martedì 29 dicembre 2020

Relazione del Tenente Boldoni, parte 4

Relazione sui Carabinieri della Divisione Torino del Generale Attilio Boldoni nel 1942 Sottotenente Comandante della 66a Sezione Carabinieri sul fronte russo, quarta ed ultima parte.

L'ASSEDIO DI TSCHERKOWO.

Alle ore 24 del giorno di Natale finalmente Tscherkowo. I superstiti vi arrivano sgranati durante 24, 30 ore. Si sentono quasi a casa. Illusione di riposare e di quietare la sete e la fame!! Si cerca affannosamente un tetto per dormire e si cade in un sonno profondo. Passano le ore, passa quasi un giorno. Ci si risveglia credendo di essere ormai in salvo. Invece il cannone tuona. Sono ancora una volta circondati. Ma una delle tante Marie amorosamente li aiuta a lavarsi, offre quello che ha: una misera patata, la sua compassione e tutta la sua sopportazione. Forse ha un figlio o il marito lontano... Il nemico ha nuovamente circondato la Torino e con essa tedeschi e italiani. Si riordinano i reparti: il comandante della divisione, generale Lerici, assume il comando del caposaldo. Il Ten. Col. Manari con i suoi bersaglieri, reparti della milizia, reparti della Ravenna, con il generale Capizzi, della Pasubio e della Celere sono già in loco.

I carabinieri fanno l'appello e si riordinano. Sono presenti: 13 della 56a sezione; 12 della 66a sezione. Con i militari di altre due sezioni viene costituita la 66a sezione di formazione. Il comandante della 66a ne assume il comando anche se ferito, malato e congelato. Il comandante della 56a, sottotenente Mantineo, è già prigioniero, malato e prostrato dalle fatiche. Vice comandante il maresciallo maggiore Carlo Grossi e addetto il brigadiere Ugo Canevari. Il comandante dei carabinieri, capitano Enrico Pazzi, viene colpito da febbre dissenterica. Il suo stato è grave... I superstiti si sistemano al secondo piano di un grosso caseggiato di mattoni. Al piano terra il generale Capizzi della Ravenna con il suo stato maggiore. Di fronte un deposito di acqua, alto e dominante la zona. I russi ritengono che sia un osservatorio e sparano incessantemente su di esso. I colpi non arrivano a segno e cadono sul tetto dove sono i carabinieri. Il tetto resisterà meravigliosamente. I mattoni si dimostrano efficacissimi, ci si sente in una fortezza! Per terra paglia...

Il vitto: una galletta e mezza scatoletta. Quando c'è molto, talvolta anche carne fresca; quella dei muli e dei cavalli colpiti dai mortai. Si scambiano i viveri: un pezzo di mulo con del riso. Si fanno bollire le maglie, e le camicie per salvarsi dai pidocchi, inutile! Il giorno dopo lo stesso tormento... Si spara di notte per le strade. I russi si infiltrano. I carabinieri vigilano. Sparano e reagiscono come possono. Sono un po' dovunque. Funzionano da portaordini, di notte e di giorno, nel freddo e nel gelo. Spicca fra tutti il portaordini del comandante della divisione, carabiniere Vittorio Gemignani. Digiuno, congelato, non chiede nulla, si impegna, esegue gli ordini: è sempre al suo posto. Ha gli avampiedi amputati ed una medaglia di argento sul petto...

Il 27 dicembre muore per le ferite riportate il carabiniere Arturo Aquino. E ancora, il 2 gennaio, passa uno slittino tirato da un cavallo. Sono sopra il comandante della 66a e due sottufficiali. Il generale Lerici trema, forse per la prima volta. Attaccano i magazzini viveri, unica speranza per sopravvivere. Sono russi? No! Sono italiani affamati! Lo slittino sguscia veloce per le strade ghiacciate, colpi sferzanti di mortaio tagliano, uccidono, seminano morte. Un cranio scoperchiato di netto senza una goccia di sangue. Penoso servizio. Si cerca di continuare a resistere, si reagisce. Si spara da una parte e dall'altra. I russi bombardano. Si sono accorti che qualche cosa non va. Ma poi la ragione ha il sopravvento. Si può continuare a resistere. Il generale Lerici è contento...

