venerdì 25 dicembre 2020

La battaglia di Natale 1941, parte 2

Natale 1941, continua il racconto di Don Biasutti, cappellano della Legione Tagliamento impegnata nello scontro che passerà alla storia come la Battaglia di Natale.

Episodi del martirio di Novaja.

A Novaja, per piegare l'ostinata resistenza dei nostri, i russi subirono gravi perdite. I pochi civili rimasti sul luogo mi dichiararono che i morti e feriti russi erano stati numerosissimi. Ma il nostro presidio locale venne quasi distrutto. Il 27 trovai quattro soli morti, dei nostri. Ne trovammo molti altri due mesi dopo, sotto la neve, in una fossa comune a nord del paese. Ed altri molti ne rinvenni dispersi qua e là sotto la neve, quando venne lo sgelo. In tutto raccogliemmo le salme di quarantadue Caduti. Da parecchi chiari indizi potemmo constatare che i feriti erano stati tutti uccisi.

Lo stesso, del resto, accadde ad Ivanovka, per i bersaglieri feriti, di cui uno solo si salvò. Mi raccontarono che la sera del Natale alcuni russi entrarono in una casa, dove giacevano alcuni bersaglieri. E cominciarono a porlarli fuori ad uno ad uno. Quel tale, a cui ho accennato, sentiva li fuori, di volta in volta, dei colpi d'arma da fuoco. Era ferito al dorso, ma le gambe le aveva sane. Quando capitò il suo turno, si lasciò condurre, fingendosi debole. Ma d'improvviso si gettò contro il russo che lo accompagnava e lo atterrò; e quindi si precipitò, in mutande ed a piedi scalzi, giù per la collina, inseguito subito dopo da raffiche di mitra, che fortunatamente non lo raggiunsero. E riuscì ad arrivare, stremato e congelato, nel caposaldo di Mikailowka.

Certo una simile sorte toccò al nostro Ernesto Zarotti a Novaja. Ferito al capo, era stato trascinato in un'aula delle scuole; ed un civile russo era accorso a portargli da bere. Io lo trovai il 27, ucciso da un colpo a bruciapelo al cuore; mentre il borghese russo, che mi si disse fucilato dai suoi connazionali, giaceva esanime contro il muro di un capannone poco fuori di li. Qualcuno aveva rovistato nelle tasche di Zarotti; intorno a lui giacevano disperse le povere cose del suo portafoglio e proprio sul petto c'era uno di quei «Cuori di Gesù» in stoffa che si usan portare a forma di scapolare. Un folto gruppo dei nostri risultò disperso; se non erro 72, che vennero fatti prigionieri. Di essi ritornarono in cinque: due legionari di Reggio Emilia nel 1946, il C.m. Codeluppi con gli ufficiali, e nel 1951 altri due legionari, uno dell'Emilia ed uno dei mitraglieri di Cuneo.

Poco dopo gli aerei russi ci piovvero spesso addosso dei volantini di propaganda, in cui figuravano - tra i nomi di altri prigionieri italiani - anche quelli di alcuni dei nostri. Io non ero, l'ho detto, a Novaja. Gli episodi di eroismo e di reciproca dedizione che vi fiorirono in quella mattina mortale non si contano: ogni superstite ne narra a non finire. Ne ricorderò solo alcuni. Il caposquadra Pelati Ezio era rimasto ferito all'apice polmonare destro. Il suo amico Giuliano Palmieri, che gli era anche coinquilino e compagno di lavoro nella vita civile, gli fu al fianco con fedelissima amicizia. E quando verso le ore 11, Tonolini diede l'ordine di sfollare i feriti, se possibile, verso Ivanovka o Mikailowka, il Palmieri si avviò verso est sorreggendo il Pelati. Riuscirono ad attraversare il boschetto, ma poco dopo caddero entrambi. Io li ritrovai due mesi dopo, quasi abbracciati in un eterno abbraccio. Nel 1943 tenni in Correggio una conferenza sui miei Caduti; e raccontai, tra l'altro, questo episodio di amicizia fino alla morte. Alla fine della conferenza mi si appressarono due giovani donne vestite a lutto. «Chi siete?». Mi risposero: «Siamo le mogli di Pelati e di Palmieri». Mi si strinse il cuore. Non so perché, mi sentii dire: «E vi volete bene?». Allora si gettarono piangendo l'una nelle braccia dell'altra e dissero: «Come loro!».

