mercoledì 4 novembre 2020

I giorni e gli anni, parte 5

Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. Inizia la parte più tragica e difficile per quegli uomini così già provati e lontani da casa, sperduti nel deserto bianco di Russia.

L'ORDINE DI RIPIEGAMENTO.

All’alba del 19 la situazione nel nostro settore non era cambiata. A tutti, però, cominciavano a pesare in maniera insopportabile le notti passate all’addiaccio ad una temperatura rigidissima, il sonno a cui non ci si poteva abbandonare che per pochi minuti, la fame che il rancio che arrivava una volta al giorno non poteva placare, anche perché era fame di roba calda, la tensione nervosa propria di chi si sentiva ormai in balia di forze a lui estranee ed ostili.

Non si era ancora fatto giorno che venni chiamato al Comando di battaglione. Erano stati segnalati dei gruppetti di russi nella grande balka, bisognava prendere una pattuglia di 12 uomini e passare al setaccio il profondo avvallamento parallelo alla linea del fronte e ripulirlo di eventuali infiltrazioni nemiche.

Gli avamposti sovietici erano a poche decine di metri dal margine della balka e, per arrivare a questa, bisognava percorrere un notevole tratto di pendio scoperto, dove, sul bianco della neve, i cappotti grigio-verdi avrebbero fatto spicco. Tuttavia accolsi l’ordine con assoluta indifferenza. La prospettiva di un’azione rischiosa era più sopportabile, in definitiva, di un’attesa debilitante e senza speranza. Andare incontro alla morte, non cercarla, era preferibile all’aspettarla dietro un parapetto di neve.

Scelsi i dodici uomini meno intorpiditi e fiaccati e indicai loro l’avamposto dove avrebbero dovuto farsi trovare mezz'ora dopo per iniziare la pattuglia. Mi sembrò che anche loro accogliessero la mia designazione con indifferenza, ma all'appuntamento trovai soltanto il sergente e cinque uomini. E il resto? Il sottufficiale disse che tre avevano sostenuto avere i piedi congelati tanto che non potevano neppure mettere gli scarponi, un altro aveva una colica e sembrava più morto che vivo; gli altri non aveva potuto rintracciarli.

"Andiamo!" - dissi e la pattuglia del 6°, formato ridotto, uscì per eliminare dalla grande balka l’insidiosa presenza dei russi. In realtà, ormai, in quel mattino del 19 dicembre 1942, ognuno era solo con se stesso.

Senza danno arrivammo al fondo balka. Procedendo a sbalzi al riparo dei cespugli innevati e di certe piccole asperità del terreno, percorremmo il lungo avvallamento. Sparavamo all'impazzata coi parabellum, ma non scorgevamo la presenza fisica del nemico. Io avevo l’impressione che fossimo fatti segno soltanto di colpi di mortaio, una vera gragnuola. Mi disse più tardi il capitano Soana, che il destino aveva strappato alla pacifica vita di impiegato comunale per farne un guerriero volontario, che l'intenso fuoco delle sue mitragliatrici impedì ai russi di realizzare il tentativo di accerchiarci. Passammo indenni. Solo alla fine, là dove la balka si restringeva a budello con alte pareti scoscese, il sergente ebbe un braccio ferito da una scheggia di mortaio. Non si poteva stare ancora a lungo in quella trappola e cercammo di affrettare i tempi. Fu allora che scorsi un uomo in piedi, immobile, in una specie di nicchia naturale del terreno. Gli puntai contro il parabellum, non si mosse. Vidi sulla sciapka la stella rossa. "Mani in alto!" - gli gridai - "Vieni avanti!". Alzò lentamente le mani, che apparivano enormi nei guantoni imbottiti. Aveva al polso un orologio dall’ampio quadrante nero. (Seppi poi che era una bussola). Era disarmato. Lo prendemmo in mezzo e, guardandoci ben attorno per evitare nuove, più sgradite sorprese, rientrammo nella linea Defrancisci. Dall’uscita al rientro era trascorsa un’ora e mezza.