Passano i giorni, sempre lo stesso ritmo di bombardamenti e di speranza. Un aereo arriva, riparte con i feriti, tra i quali il capitano Blundo dei carabinieri, ritorna e poi sparisce nel nulla. I corazzati tedeschi sono vicini, avanzano, domani arrivano e poi... Più nessuna speranza, occorre uscire di forza da soli. Il generale Lerici tiene rapporto agli ufficiali per annunciare che i panzer non arrivano. Tutti gli ufficiali sono attenti alle sue parole sempre pronunciate con garbo, con arguzia, con quella sua innata signorilità, con quel fascino di comandante di altri tempi. Poi, all'improvviso, uno schianto, un sibilo e un crollo. Un colpo anticarro ha attraversato la stanza sulle teste di tutti ed è scoppiato all'esterno senza danni.

Quintilio Bargagni, carabiniere, - ordinanza del comandante della 66a sezione - che in quei giorni aveva perso un fratello pure carabiniere, promosso sul campo appuntato per il suo valore, ha rinunciato a vivere. Vuole riposare nel cosiddetto «ospedale» di Tscherkowo. L'ufficiale lo sollecita, lo scuote, lo prega di seguirlo. Non vuole più soffrire e si avvia lentamente con gli altri feriti. Guarda con commozione il suo comandante che ha seguito con devozione ed affetto; la sua bocca si apre, vuole parlare, si scusa, prega e grida ancora qualcosa. Le sue parole si perdono tra il sibilo del vento: «Mia madre, i miei fratelli, la patria, la pace e Iddio...».

SORTITA DA TSCHERKOWO. MARCIA VERSO LA SALVEZZA.

Si radunano quelli che possono camminare. I superstiti dovranno tutti giungere nelle linee italiane, questo è l'impegno del comandante. È notte, sono le 20 del 15 gennaio. Un gruppo di uomini silenziosi è riunito. Si porta quello che si può: armi individuali, qualche mitra russo, bombe a mano, qualche galletta, il proprio onore... Dietro, la piccola slitta. Su di essa: il capitano Fazzi gravemente malato; l'appuntato Nazzareno Palmieri, ferito da schegge e congelato; un altro ferito. A piedi, guida la slitta il comandante della 66a sezione, con una mano il quadrupede e con l'altra alla pistola per imporre la sua volontà ai superstiti: tutti devono camminare e sperare nella salvezza! Sono pronti ad uscire: 1.600 della Torino; 2.000 della Pasubio; 400 della Ravenna e della Celere; 500 della difesa di Tscherkowo.

Il silenzio viene rotto improvvisamente dal fuoco concentrato e simultaneo degli ultimi 4 semoventi tedeschi, dei pochi pezzi di artiglieria e delle armi automatiche. E diventato giorno, tutto è assordante e nello stesso tempo celestiale. È il fuoco imposto dai disperati difensori ai russi che, sbigottiti e sorpresi dall'azione cedono di schianto. È una fiumana di uomini che corre; sembra che essi abbiano ritrovato le loro forze; poi il silenzio e solo scalpitio dei passi e qualche grido di gioia o di disperazione. Dopo circa 40 chilometri, alle 11, i russi attaccano con violentissimi tiri di mortaio, di katiuscie e d'artiglieria. Con i carri tagliano la coda, il centro e la testa della colonna. Le narici del mulo dei carabinieri vengono trapassate da un colpo mitra. Il nobile animale, però, resiste per morire più tardi, sulla neve bianca, dopo aver compiuto il suo dovere. Si transita per Yeshatschyn, paese in fiamme.

Gli scoppi delle granate, delle katiuscie e delle artiglierie creano uno spettacolo apocalittico. Si giunge a Losowaja all'alba del 16 e si prosegue per Beresowo dove c'è un primo scontro diretto con i carri. Si devia per Petrovskj dove le forze corazzate avversarie sono più numerose e si fanno più baldanzose, avvicinandosi sensibilmente alle colonne e provocando sensibili perdite. I controcarri tedeschi fanno quello che possono. Poi, finalmente, il ricamo degli stukas. A quota 114 di Strezolwka si ha un tempo di arresto: quindi di nuovo in marcia. I superstiti salutano due aerei che passano: sono stukas? No, è di nuovo morte e dolore. Chi può si butta tra le fiamme delle isbe e si rialza dopo aver udito l'ultimo interminabile sgranare delle mitragliere dei due super Rata. La neve ha una striscia, rossa di sangue, per 2, 3 chilometri. È uno spettacolo orrendo.

