sabato 26 dicembre 2020

Relazione del Tenente Boldoni, parte 3

Relazione sui Carabinieri della Divisione Torino del Generale Attilio Boldoni nel 1942 Sottotenente Comandante della 66a Sezione Carabinieri sul fronte russo, terza parte.

I russi, durante la notte, concentrano il fuoco con armi automatiche, mortai, cannoni, sul facile bersaglio della massa dei nostri soldati costretti a stare all'aperto perché tutte le case erano state occupate dai tedeschi nei giorni precedenti. Il comando della divisione è all'addiaccio sotto il tiro incessante di tutte le armi nemiche. Il bombardamento è intensissimo. Mortai da 120, katiusce, colpi di artiglieria di grosso calibro cadono ovunque. I russi sparano da tutte le parti. Si scavano buche, ci si abbarbica al terreno. Gli italiani - allo scoperto - subiscono immani perdite. Al centro cade più preciso un colpo di mortaio da 120: il Colonnello S.M. Di Gennaro, comandante dell'82° fanteria, che è stato l'estensore del vecchio meraviglioso regolamento di disciplina ha la testa tagliata.

Il Colonnello Rosati, ha le gambe troncate, ma è ancora vivo. Il Colonnello Santini, comandante dell'81°, ferito gravemente. Un solo colpo ha spazzato tre magnifici comandanti e con essi numerosi soldati. Il colonnello Rosati morirà più tardi dopo essere stato colpito nuovamente. Il comandante della 66a sezione sente uno schianto al piede. Una scheggia è penetrata nel suo valenco e grazie allo spessore dello speciale calzare è leggermente ferito. La sua ordinanza - caro e buon Quintilio Bargagni - piange. Ha visto il piede dell'ufficiale e teme per lui... Il destino continua ad essere avverso. Un aereo tedesco sorvola i valorosi della «valle della morte». Lancia un contenitore con armi leggere e benzina che esplode provocando nuove vittime.

Si chiedono armi e arrivano pacchi dono per Natale con marmellata... Il «Führer li manda ai suoi soldati» che non hanno nemmeno il tempo di scartarli perché la morte li ha già ghermiti. Si continua a combattere. Per sfamarsi attaccano anche posizioni prossime ad un alveare che possa fornire alcuni telai di miele e cera od una isba con l'illusione di racimolare qualche pesce salato o qualche manciata di crauti. Si guarda se i morti hanno conservato qualcosa da mangiare. Scatolette di acciughe portoghesi, qualche lettera in italiano; forse hanno fatto anch'essi lo stesso, forse ritenevano di portare a casa un cimelio. Continua a nevicare. La temperatura è proibitiva.

Durante la notte si cerca di ricomporre i reparti. Al mattino successivo si verificano mille e mille episodi eroici, leggendari per la spontaneità con cui sono stati compiuti. Muore durante un assalto il carabiniere Dino Solbani ed il carabiniere Donato Spinelli rimane gravemente ferito. Il comandante della divisione, Generale Roberto Lerici - nella sua relazione sui fatti d'arme - riferisce di aver visto, tra l'altro, un militare che per trascinare i propri all'assalto, monta su un cavallo e con una bandiera tricolore va verso il nemico che viene messo in fuga. Ma chi scrive può riferire più dettagliatamente, perché dell' episodio fu diretto testimone.

Esso si svolse mentre attaccava un caposaldo con i suoi carabinieri della 66a sezione. A questo punto avviene un fatto portentoso, incredibile, della cui realtà, chi scrive, pur essendo stato testimone, si sente ancora istintivamente indotto a dubitare, né riesce a parlarne se non in prima persona, come se nel rievocarlo, risorgesse in lui la suggestione di quel momento indimenticabile: tutt'a un tratto, alle nostre spalle, vediamo avanzare a cavallo un giovane che va risolutamente verso il nemico, agitando una bandiera tricolore e incitando i compagni a un estremo e supremo sforzo di vita o di morte. Chi è quel giovane pressoché imberbe, di cui nessuno conosce il nome, ma che tutti riconosciamo subito come un fratello maggiore e migliore, come un esempio, una guida, un antesignano, un trascinatore? È il carabiniere Giuseppe Plado Mosca: un nome che abbiamo appreso in seguito, che resterà inciso per sempre nei fasti più luminosi dell'Arma. Ma in quel momento egli non può avere alcun nome, perché nulla di personale, circoscritto, di anagraficamente definito è in lui. Egli è assai più che un determinato individuo, che una singola persona, che un qualsiasi mortale il cui fato stia per compiersi: è il simbolo, la personificazione sovrumana, l'ideale sublimazione dell'ultimo anelito invitto in tutti noi; o forse è un essere sovrannaturale, che, invocato dalle preghiere, dalle lacrime delle nostre mamme lontane, «è disceso dal cielo a guidarci verso la salvezza...».

In realtà lo vediamo passare tra noi come una di quelle figure allegoriche, di quegli eroi leggendari e romanzeschi, che già eccitarono la nostra fantasia di fanciulli. Sul bavero del suo lacero pastrano, brillano gli alamari d'argento dei carabinieri e anche quello sembra un segno simbolico. Eretto sul cavallo, egli avanza con slancio crescente, imperturbato, tra gli scoppi delle granate e le raffiche delle mitragliatrici. Avanza come se fosse sospinto da una forza incoercibile, come se nulla possa più arrestarlo. Sopravvenuto alle nostre spalle, ci supera in un baleno, raggiunge la prima linea, scompare verso il nemico. Al suo passaggio ciascuno di noi sente risorgere le proprie forze, ognuno ha la sensazione precisa che il proprio destino non è ancora compiuto: carabinieri, fanti, artiglieri e soldati d'ogni arma e servizio si levano in piedi, come attratti da una suggestione irresistibile, pervasi, ad un tratto, da un incontenibile ardore; tutti si slanciano di corsa Su per l'erta, senza rispettare né vincoli organici, né prudenziali formazioni di combattimento.