Codogni Virginio era rimasto ferito alle gambe, e gli si eran dovuti togliere i pantaloni e le mutande per praticare la prima mediazione. Cosi, con gli arti inferiori ignudi, era stato messo a giacere su poca paglia entro una casa. Quando la furia della battaglia investi anche quella casa, un compagno, di cui non si sa il nome, se lo caricò sulle spalle e si avviò verso Mikailowka, nel tentativo di portarlo all'infermeria del Battaglione. Quel pietoso soccorritore riuscì a passare il boschetto; ma subito dopo una raffica gli uccise sulle spalle il ferito, che scivolò al suolo. Non sappiamo che cosa sia avvenuto dopo. Ma io trovai il Codogni ben composto nella neve: e sulle gambe ignude era stesa un'altra giacca, quella del soccorritore, come se avesse voluto vincere il freddo della stagione e della morte col caldo dono dell'amicizia. Pensate un po' a quello sconosciuto legionario, che se ne va in prigionia in maniche di camicia per un gesto squisito di carità verso il cadavere dell'amico caduto!...

E che dire del buon Mario Losi? Anche lui s'era avviato verso Mikailowka, sorreggendo un ferito. Se fosse stato un pavido od un egoista, si sarebbe salvato. Invece, per quella sua dedizione fraterna, mori. Il ferito, che egli portava, si salvò. Ed il povero Losi rimase fulminato nella neve. Ma, a proposito di dedizione per i feriti, non posso non parlare di un portaferiti della 2a Cp., il «baffuto» Martini Agostino. Ecco che cosa ne scrivevo, lassù, poco dopo averlo ritrovato esanime nella tragica fossa di Novaia. Erano certamente, i suoi, i baffi più belli di tutta la Legione ed egli fierissimamente li portava. Due cespugli biondi che si ergevano superbi, all'«umberta», verso due occhi chiari e virili. Un portaferiti eroico.

Sordo alle mitragliate ed alle cannonate nemiche, sentiva soltanto il richiamo dei compagni colpiti. E una e due e sette volte corse dalla linea al posto di medicazione, trasportando a spalle i camerati che grondavano di sangue generoso. Quando per l'ennesima volta si lanciò senza timore e senza riposo, a compiere il pietoso dovere, la morte lo fermò. Solo la morte lo poteva fermare. Un giorno vidi due baffi biondi come i suoi e ristetti a guardare, quasi sperando ch'egli fosse risorto. Il legionario che possedeva quei baffi dovette leggermi nel pensiero la folle speranza, perché mi disse: - Signor cappellano, ho ereditato io i baffi di Martini. E ne sentii una cocente tristezza. Allora capii che il mio biondo «baffone» era veramente morto.

Ma non la finirei più se volessi tutto raccontare. Permettetemi, tuttavia, che vi riferisca due ultimi fatti, che a mio parere hanno qualcosa di sublime. Uno lo trovo descritto cosi, nelle mie note di allora. Non posso assicurarvi la veridicità dell'episodio che sto per narrare, poiché so quanto è facile alla fantasia del soldato ricamare di leggenda un convulso momento di battaglia. Ma la tragica bellezza di quella mano, che s'agita per dire: «Non venite, non venite!», si è talmente scolpita nella mente che non so e non posso tacere. Ecco, dunque, quanto m'hanno raccontato alcuni legionari, mentre ce n'andavamo nel febbraio del '42 alla ricerca dei Caduti nei gloriosi combattimenti del Natale.

