lunedì 28 dicembre 2020

Ancora una volta sugli scarponi

Ritorno ancora una volta su un argomento a me caro, quale i famosissimi "scarponi di cartone", e ci ritorno grazie ad un bel post presente su Facebook nella pagina di "Italica Virtus - Rievocazione Storica Regio Esercito Italiano", post che mi è stato permesso condividere. Potete trovare l'originale al seguente link https://www.facebook.com/481641728528766/posts/5577752915584263/; post al quale direi non c'è niente altro da aggiungere, se non ringraziare gli estensori per la chiarezza sul tema.

Oggi vi ri-parliamo di un argomento che dibattiamo da oltre dieci anni. Troppe volte si leggono post, considerazioni, elucubrazioni molto fantasiose su questo argomento ed il fatto che sia una moda tutta italiana quella di denigrare il nostro Esercito lo sappiamo ma, certe bufale che vanno avanti da anni proprio non le sopportiamo più.

Unendo il materiale del nostro archivio con quello di Stefano Spazzini e di Mattia Uboldi (i quali ringraziamo per avercene concesso l’utilizzo) nonché citando le fonti dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore speriamo, una volta per tutte, di aprire certe menti ancora ottenebrate sull’argomento scarponi. Vorremmo inoltre invitare voi che ci seguite, a distinguere le varie fasi della campagna di Russia. Poiché la maggior parte dei problemi si riscontrarono quasi esclusivamente durante la ritirata, quando il fronte cedette e tutta l'organizzazione logistica collassò; non prima.

NASCITA DELLA FAVOLA.

La favola delle scarpe di cartone nasce “ufficialmente” nel secondo dopoguerra, per dipingere il soldato italiano come quello che venne mandato a fare la guerra con materiale scadente quando, in realtà, il suo equipaggiamento era uguale se non superiore a quello degli altri eserciti coinvolti all'inizio del conflitto. Prendendo spunto dalla triste ritirata di Russia, evento raccontato da alcuni romanzetti e qualche film che nulla hanno di storico, la favola venne portata avanti con decisione da una ben nota parte politica italiana (è ora di dire certe cose), all’epoca molto in imbarazzo per i prigionieri italiani ancora trattenuti in Unione Sovietica. Stessa parte politica che era molto preoccupata delle elezioni e dell’opinione pubblica e che trovò dunque molto comodo attaccare l’Esercito e quella sciagurata campagna di guerra per soli scopi politici.

La favola del “cartone” inizia durante la tragica ritirata di Russia, dopo lo sfondamento del fronte, quando il pericolo di congelamento si ripresentò prepotentemente. Essendo costretti a marce forzate lunghe fino a 40 chilometri al giorno in condizioni proibitive e senza possibilità di fruire di logistica adeguata, i soldati cominciarono a subire il deperimento legato alla scarsità di viveri e al gelo. Le stesse dotazioni personali cominciarono a non offrire più una protezione sufficiente (da non fraintendere poiché qui si parla di situazione straordinaria data dal cedimento del fronte).

Caso emblematico fu quello degli scarponi: non potendo essere ingrassati adeguatamente o mandati nelle retrovie per poter essere riparati, in molti casi si indurirono e, quando dopo aver percorso molti chilometri, il proprietario entrava in un’isba e li toglieva per trovare sollievo vicino alla stufa, al momento di rimettersi in marcia non era più in grado di calzarli perché i piedi si erano gonfiati per lo sforzo e perché le calzature non nutrite spesso diventavano tanto rigide da rompersi, come fossero fatte di cartone, sotto lo sforzo esercitato nel tentativo di calzarle nuovamente.

Ecco perché molti, nell’avvicinare i piedi, decisero di non togliersi lo scarpone poiché avrebbe altrimenti significato sofferenza aggiuntiva e la probabile non riuscita del re-inserimento dello stesso. Questo procedimento continuo non giovava sicuramente alla calzatura, perché in quei frangenti, l’ultima cosa che si pensa è ingrassare e aver cura dello scarpone.

La chiodatura, altro elemento di discordia, si rivelò indubbiamente inadatta alle condizioni climatiche invernali russe ma, quello era il sistema adoperato all’epoca da tutti gli eserciti coinvolti nel conflitto. Strabiliante il fatto di come le critiche vengano mosse riferendosi esclusivamente al secondo periodo invernale, 42/43, dimenticandosi del resto dell’anno e dell’inverno precedente (nonché degli altri fronti),dove la chiodatura non diede nessun tipo di problema poiché in condizioni di uso “normale” e quotidiano, dal chiodo non filtrava nessun tipo di umidità all’interno dello scarpone.

Citiamo, per dovere di cronaca, la relazione dei fatti d’arme relativi al Corpo d’Armata Alpino, dal 14 al 31 gennaio 1943 - XXI, redatta dal suo comandante Gen. Gabriele NASCI e pubblicata per intero sul libro “Trans Limes”, pagina 161, di Mattia UBOLDI. Pagina 12; punto 3)

"L’equipaggiamento della truppa non era adatto a lunghi trasferimenti nella stagione invernale, poiché le scarpe bagnate facilitano enormemente i congelamenti ed i soldati, che si portavano parecchi giorni di viveri, molte munizioni, non potevano portare anche le coperte loro necessarie per ripararsi durante la notte". Come si evince dalla stessa relazione di Nasci, non ci sono critiche alla calzatura di per se, ma all’inadeguatezza dell’uso a quelle latitudini, cosa peraltro comune a tutti gli scarponi usati dagli altri Eserciti.

Non va dimenticato che in Italia le medesime non procurarono mai problemi durante le esercitazioni invernali in quota, a parecchie e decine di gradi sotto lo zero e con umidità superiore a quella presente nelle lande sovietiche. L’unico “inconveniente” era costituito proprio dal fatto che richiedevano una certa manutenzione. Gli scarponi chiodati infatti, non solo dovevano essere periodicamente ingrassati - suola compresa - per ammorbidirli/nutrirli e cerarli per l’impermeabilizzazione, ma avevano bisogno anche di saltuarie riparazione e/o sostituzioni, che venivano effettuate di norma dai servizi preposti nelle retrovie. Per questo ogni soldato aveva almeno due paia di scarponi.

Inoltre, in assenza della debita cura, la differenza termica tra le piste calcate e la temperatura corporea portava gli scarponi a inumidirsi tre le cuciture e le giunte della suola logore, ivi compresi i fori della chiodatura, fino ad arrivare alla tomaia. Con temperature che arrivavano anche ai 45 gradi sotto lo zero, quell’umidità, unitamente al sudore, formavano sotto i piedi una vera e propria lastra di ghiaccio. In questo caso non restava che avvolgere gli arti inferiori in pezze di pano rimediate con ogni espediente, una soluzione che certo non garantiva una protezione pari a quella di scarponi ancora perfettamente efficienti.

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