giovedì 5 novembre 2020

I giorni e gli anni, parte 6

Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. Questo è l'ultimo estratto e narra forse i momenti più drammatici dall'inizio della ritirata alla cattura e l'inizio della prigionia. Pubblicare parti di questi libri vuole essere solo un incentivo alla lettura di questi testi che non dovrebbero mai essere dimenticati.

LA RITIRATA.

Da circa un'ora il battaglione si lasciato alle spalle la linea Defrancisci e continua a marciare ordinatamente e in silenzio. Non ci sono ritardatari. I tre, che sono mancati all'appuntamento dell'ultima pattuglia a causa dei piedi congelati, camminano di buon passo come gli altri. Nella piccola radura del boschetto che costeggia la nostra strada, proprio dove tenentino fresco arrivato, piazzando i cannoncini della sua batteria, ci aveva salutato con candido ottimismo, si vedono i segni di una partenza affrettata e nervosa. Tra gli alberi semiaffondate nella neve, le masse oscure di due trattori caterpillars inutilizzabili per mancanza di carburante. Più oltre, lontano, forse sulla sponda a sbalzo del Don, grandi nubi di fumo e rossi bagliori di incendi. Si unisce a noi un gruppo di artiglieri che dicono di aver abbandonato i pezzi dopo aver asportato e sepolto gli Otturatori. Un mulo dal pelo lungo e bianco di ghiaccioli trascina una slitta sovraccarica di casse e di equipaggiamenti. Ripassiamo tra le sgangherate baracche di Getreide Swiss. Un pai0 di chilometri più oltre dovremmo trovare i nostri autocarri, intanto alla nostra destra, a meno di un chilometro in linea d'aria, avvolti da nembi di fumo, bruciano i capannoni in cui abbiamo riposato per 48 ore dopo Ogolewka. Penso con umiliazione e rabbia alla lettera "confortevole" scritta a mia moglie.

Forse proprio allora mi si affianca Cuti, il compaesano del Genio Ferrovieri. Porta tuttora il suo lungo, inutile fucile ed tutto ravvolto in una grossa sciarpa grigia che dinnanzi alla bocca mostra sfilacci di ghiaccio. Dovrebbe avere all'incirca la mia stessa età, eppure, cosi infagottato, mi appare assai più vecchio. Ma, in realtà, come apparirò io agli altri? Cuti tira fuori da una tasca del pettorale una manciata di grani di caffe tostato e mi dice: "Prendi, da forza".

Camminiamo fianco a fianco, in silenzio. Russi terribilmente lontana e vicina. Si incontrano i nostri sguardi sgomenti: "Ce la faremo?". Marciamo insieme ancora un breve tratto, poi: "At salut, Danilo! At salut Cuti!". Ognuno rientra al proprio reparto. La ritirata sta per divenire una marea caotica. Non ci vedremo più. La colonna è simile a un lungo serpente. Di mano in mano che il ripiegamento procede, il serpente perde i pezzi, si alleggerisce del superfluo, si libera della pelle ridotta a brandelli, rimane solo carne viva. Viva fino a quando? Ai bordi della pista, nelle zone di confluenza dei vari reparti nella corrente principale, si ammucchiano sulla neve cassoni da fureria, cassette da ufficiale, marmitte da campo, munizioni, materiali di ogni specie.

Ogni tanto, sempre più raramente, qualche camion stracarico di materiale e di uomini, feriti o semplicemente spedati, ci sorpassa costringendoci a buttarci fuori strada affondando nella neve fino ai ginocchi. Bestemmie e maledizioni. Ma "i nostri camions" dove sono? Getreide ormai indietro e cresce invece la fatica bestiale e la confusione. Attraversiamo i resti bruciati di un gruppo di case, gia sede di comandi e di magazzini della sussistenza, muri anneriti, tettoie contorte dal fuoco rovinate a terra, travi di legno ancora fumanti. Appena fuori del piccolo villaggio una vecchia chiesa, trasformata in magazzino viveri, sfuggita al fuoco, ma porta egualmente i segni di una recente tempesta che ha devastato tutto ciò che vi era al suo interno. Dall'immensa porta spalancata si vedono ancora sulle scansie grosse forme di grana che vengono fatte a pezzi a colpi di baionetta, in fretta, perché si deve riprendere subito il cammino. Nessuno intende rimanere distaccato.