Ancora di nuovo mortai e colpi di artiglieria. Da lontano, infine, le linee amiche. Si sta per giungere. Arriva invece un colpo di katiuscia che prende in pieno la colonna. Un puzzo dolciastro: è carne umana che brucia... Braccia tese verso la vita. La salvezza ed invece di nuovo la morte. I russi hanno cosi salutato gli italiani! Il comandante della 66a, con la pistola in pugno, grida, incita e minaccia e i sopravvissuti di Tscherkowo sono finalmente al sicuro, il merito è in gran parte suo. Sulla slitta c'è ancora segno di vita. Arrivano a Belowodsk i carabinieri superstiti. L'ufficiale è lieto di aver adempiuto il suo dovere. Il mulo crolla e muore e anche lui merita di essere ricordato. Si prosegue sino a Starobelsk e qui si dividono i feriti per i vari ospedali.

La Torino si scioglie e con essa la 66a sezione di formazione. Pochi i superstiti, tutti feriti, congelati o malati. Un saluto, un abbraccio e un addio. Il comandante della 66a è solo! Prosegue a piedi verso Karkov in cerca di quello che non trova: un ordine, un letto, un pezzo di pane. E con questi pensieri cammina anch'egli meditando su quello che sembra storia e leggenda, certo di aver vissuto un'epopea nella quale i carabinieri hanno scritto con il loro sangue uno dei capitoli più belli.

VERSO KARKOV.

Solo, con i suoi ricordi e con il suo dolore, dopo giorni e giorni di duri combattimenti, senza cibo e senza acqua ancora una volta non vuole arrendersi al destino avverso. Decide di proseguire verso nord-ovest in direzione di Karkov ove spera di ricongiungersi al comando dell'8a Armata per essere utile ancora e riorganizzare un altro reparto. Sono sentimenti che animano la giovinezza di quel tempo passato. I dolori alla gamba ormai rigida, il gonfiore opprimente dei piedi e le fitte non contano. Si può continuare a camminare ai bordi della strada tra il fango e la neve. Passano veloci gli autocarri stracarichi di soldati tedeschi e di feriti italiani. Nessuno si accorge di lui che si trascina nel freddo intenso, nel vento tagliente coi suoi baffi di ghiaccio. Sembra quasi un «tricheco» e puzza anch'egli d pesce ormai per le aringhe mangiate che rappresentavano l'unico raro pasto.

Poi incontra due ufficiali della Torino: il capitano Cesare Pavoni ed il capitano Federico Punzo entrambi del comando della divisione esistente ormai solo nel ricordo. E con essi procede a fatica, a sbalzi, lentamente o a bordo degli autocarri stracarichi per tratti. Poi finalmente si mangia. Un pollo intero, solo spennato, e del burro, una tazza di verde tè preparati da una delle tante buone contadine. Sulla lunga ed interminabile arteria che porta al centro di Karkov appare una città tetra, grandi palazzi di marmo scuro o cemento, vuoto e distruzione... Ancora 12 chilometri per arrivare al centro. In lontananza si accentuano i colpi in arrivo. Sono i russi che premono sulle truppe tedesche e sui valorosi alpini che svolgono in modo mirabile la loro manovra ritardatrice.

Si cerca di mangiare: solo qualche pasta dolce a caro prezzo. Si spendono gli ultimi rubli. E poi un pasto ad una mensa che sta per sgomberare e la ricerca di un posto in treno verso Gomel per raggiungere le retrovie. Si dorme vestiti in un grande palazzo vicino alla stazione. Trascorrono tre giorni e poi nell'aprire gli occhi, mentre è ancora seduto sul giaciglio rappresentato da una poltrona, con la mano sulla pistola si accorge che 4, 5 persone sono curve su di lui. È un attimo: comprende che stanno decidendo la sua fine. Oramai i russi sono in arrivo già verso il centro della città. Si odono cannonate e lo sgranare delle armi automatiche. Nella casa nessuna traccia dei due compagni di ritirata. Non li rivedrà più.