Di fronte a tanta subitanea furia ch'esso è ben lungi dall'aspettarsi, l'avversario, ad onta della sua schiacciante preponderanza numerica, non può fare a meno di cedere terreno, di allentare temporaneamente la stretta, sopraffatto da una comprensibile crisi di sgomento che lo induce a ritirarsi dinanzi a noi, abbandonando nelle nostre mani gli ultimi prigionieri catturati, armi, viveri e rifornimenti di vario genere. Il fronte nemico è cosi respinto su tutta la linea e il raggio dell'assedio è allargato. Poco dopo, placatasi la furia di quell'improvviso e paradossale combattimento, ci accorgiamo, ad un tratto, che il cavallo del nostro salvatore, ferito e sanguinante da più parti, sta rientrando faticosamente nelle nostre linee; unica traccia rimasta del suo leggendario cavaliere solo le chiazze di sangue sulla groppa. Ma quel sanguinoso mistero a noi sembra racchiudere il segreto, più che di una morte sconosciuta, d'una vita sovrumana e imperitura: l'invisibile presenza dell'assente è infatti prodigiosamente viva intorno a noi, e ci anima e ci conforta, ingenerando forza, fiducia, speranza nel cuore di ognuno, dal generale comandante al più modesto e lacero soldato, che si regge in piedi con uno sforzo di cui egli Stesso, appena qualche ora prima, si sarebbe ritenuto incapace. Solo in virtù di tale portento, quella massa di uomini disperati e stremati può riuscire a sostenere un'altra intera giornata di combattimenti, ed infine, ad aprirsi un varco verso Tscherkowo.

DA ARBUSOW A TSCHERKOWO.

La sera del 23 dicembre, il generale Lerici ordina la distruzione delle bandiere. Alle 21,30 altro attacco violentissimo dei russi. Ogni combattente prega e affida l'anima a Dio. Ma il contrattacco dell'avanguardia tedesca riesce a rompere in direzione sud-ovest. Si sente di nuovo gridare... La 298a con il suo abile comandante, ten. Col. Michaelis, ha trovato un sentiero. Si riparte. In silenzio si sfila in mezzo alla neve alta mentre i russi, che tutto il giorno avevano ininterrottamente attaccato con reparti scelti al grido «Za Stalinu! Za Rodinu!» (Per Stalin! Per la Patria) riposano, certi di concludere al mattino successivo l'odissea degli italiani. Si marcia - le gambe si allungano - il pericolo si allontana. Dei fari e il rombo caratteristico di autocarri che sopraggiungono verso i nostri reparti. Qualche grido, qualche colpo di pistola e un carico di pagnotte fresche ai soldati affamati. Si riparte.

Nonostante la neve alta e la temperatura discesa a 40° sotto zero, la sanguinante massa di uomini, il 24, raggiunge Sideroski e Gussew, girando poi su Poltawa e Chonodow. Si segue la ferrovia verso nord combattendo con la fanteria, con gli aerei e con il freddo atroce. Da molti giorni non si mangia. Molti impazziscono, rimangono indietro, per il fatale errore si fermano qualche attimo, rimangono assiderati nella steppa come statue di ghiaccio. Il silenzio assoluto, allucinante, è rotto solo dallo scricchiolare del ghiaccio, pestato da fantasmi alla ricerca di un tetto mentre case e castelli appaiono ai loro occhi stralunati. Rari i colpi di pistola... è la disperazione! Fa molto freddo, forse 35°, 40° sotto zero. Il fiato si gela sui baffi, il gavettino rimane incollato sulle labbra e nello staccarlo le fa sanguinare... Si cammina in silenzio... Volontà eccezionale di vivere per raccontare, vivere per pregare, vivere per insegnare a vivere e non a morire.

È la notte di Natale, si spara dappertutto. Si prega, si grida disperatamente, muoiono i feriti, si addormentano lentamente, stretti dal ghiaccio, non gridano più; guardano verso il cielo e con essi il v.b. Gino Antonelli. Alle ore 7,00 del 25 la colonna raggiunge Chodonow e poi Scheptukowka. Si sosta. Aerei russi bombardano. Si marcia tutto il giorno. Non si sente più sparare. Il nemico è lontano... riaffiora una speranza: arrivare in un posto sicuro. Forse si mangia... È di nuovo notte, tutti annaspano, delirano, ogni tanto un grido di meraviglia, un castello, una casa, il mare. Nulla, solo visioni fantastiche. Sembra l'arrivo di una maratona; non sono atleti ma uomini piegati nel loro sforzo, piagati, feriti, sotto il braccio di un amico, soli, stringono i denti. Il vento gelidissimo fischia ed il sibilo si alterna con il calpestio quasi metallico dei passi sul ghiaccio. Tutto è bianco, tutto è squallido... I più stanchi si sdraiano e non si rialzano. Sono statue nell'infinito intorno a loro...

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