«Vedete, signor Cappellano. Parecchi dei nostri sono discesi per questo canalone nell'intento di raggiungere il villaggio di Mikailowka. Scendevamo in ordine sparso per salvarci quanto più possibile dal tiro dei mortai russi. Una bufera infernale c'investiva da ogni parte cosicché non era difficile smarrire la via. E, quel ch'è peggio, non si sapeva più esattamente dov'erano gli italiani e dove i russi. Accadde perciò che qualcuno fini tra i nemici credendo di arrivare tra i nostri. «Quando giungemmo qui, allo sfociare del canalone, vedemmo gente muoversi su quella groppa di là della balka. Vedete: erano proprio là, ov'è quel gruppo di case, che ora sono note a tutti sotto il nome di Kolkos del miele, poiché vi trovammo miele a quintali.

«Qualcuno gridò: "Sono i bersaglieri". «Ma qualche altro, più cauto, disse: "No. Fate attenzione che sono russi". «In realtà non si poteva discernere bene chi fossero. Ci appiattammo, quindi, tra i cespugli e stemmo ad osservare. «Anche dall'altra parte erano incerti. Ma infine, dalle grida, dal modo di gestire e dal colore dell'uniforme, dopo alcuni momenti d'incertezza, potemmo capire che erano russi per davvero. «Erano russi: ma, credendo che non li avessimo riconosciuti, ci facevano cenni di richiamo, quasi per invitarci a passare il ruscello, come se fossero dei nostri. «Ma allora vedemmo qualcosa che ci mise un brivido nelle vene. «C'era tra loro uno che aveva un'uniforme diversa... Si, era certamente un legionario. Intorno gli stavano quattro o cinque di quegli altri.

«Ed eccolo levare una mano ed agitarla per ammonire. "Non venite, non venite!". Due o tre volte la mano si mosse disperatamente da destra a sinistra. Poi ci parve che quell'ignoto eroe venisse colpito da una pugnalata; e lo vedemmo precipitare a mani tese nella neve. «Allora scaricammo tutte le nostre armi contro quel gruppo di nemici: chi non cadde fuggi e noi, sgombrata la via, potemmo raggiungere per di qui il reparto». Molte volte ripassai, dopo la vittoria, per il «Kolkos del miele»; e sempre mi fermai in stupita attesa, quasi mi fosse dato di vedere risorgere sul colle un gigante che agitasse la mano ad ammonire: «Non venite, non venite!». Ed ecco il secondo fatto, fragrante di quella istintiva umanità che accomuna i sofferenti e gli umili di là d'ogni barriera.

Uno dei nostri feriti di Novaja, s'avviò solo verso Mikailowka. Ma i russi, avevano ormai tagliata la strada che conduceva a quel caposaldo. Perciò accadde che ad un certo momento la camicia nera venne a trovarsi sotto il tiro d'un gruppetto di nemici nascosto dietro un pagliaio. Il legionario si vide perduto: ma ecco sorgergli accanto dalla neve un russo - dico un soldato russo - il quale facendogli scudo del proprio corpo e prendendolo sottobraccio, gli fece capire con gesti che doveva imboccare un'altra via per salvarsi. E se ne andarono cosi, camicia nera e soldato russo, attraverso la bianca steppa. Quando eran quasi giunti alla meta, una raffica che veniva dai suoi, colpi il russo, che s'accasciò al suolo. Il legionario si chinò su di lui per soccorrerlo, ma quegli insisteva perché lo lasciasse al suo destino e per conto proprio si mettesse in salvo nelle nostre linee ormai vicine. Allora il legionario, che sapeva di dover la vita a quell'infelice, benché fosse stremato anche lui, se lo caricò a viva forza sulle spalle. Ed entrarono cosi l'italiano ed il russo, nell'infermeria di Mikailowka, sorreggendosi fraternamente a vicenda.

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