In un attimo decide la sua sorte. Si alza, non ha esitazione, muove prima lentamente le gambe, non batte ciglio, imbocca l'uscita mentre tutti lo guardano quasi impauriti dal fantasma che si erge. Prende le scale ed a razzo discende. Ancora una volta è salvo, ma con il cuore in gola. Cammina ancora in cerca di altri reparti e poi finalmente incontra alcuni autocarri di commilitoni. Sente la vita tornare. Li saluta e raggiunge finalmente l'ospedale che in quel momento stava sgomberando: è il 23 gennaio 1943. Accolto affettuosamente viene subito trasportato con centinaia di feriti sull'ultimo treno ospedale in partenza per la Polonia.

In effetti erano circa 20 carri piatti con un po' di paglia pieni di morti, che venivano scaricati ogni volta che si effettuava una sosta; è un tragico carico di uomini che continuava a soffrire per il freddo intensissimo, senza cure e senza mangiare. Ogni tanto una sosta, qualche piatto di miglio, grida di dolore. Si scaricano i morti; poi finalmente la Polonia ed un ospedale accogliente.

RIENTRO IN ITALIA.

Lentamente, a fatica, arriva a Leopoli il lungo treno carico di dolore, di speranze e di ricordi. Una rapida visita, una doccia calda ristoratrice sulla pelle martoriata dai pidocchi e finalmente in un letto tra le lenzuola. Dorme di schianto ed al mattino stenta a ritrovarsi, crede di essere chissà dove, sente ancora giungere al suo orecchio i colpi di Arbusow e Tscherkowo. Sta per arrivare il treno dell'Ordine di Malta. ln serata si parte per l'Italia. Si alza, scende nella neve per riprendere la divisa uscita dall'autoclave e non la trova. Per tanti e tanti giorni indossata cara e onorata divisa, con i suoi alamari e con i suoi gradi anch'essa nel nulla! Arrivare in Italia in camicia non era possibile. Prende la prima uniforme e poi gli adattamenti per gli alamari ed i gradi. Al fianco la vecchia e gloriosa pistola, quella che gli era servita anche per il giuramento alla Scuola Centrale di Firenze. Ai piedi ancora i valenchi con il buco provocato dalla scheggia di mortaio.

Il 5 febbraio finalmente in Italia ed al mattino a Trento. Salgono sorelle della CRI. Chiede di avvertire la famiglia che da oltre tre mesi attende qualche notizia. E a Chiavari, nel tepore primaverile, termina questa terribile esperienza di guerra. Potremmo fare qualche commento su quello che era accaduto, su ciò che si poteva fare per evitare tanta tragedia. Ce ne asteniamo e preferiamo lasciarlo al lettore. Quasi tutte le bandiere dei reparti che avevano combattuto sul fronte russo furono decorate. A quella dell'Arma mancò il riconoscimento per il valore dei suoi eroici carabinieri. Solo e per tanti anni il silenzio, quasi assoluto, quello di Russia, rotto dallo scricchiolare del ghiaccio pestato da fantasmi che si addormentarono dolcemente sulla neve. Fischia il vento gelido ed il sibilo si alterna, quasi metallico, con i passi sul terreno ormai marmo. Suona lenta una campana, piccola, argentea, ripete i suoi rintocchi, richiama gli spiriti dei carabinieri caduti rimasti per tanti anni lontani dalla Patria, attraversa con i suoi rintocchi monti, valli, pianure, fiumi, quei «placidi fiumi», ed innalza verso il cielo una canzone di amore e di pace.

Resta solo sulla parete della cappella della Legione di Bolzano una campana ed una lapide che ricorda l'eroismo di mille Carabinieri: «NEL QUARANTENNALE DEI FATTI D'ARME I CARABINIERI AFFIDANO A QUESTO MARMO IMPERITURO IL RICORDO DEI COMMILITONI Dl OGNI GRADO CHE, SUL LONTANO FRONTE RUSSO, COMPIRONO IL LORO DOVERE FINO AL SACRIFICIO SUPREMO» 1942 -1982.

Sottotenente Attilio Boldoni, Comandante della 66a Sezione Carabinieri.

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