domenica 3 gennaio 2021

Krinovaja, un campo

Ho visitato il campo di Krinovaja nel settembre 2019; era una giornata di sole; vedevo intorno a me anche persone spensierate; anche noi forse lo potevamo sembrare. Ho visitato insieme alle altre persone che erano con me tutta la struttura e i box dei cavalli, e nella mia testa erano presenti sempre le parole del Colonnello Antonio Andrioli... lui per Krinovaja ci è passato, ci ha vissuto se così si può dire per mesi. Ricordo e ricorderò sempre i suoi racconti. Essere lì dove lui era stato e dove a migliaia sono morti, mi dava proprio un senso di "essere fuori posto", verso di loro, per rispetto a loro... io qui quasi come un turista, loro qui come esseri pronti a morire ad ogni ora. Ho visto i box dei cavalli e mi sono immaginato loro dentro, lui il Colonnello, lì dentro. Oggi ci sono i cavalli, le piste, c'è tutto per farlo sembrare un posto qualunque. Invece non lo è. Fuori, nel cimitero civile del paese c'è solo una lapide che li ricorda... ecco è rimasto solo questo.

Krinovaja... Don Guido Maurilio Turla, cappellano della Divisione Cuneense...

Il 17 febbraio 1943 giungiamo al campo di smistamento di Krinovaja; siamo partiti da Valujki il 31 gennaio. Krinovaja ha malfamata notorietà per i crimini commessi ai danni di migliaia di prigionieri italiani, romeni, ungheresi, qui rinchiusi e fatti morire di fame. Il campo ha ospitato nel volgere di quattro mesi (da gennaio ad aprile) settantamila prigionieri. Lo smistamento avviene su un vasto piano, fiancheggiato da fabbricati, una volta caserme, ora diroccati. Delle antiche scuderie restano solo capannoni e box fetidi e schifosi. Prima di entrare, facciamo il computo degli uomini sopravvissuti. Della colonna Catanoso, tremila uomini, all'arrivo a Krinovaja ne rimangono cinquecento: tra questi sono inclusi altri italiani, rastrellati lungo il cammino.

MI HA DATO LA VITA.

La sosta fuori del campo si protrae per due ore; siamo esposti al gelo della notte. Poi si entra. Io sono assegnato in un corridoio senza luce. Appoggio la schiena piagata alla parete incrostata di ghiaccio; dalle finestre senza vetri raffiche di vento mordono la carne. Non un minuto di sonno nelle poche ore che mancano all'alba. La fame e il freddo obbligano a vegliare; addormentarsi è morire. All'alba incomincia a nevicare; nell'interno, dappertutto, entra neve; il tetto per buchi e fessure appare una scacchiera. Alba grigia. Mi accorgo di aver passato la notte in mezzo ai morti; tre commilitoni sono immobili ai loro posti; li ha ghermiti la morte bianca. Hanno faccia e capelli coperti di neve. Anche per me sento vicina la morte per inedia. Dal fondo del corridoio avanza inaspettatamente una figura a me non sconosciuta; è padre Fiora di Borno, bresciano, un mio confratello. Da mesi non c'incontriamo. Tutti i prigionieri qui conoscono il cappellano della 308a sezione sanità della Julia. Il francescano instancabile si aggira alla ricerca di chi soffre; passa da un capannone all'altro a confortare, a rincuorare. Quando egli dispone di un tozzo di pane, lo distribuisce ad altri con evangelico altruismo. Appena mi vede, accorre e comprende che le forze non mi reggono più; soffro assai per congelamento al naso, a un braccio e a una gamba; ma adesso la più pericolosa è la fame. Padre Fiora mi abbraccia e non esita a offrirmi l'unico pezzo di pane scurissimo, che per lui era vita in quell'inferno di affamati. Mi somministra quel cibo a lenti bocconi, come si fa con un animale affamato. Padre Norberto Fiora mi ha salvato la vita.

IL CAMPO DELLA MORTE.

Nei box degli ufficiali della Cuneense, ritrovo cari amici: i tenenti Manlio Francescone, Domenico Dal Toso, Carlo Ghiglione, Mariolino Radaelli, Bonicelli, Mario Buffa, Franco Massobrio, Supplizi, Torsegno. Sono nominato "nacalnik" con la responsabilità di "difendere i diritti dei prigionieri e tenere alto il morale". Siamo ventisette persone costrette nello spazio di solito riservato a un cavallo. La sporcizia e i pidocchi infestano la paglia marcia. I soldati hanno sistemazione peggiore in piccole baracche. Non siamo più uomini; solo numeri di una semplice operazione: ogni prigioniero che muore è uno di meno da sfamare. Talvolta, per disporre di maggiore assegnazione di vitto, teniamo nascosti nel box i cadaveri dei nostri compagni. A Krinovaja non si vive da uomini: si muore da bestie.

TESTIMONIANZE.

