sabato 7 novembre 2020

La fame dei vinti

Ho appena terminato di leggere "La fame dei vinti"... ne ho letti tantissimi di libri sulla Russia; alcuni forse anche più belli. Ma "La fame dei vinti", oltre a raccontare una storia personale vera e vissuta, nell'introduzione che qui riporto per intero, spiega cosa furono gli anni dopo il rientro dei reduci superstiti dai campi di prigionia. La rabbia...

Quando la sera del 27 novembre 2000 è apparsa alla televisione la figura del presidente della Repubblica in visita alle fosse comuni di Tambov, ove sono sepolte migliaia di prigionieri di guerra italiani, sono stato travolto da una grande emozione che mi ha trascinato alle lacrime.

Essendo sopravvissuto ai campi di prigionia dell'ex URSS, quella scena ha ridestato in me un turbinio di ricordi, commisti a una rabbia repressa che mi porto dentro da oltre cinquant'anni.

Ci salvammo in pochi da quello sterminio. Tambov, Krinovaia, Tiomnikov, Uciostoje, Miciurinsk, Nekrilovo e altre decine di campi dell'Asia e della Siberia sono i luoghi ove trovarono la morte da vinti decine di migliaia di nostri soldati deposti in centinaia di fosse comuni.

Di noi prigionieri nessuno seppe nulla per tre anni, eravamo considerati tutti "dispersi" in quella terribile guerra. Al rientro in patria incominciammo a raccontare la sorte di quegli assenti, ma le nostre testimonianze parlavano troppo di morti, di fame e di sterminio. Perciò non passò molto che si insinuò nella pubblica opinione una penetrante disinformazione mista a incredulità, tendente a dimostrare che le decine di migliaia di soldati che ancora mancavano dovevano essere morte tutte in ritirata.

Ai pochi sopravvissuti, minati nel fisico e tormentati da terribili ricordi, rimase che il silenzio dei vinti. Il 1946 fu per me ancora un anno difficile perché, nonostante le continue cure, il mio recupero fisico si prospettava lungo e incerto e nel frattempo la mente ritornava sempre là in quell'inferno. Apparivano cosi negli occhi: la fame tremenda, il cannibalismo, i cadaveri in catasta come la legna, i compagni che avevo dovuto deporre ignoti nelle fosse, gli occhi sporgenti pieni di lacrime dei morenti che invocavano aiuto, gli otto amici d'infanzia che non erano tornati. Non potevo raccontare alle loro madri in lacrime l'orrore e la crudezza di Krinovaja e provavo un senso di vergogna per essere riuscito a tornare, unico superstite.

Molte volte mi chiedevo perché il destino fosse stato clemente con me consentendomi di ritornare dopo aver superato quelle terribili prove che avevano sterminato tanti compagni: forse mi voleva testimone di quegli eventi. Così, conscio di rappresentare almeno una decina di coloro che non erano tornati, decisi di fissare i ricordi su questo diario.

Era la primavera del 1946. L'atmosfera politica di quel dopoguerra sconsigliava la pubblicazione di storie che potessero accusare di qualche colpa l'Unione Sovietica. Già le mie testimonianze, per cui io ero forse l'unico superstite, provocarono minacce verso la mia persona l'accusa di coltivare sogni politici raccontando storie inventate. Cosicché, anche per la tranquillità di mia madre, ancora incredula nell'avermi ritrovato, riposi lO scritto in attesa di tempi migliori.

Eppure in quelle pagine era chiara la mia intenzione di ricordare la storia di tanti compagni morti da vinti a causa dell'odio che semina una guerra ove le ideologie ne esasperano la violenza fino a far impazzire gli uomini.

La visita a Tambov e le sollecitazioni di amici e di compagni di prigionia mi hanno convinto a togliere la polvere a questo diario ormai destinato al macero. E' una storia di tre anni di fame che, oltre alla totale mancanza di ogni assistenza sanitaria e di soccorso, testimonia i fatti subiti e osservati nei campi in cui ero stato internato. Chi ha vissuto quelle scene ed è miracolosamente sopravvissuto è stato marchiato per sempre nel profondo dell'anima e, non riuscendo a testimoniare, si è rinchiuso in un tormentoso silenzio che dura tuttora e durerà fino alla fine dei suoi giorni.

In questa mia breve premessa desidero invitare il lettore a considerare che i sopravvissuti e tutti coloro che non sono tornati erano giovani di popolo che avevano indossato la divisa militare senza poter obiettare o disertare, obbligati a rispettare le dure leggi vigenti in tempo di guerra. Per queste loro umili origini non avevano certamente il duro cipiglio guerriero, erano solo dei soldati malvestiti e male armati che combattevano con onore. Essi, pur nelle dure condizioni imposte dalla guerra nel fronte orientale, portarono rispetto alla popolazione nemica meritandosi il riconoscimento con la famosa frase: "Italianski Karasciò" (Italiani brava gente!). Ma ogni ora e ogni giorno di quei primi sei mesi del 1943 passati in quei campi sono stati cosi densi di fatti disumani di dolore e di disperazione da portare quegli uomini a maledire le umane origini invocando la morte liberatrice.

Le sono riconoscente signor Presidente Ciampi, perché con il Suo alto e nobile gesto, assieme a tanti compagni che ho deposto in quelle fosse, finalmente ho ritrovato una Patria anch'io!

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