Ormai siamo in piena notte. Il freddo intenso. Dalle sciarpe e dai passamontagna, davanti alle bocche ansimanti degli uomini in marcia disordinata, pendono grappoli di ghiaccioli. Ogni tanto ancora qualcuno chiede rabbiosamente: "Ma i camions dove sono?". La domanda rivolta a tutti e a nessuno vuole forse coltivare una residua speranza, vuole trovare uno stimolo per continuare a camminare, vuole arginare, finché sia possibile, la disperazione. Ma la disperazione penetra egualmente negli animi. Ondate repentine di disperazione. "Vigliacchi! Farabutti! Traditori!" - si sente gridare qua e là. Ecco, uno che finora ha marciato in silenzio, a testa bassa, cocciutamente, ecco, all'improvviso si ferma e dice che non può più continuare, che si è sforzato di arrivare fin perché credeva di trovare gli autocarri. Non niente, invece. Tutti sono scappati, i vigliacchi, e lui non ne può più, è congelato, ha i piedi che sanguinano, brucia di febbre, non ce la fa più.

Cresce il marasma, anche perché il cammino è ostacolato dal lento avanzare di alcune slitte trascinate da muli che sembrano più affranti degli uomini. Sono slitte cariche di cassette da ufficiale, di sacchi a pelo, di munizioni. Buttiamo tutto a terra al margine della pista e carichiamo gli spedati, i congelati, i feriti e quelli che non c'è più modo di tenere in piedi. Protestano i conducenti, ma si persuadono presto e continuano col nuovo carico la lenta marcia. Avanti, avanti! Fermarsi significa morire! L'Italia lontana! Nessuno pensa più alla "nuova linea difensiva", alla favolosa linea fortificata dove dovremmo passare l'inverno. Circola la voce che il Comando di Corpo d'Armata ha fatto le valigie fin dal giorno 16, quando il 6° fu mandato a "conquistare" Ogolewka, e insieme si dice che i russi ci hanno chiuso in un'immensa sacca e che rimane aperto solo un piccolo varco dalla parte del villaggio di Makaroff! Avanti, allora, verso Makaroff!

Ha ripreso a nevicare e soffia un forte vento. Il freddo è intenso, tagliente, tuttavia finché si va avanti, finché si cammina, il freddo non si avverte. C'è gia chi non ne può più e si ferma e si butta sulla neve nell'illusoria attesa di una slitta o di camion su cui arrampicarsi, ma le slitte e i camions o sono più avanti col grosso della fiumana o sono inchiodati per sempre indietro sulla pista ormai vuota anche degli ultimi ritardatari. Fermarsi, buttarsi a terra, addormentarsi, morire. Ai margini della pista c'è un mucchio di neve.

Ma perché tornano le macchine dei comandi? Che successo? Da Makaroff non si passa, anche là ci sono i carri armati russi. Indietro! Prendiamo un'altra direzione, non c'è strada, la bufera ha cancellato tutto. Seguiamo una fila di pali telegrafici, ricordo dei collegamenti fra i nostri comandi. Sulla neve fresca la marcia si fa più faticosa e poi ci sono ingorghi di macchine e la lotta per far salire qualcuno sui pochi camions. Rabbiose invettive. Uomini schiacciati da ruote e da cingoli. Scie di sangue sulla neve.

Avanti, avanti, verso Popowka! Là si dovranno concentrare tutte le forze residue, là troveremo un gruppo di carri armati tedeschi, là rimetteremo un po' d'ordine per tentare lo sfondamento della sacca. Là ci fermeremo un poco a prendere respiro, là forse potremo anche dormire. Sono brandelli di speranza, ma danno la forza per continuare.

Finalmente arriviamo a Popowka. Un grosso villaggio sperduto in mezzo ad un deserto di dune nevose, dalle casette apparentemente risparmiate dalla guerra, ma vuote di abitanti. Vi sono confluiti in un disordine indescrivibile i resti di almeno tre divisioni e camions e trattori in parte destinati a rimanere li bloccati dai serbatoi a secco, slitte, carrette da contadino, automobili dei comandi. Ritroviamo anche l'autocarro del Comando di battaglione, carico di cassoni di scartoffie e di altro materiale ormai del tutto inutile, già depositato alla "base". Scaraventiamo a terra casse e cassoni e facciamo posto per i congelati e i feriti che non possono camminare. Andranno avanti finché ci sarà carburante.