Dinanzi a me, un soldato incalzato dai compagni va a finire in un bidone di brodaglia bollente. Lo tirano fuori urlante: poche ore dopo muore per le ustioni riportate in tutta la persona. Sulla realtà di questa nostra vita infernale ecco la testimonianza di un mio compagno di prigionia, il dottore Nicolò Giannetto di Messina, tenente medico della sezione sanità dell'8° reggimento della Julia: "Noi ufficiali ricevevamo cento grammi al giorno di quell'orribile pane, e non tutti i giorni, oltre a un gavettino di brodaglia senza grassi, mentre i soldati ricevettero in quel mese tre volte cinquanta grammi di pane e qualche volta la brodaglia. Non venivano distribuiti medicinali e si barattavano una aspirina, una compressa di sulfamidico, un tozzo di pane, con anelli d'oro, anelli con pietre preziose. Morivano circa cinquecento prigionieri al giorno, i quali venivano caricati uno sull'altro, nudi, senza un segno di riconoscimento, sulle slitte e trasportati nei prati adiacenti, dove venivano sepolti in grandi fosse comuni. È importante notare che a tutto il 5 marzo 1943 non si era verificata alcuna epidemia; si moriva di fame, di cancrena da congelamenti e da ferite, di dissenteria, di atrofia intestinale, di assideramento o per mano dei custodi russi che uccidevano con spranghe di ferro e con armi da fuoco. Lo stato di bestialità in cui ci avevano ridotto fame e sofferenze, ha fatto, di valorosi soldati, cannibali dei loro stessi commilitoni".

IL CANNIBALISMO.

Il titolo è impressionante; purtroppo si addice ai fatti. Contiamo le ore che ci rimangono di vita. I nostri ufficiali medici dicono che possiamo vivere, con lo scarso cibo che ci passano, i più deboli dieci-quindici giorni; i più forti un mese. Deleghiamo il colonnello Scrimin a chiedere ai russi di essere fucilati; l'autorità del campo risponde che non è autorizzata. Nei corridoi e nei luoghi di passaggio i cadaveri rimangono intere giornate, perché mancano becchini; nessuno di noi è in grado di trasportarli. I più robusti si assumono il compito di portare i morti all'aperto e accatastarli sul piazzale interno del campo, trascinandoli con una cinghia. La fame fa perdere ogni controllo alla ragione, tramutando gli uomini in iene. Il cannibalismo, la caccia all'uomo, è il rimedio orrendo degli impazziti per fuggire la morte. I primi casi di antropofagia avvengono tra soldati ebrei ungheresi, presto imitati da italiani e romeni. Questi, dopo aver bollito le proprie scarpe per farne brodo e ingoiato scatole di olio anticongelante, si scagliano sui moribondi, ne bevono il sangue ancora caldo; squartano cadaveri, asportando cervello, cuore, fegato; tagliano parti di muscoli per farne brodo. lo sono impotente testimone di questi atti selvaggi. La mia parola di sacerdote riesce qualche volta a far presa sulle menti sconvolte, ma per breve durata.

"VOGLIONO MANGIARE MIO CUGINO".

Una sera degli ultimi di febbraio, un alpino della Valcamonica viene a scongiurarmi di seguirlo nell'alloggiamento soldati. "Venga subito, padre; vogliono mangiare mio cugino. Compagni, pazzi e inferociti dalla fame, attentano alla sua vita". Lungo il percorso si notano evidenti tracce di antropofagia: scheletri decapitati, braccia e gambe spolpate, ventri squartati, brandelli di membra abbandonati tra detriti di ogni genere. L'alpino mi racconta di scene ributtanti che avvengono nottetempo. Suo cugino, uscito dal campo a lavorare, è stato colpito a fucilate da una guardia russa, nell'atto di lasciare la fila per raccogliere patate gelate ai margini della strada. Ne ha riportato una gamba stroncata ed è in pericolo di vita. Al mio arrivo nell'alloggiamento, quattro forsennati tentavano di forzare la porta di una stalla con un legno appuntito, usato come leva. Il sangue, di cui il ferito ha segnato il percorso, li ha richiamati alla porta, dietro la quale altri invasati difendono come un tesoro la sorgente di quel sangue. La mia presenza convince i disgraziati a desistere dalla mostruosità; riesco a far loro comprendere che quello che stanno facendo è un delitto orribile, che macchia la loro coscienza di cristiani e di italiani. Tornano a poco a poco, vergognosi, in se stessi. Ora non pensano più a bere il sangue del moribondo: pregano con disperata invocazione.

L'ALPINO IMPAZZITO.

Un alpino aveva con sé un fratello; stavano sempre insieme, si parlavano continuamente, come se tante cose da dirsi. Ciascuno aveva giurato all'altro di difendere il corpo contro gli assalti dei bevitori di sangue e dei mangiatori di visceri. Il servizio di sorveglianza, istituito per evitare tali eccessi, non arrivava dappertutto: ogni mattina si trovava qualche cadavere mutilato. Uno dei due fratelli si ammala; i compagni cominciano ad avvicinarsi al degente; ne fiutano la fine. Egli muore infatti dopo una decina di ore. È già notte, nessuno sarebbe venuto a vedere quello che succedeva là dentro. Il fratello superstite rimane desto, con le spalle al muro, tenendo nell'arco delle gambe divaricate e con i piedi ben puntati contro il suolo, il corpo rattrappito del morto. Lottando contro il sonno tiene d'occhio i compagni, che intorno a lui fanno finta di dormire. In realtà alcuni fra essi aspettano il momento buono per impadronirsi del cadavere e cuocerne i visceri sul coperchio della gavetta. Verso l'alba vanno in due a parlamentare col fratello. Gli dicono che non è il caso che egli continui in quello sforzo; che bisogna togliere il morto di mezzo; si sarebbero incaricati loro due della sepoltura. Gli parlano dolcemente, con inconsueta bontà. L'alpino, stanco di quella notte, di quel dolore, di quella mostruosa paura, cede alle insistenze, consegna il cadavere di suo fratello e ridendo si lascia cadere a terra: è impazzito.







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