari avvolto in un panno, o in un sacco. L'idea passa come un lampo accecante nella mente del conducente che si arresta, vorrebbe correre indietro, rivedere suo Palù, ma la morte dell'amico mulo lo ha inchiodato lì, avvolto dalla notte buia, mentre la neve ricomincia a cadere, dapprima sottile e soffice, poi sempre più fitta e fa velo sugli occhi, imbianca i pastrani sporchi e laceri, lo zaino che tiene appeso a una spalla. Palù ha compiuto l'ultimo miracolo, per loro: li ha portati fino alla meta che si erano prefissi di raggiungere e rimane qui, col suo possente corpo dal manto nero con la stella bianca in fronte, forse a proteggere gli altri innumerevoli passi che questi superstiti dovranno compiere prima di salire su un treno che le riporterà a casa.

Ecco... qui finisce la storia di Palù, della Bigia e di tutti gli altri, anche loro non tornati dalla Russia. Ora so che il prossimo 26 gennaio che passerò in Russia, arrivato a Nikolajewka e superato il vero sottopassaggio che loro attraversarono, mi dirigerò a sinistra, lungo la massicciata, esattamente come hanno fatto loro e dopo qualche metro lascerò nella neve un fiore per Palù, per la Bigia e per tutti gli altri...

Nessun commento:

Posta un commento