Ci fermiamo a Popowka tutto il giorno. Quale giorno? Dormo un paio d'ore nel calduccio di una isba e mangio gallette spalmate di conserva di pomodoro, ma la maggior parte della giornata trascorre in rapporti-ufficiali, veri raduni di fantasmi. Nessuno ha informazioni sulla situazione, domina il verbo "pare" e il "si dice", non si sa niente di sicuro dei russi e di noi stessi, si cerca invano di fare una specie di inventario delle forze e dell'armamento disponibile. La notizia più precisa che "pare" che una divisione corazzata germanica sia in marcia verso di noi!

Nel pomeriggio una pattuglia di carri armati leggeri sovietici, sbucata improvvisamente dal profondo di una balka, avanza indisturbata fino alle prime case del paese, mette fuori uso con pochi colpi alcuni automezzi, poi scompare tutto a un tratto come apparsa dietro il mare di montagne russe che ci circonda. Verso sera si lascia Popowka. Gli uomini ancora armati e in grado di combattere sono ridotti a poche migliaia. Mi viene assegnato il comando di una cosiddetta compagnia di formazione: una sessantina di unità in fila per uno dietro di me. Pochissimi sono del mio battaglione.

Dopo qualche ora di marcia la colonna si arresta. Sembra che le avanguardie motorizzate si siano scontrate con forti contingenti sovietici che sbarrano la strada per Meskoff. Reparti ancora efficienti della Divisione Torino vengono mandati avanti a togliere di mezzo l'ostacolo. Nella notte gelida attendiamo l'esito dell'operazione battendo i piedi a terra e riparandoci schiena contro schiena. All'orizzonte vediamo incrociarsi scie luminose di proiettili traccianti, mentre giunge l'eco chiarissima delle raffiche di mitragliatrice e della fucileria. Quanto tempo aspettiamo? La Torino è riuscita a rompere il cerchio? La linea del fuoco si spostata più lontano, ma intanto l'attesa ha trasformato il grosso in un'infernale baraonda. Le cosiddette compagnie di formazione si sono sfasciate. Non c'è che una massa informe di quasi 20 mila uomini, che ondeggia, avanza, indietreggia, si ferma senza un piano, senza una guida, solo ubbidendo ad elementari istinti. Molti automezzi, i cui motori sono stati tenuti accesi nel timore che, a causa del gelo, una volta spenti non si possano più avviare, hanno esaurito il carburante e si arrestano per sempre in mezzo alla fiumana. I feriti, i congelati e gli spossati, ammucchiati nei cassoni dei camions definitivamente fermi, non vogliono scendere a nessun costo. D'altra parte come potrebbero camminare? Dove caricarli se anche dai parapetti dei camions ancora in marcia pendono grappoli

umani? Il caos nelle cose e nelle menti. Qual è la successione di tutti gli avvenimenti vissuti? Quando realmente avvennero? Quale avvenne prima, quale dopo?

Alle prime luci di un'alba mi trovo in una conca insieme a qualche migliaio di altri fuggiaschi. Non si vede il nemico. Cerchiamo un po' di riparo dal gelo in alcune isbe diroccate e nei vicini pagliai devastati. Passa una piccola slitta tirata da un cavalluccio spelacchiato che per lo sforzo allunga il muso fino a terra. C'è sopra quel colonnello di fanteria che pochi giorni fa ho visto agitatissimo ispezionare la linea Defrancisci. Ora ferito ad una gamba, ma appare assolutamente calmo e cerca di dare coraggio e di mettere un po' d'ordine nelle nostre file. Ad un tratto esplode a pochi metri dal gruppo di uomini che attornia la slitta una granata, certamente di un carro russo, ma non scopriamo dove il carro sia appostato. Ancora baraonda di uomini, in mezzo ai quali, come una barca dalla vela stracciata in un mare in tempesta, un pugno di animosi tenta di muovere, spingendo disperatamente, un camioncino che porta un anticarro 47/32, per disporlo nella posizione più favorevole per sparare.