Al Comando erano soddisfatti: certamente la nostra azione non aveva mutato nulla della situazione concreta, però eravamo usciti dalle postazioni di nostra iniziativa, ci eravamo fatti vivi, e poi ... avevamo fatto un prigioniero. Ma chi era quel soldato disarmato? Come spiegare il suo atteggiamento enigmatico che non aveva lasciato trasparire nulla dei suoi sentimenti, anche quelli meno occultabili come la paura? Come mai pronunziava così bene le parole "italiano", "Roma", "fanteria", "soldato"? Che fosse un soldato russo semplicemente rimasto tagliato fuori dal suo reparto? Che fosse un disertore? Che fosse una spia preparata dai russi per infiltrarsi nel nostro schieramento? Che fosse un agente segreto lasciato lì allo scopo, una volta catturato, di organizzare il movimento partigiano nelle nostre retrovie? Questi sembravano i problemi del momento nella buca del Comando. Ma mi fu anche detto di presentare delle proposte di decorazioni.

La tensione nervosa, che era succeduta all’iniziale stato d’indifferenza, si andava scaricando. Ero completamente sfinito. Mi buttai su una branda. Prima di chiudere gli occhi, vidi il "prigioniero" che, ormai senza guantoni da sciatore e senza bussola, seduto per terra, stava mangiando tranquillamente una pagnotta. Sembrava pensare solo a quello.

Non so quanto dormii, né se dormii o tenni soltanto gli occhi chiusi. Ad un tratto mi sentii scosso energicamente, qualcuno mi chiamava; chino su di me c’era il tenente Di Leo. "Che c'è?" - chiesi. "Circola la voce che tra poco ci ritireremo" - disse agitatissimo Di Leo. - "È voce di popolo. Il Comandante di Gruppo è andato a rapporto". "Ritirarsi! Ma dove?". "A qualche chilometro di qui. Costituiremo una nuova linea difensiva. Pare che ci siano delle grandi fortificazioni e degli accantonamenti preparati da tempo. Lì passeremo l'inverno".

Era straordinario, il siciliano Di Leo, ancora pieno di fiducia, nonostante l'esperienza della "linea fortificata Defrancisci".

Poco dopo uscimmo dalla buca per l’arrivo delle slitte con le marmitte da campo piene di pasta asciutta e nuovi fusti di cognac. Chiamammo i militi di corvée per portare il rancio nei piccoli caposaldi e negli avamposti, dove erano sparsi tutti gli uomini tutti gli uomini del battaglione e i rinforzi della Pasubio. Non fecero in tempo ad arrivare, giunse prima l’"ordine di ripiegamento - esecuzione immediata".

Frenetica corsa di portaordini e di ufficiali in tutte le postazioni. Sull’unico camion a disposizione del Gruppo e sulle slitte venne caricato il materiale indispensabile. Il resto doveva venire bruciato.

Rapidamente gli uomini del 6° si radunarono alla buca del Comando, silenziosi, assorti. Pochissimi presero il mestolo di rancio, giunto in linea già freddo e immangiabile. Non ci furono proteste. In fila, ordinatissimi come non mai, all'apparenza calmi, riempirono le borracce di cognac e misero nel tascapane la pagnotta. Sul camion, a fianco dell’autista, fu fatto salire un ferito, un capitano che aveva inciampato in una bomba a mano abbandonata in un camminamento. La bomba, scoppiando, gli aveva spappolato un piede. Camion e slitte si misero in cammino, dietro gli uomini. Non vidi il "prigioniero".

"Forza ragazzi! Passata Getreide Swiss troveremo gli automezzi che ci aspettano" - assicurava qualcuno, tenacemente ottimista. Così ebbe inizio il ripiegamento. Scendevano le prime ombre della sera e qua e là all’orizzonte si vedevano i bagliori di grandi incendi. Erano le 15,30 del 19 dicembre.

Nessun commento:

Posta un commento