Sulla sommità dell'altura prospiciente la conca si profila la sagoma del carro russo. Avanza verso di noi sparando a tiro rapido. Dalla parte opposta dell'avvallamento si vedono scendere in ordine sparso degli uomini in tunica bianca. Non sparano. Sono tedeschi? Sono russi? A fatica si riesce a raccogliere un centinaio di uomini che conservano ancora il moschetto o il fucile mitragliatore. Ci schieriamo dietro una cunetta e tra le macerie di un'isba. Il resto dell'ammucchiata si disperde qua e là.

Gli uomini dalle tuniche bianche si avvicinano a balzi e cominciano a sparare coi parabellum. Altro che i tedeschi "liberatori"! Rispondiamo precipitosamente, con scarsa precisione, ma evidente che il nostro fuoco li sorprende, forse non si attendevano alcuna resistenza. Si gettano a terra e avanzano più cautamente. Intanto dall'interno del camioncino dal copertone mimetico un bersagliere punta l'anticarro sulla tank russa ormai vicina e al primo tiro accade l'impossibile: il carro colpito forse nell'unico punto vulnerabile della sua imponente mole e rimane immobilizzato. Il bersagliere spara ancora contro un altro carro che sta per affiancarsi al primo, non lo colpisce o forse lo colpisce senza neppure scalfirlo, tuttavia anche il secondo carro si ferma, sosta un attimo ruotando il cannoncino e sparando, poi lentamente si ritira proteggendo l'equipaggio uscito dal carro ferito. Anche gli uomini dalle tuniche bianche ripiegano.

Nella conca siamo rimasti in pochi. Riprendiamo il cammino e non tardiamo a ritrovarci col grosso della colonna in ritirata. Cavalli e muli magri stecchiti arrancano faticosamente trascinando slitte cariche di feriti e di congelati. C'è anche un reparto tedesco motorizzato con i camions ben forniti di carburante, semoventi, mitragliatrici a due e a quattro canne montate su slittini, carro-cucina. Sono ben equipaggiati, calzano tutti i preziosissimi valenki, hanno regolarmente mangiato il rancio caldo, non hanno ancora messo da parte la naturale boria e non nascondono il disprezzo per tutti noi che navighiamo in condizioni assai diverse.

Passiamo a poca distanza da Meskoff, ai margini di un boschetto, e improvvisamente siamo fatti segno a violente raffiche di mitragliatrice. Parecchi uomini, italiani, ma anche tedeschi, cadono a terra feriti. La colonna è ferma. Un maggiore germanico chiama a sé un gruppo di ufficiali italiani e li informa che, se non si ripulirà al più presto il boschetto, non si potrà proseguire. É un compito, dice grintoso, che spetta agli italiani.

Raccogliamo un plotoncino di uomini, di cui uno solo armato di fucile mitragliatore Breda, e andiamo a rastrellare la macchia boscosa. I russi, probabilmente partigiani, conoscono il terreno insidioso e, quantunque debbano essere poche unità, pur ritirandosi, ci tengono impegnati e ci infliggono qualche perdita. Finalmente sembrano essersi dileguati nel nulla, non sparano più. Torniamo al punto di partenza, anche i tedeschi sono scomparsi. Appena ci siamo allontanati per il rastrellamento, hanno ripreso la marcia, lasciando sulla neve una decina di nostri feriti, uno dei quali mostra le mani insanguinate gridando: "I tedeschi, i tedeschi!". L'hanno costretto a colpi di baionetta sulle mani a lasciare la sponda del camion a cui si era aggrappato vedendoli ripartire.

Sono ricordi staccati l'uno dall'altro, frammenti, e mi sforzo inutilmente di trovare fra loro un nesso e una successione nel tempo. Dove vidi quel gruppo di ufficiali giovanissimi reggere in alto una grande bandiera tricolore, mentre una mitragliatrice sparava su di loro? Quando vidi seppellire la bandiera? Quando ricevemmo l'ordine di seguire le tracce lasciate sulla neve da un trattore condotto da un ufficiale del comando della Pasubio? Fin da quando era iniziato il ripiegamento la vicenda dei giorni e delle notti, della luce e del buio, si era confusa in un unico incubo grigio, ma quella notte mi pare fosse una notte stellata e che le ossa scricchiolassero dal freddo. Avanti nella neve azzurrognola sulle tracce del trattore!

Ma dove andato a finire questo trattore del maggiore Massa, che pure sentiamo rombare da qualche parte? Gira anche lui qua e là come un mostruoso moscone alla disperata ricerca di una strada libera per l'Italia. L'abbiamo perduto di vista molte volte, ma sempre ritrovato. Questa volta sembra essersi volatizzato nella neve. Attendiamo. Ecco, si ode il suo ansimare faticoso al di là di una ondulazione del terreno che potrebbe nascondercelo. Seguiamo una rudimentale pista dove la neve è molto alta, camminiamo come fossimo impegnati per l'ultimo balzo; la lieve salita innevata ci prende il respiro; ma il rumore viene di là, certamente il trattore. Ci spingiamo avanti e veniamo investiti da una raffica di mitragliatrice che ci fa ripiegare precipitosamente, lasciando morti e feriti dietro di noi.

In marcia ancora, avanti, senza una meta precisa, senza sapere minimamente dove si Va. Gli uomini sono sempre più spossati, camminano barcollando, semiaddormentati, perché irresistibile il bisogno di dormire. Si buttano a terra. Li scuoti, li spingi come puoi: "Non fermarti! Tieni duro ancora un poco! Se ti addormenti muori".

"Lasciami fare, mi riposo solo un attimo. Andate avanti! Non mi addormento. Vi raggiungerò tra poco". Ma basta quell'attimo di occhi chiusi, la morte, non il sonno. E la strada tutta segnata da statue di ghiaccio che giacciono ai due lati del cammino e contro cui incespichiamo col nostro passo barcollante. Siamo ancora immersi nel grigiore uniforme, ma deve essere notte. Davanti a noi un gruppo di casette di legno. Attorno non si vede alcun movimento. Si dice, chissà con quanto fondamento, che nel pomeriggio sia passato di un grosso reparto di partigiani. Ora, però, tutto calmo. In testa alla nostra colonna, che è ormai solo una piccola frazione della grande fiumana che si ritira, discutiamo se fermarci o no. Prevale la considerazione dell'estrema spossatezza generale; bisogna fermarsi per mangiare quel po' che rimasto nelle tasche e tentare di dormire qualche ora.

Mi pare di essermi appena addormentato che mi sveglia una furibonda sparatoria. Centrate le finestrelle dell'isba, rovesciato a terra il lumino ad olio, nell'oscurità grida, bestemmie, lamenti. Balziamo fuori dal provvisorio rifugio. I russi attaccano il borgo da tre lati, impiegando anche piccoli mortai d'assalto che abbattono molti dei nostri sulla neve e seminano il panico e la confusione. I più animosi cercano di rispondere facendo fuoco col moschetto e coi pochi parabellum, ma non si tratta di una resistenza, che d'altra parte in quelle condizioni sarebbe impossibile. Per salvarsi non resta che tentare di raggiungere una profonda balka, distante da noi circa 200 metri, dall'unico lato che sembra ancora libero.

Con le armi che ci sono rimaste bruciamo le ultime munizioni, lanciamo le ultime bombe a mano e ci buttiamo fuori della borgata in direzione della balka. Una corsa frenetica di qualche decina di metri, poi a terra; ancora un balzo, nuova corsa Sulla neve, di nuovo a terra. Eternità di 200 metri! Siamo partiti dalle isbe abbastanza in ordine, quasi ubbidendo ad un piano d'azione precedentemente predisposto; ora ognuno corre per suo conto, non vede che se stesso. Finalmente arrivo alla balka e mi lascio cadere pesantemente lungo il pendio. Mi sento stordito, ma sono intatto. Sono salvo?

Sopra il mio capo, ma più in alto di prima, passano sibilando le pallottole delle mitragliatrici russe. Avanzo lungo la balka. Il grigiore del cielo ora meno intenso, forse sta per sorgere l'alba. Vedo buttati qua e là bombe a mano, caricatori vuoti e pieni, elmetti, armi portatili. Il fondo balka si allarga fino a divenire un'ampia vallata. La sparatoria è ormai lontana. Soldati isolati o a piccoli gruppi sono sparsi nell'immensa distesa di neve come fossero passati attraverso un gigantesco vaglio e sembrano andare tutti nella mia stessa direzione. Raggiungo due di questi puntini neri: un sottotenente e un graduato dei bersaglieri. Anche loro stavano prendendo un po' di respiro in una delle isbe quando i russi, partigiani si dice, hanno attaccato. Sono romagnoli come me. Dove andiamo? Andiamo avanti, ma non siamo neppure certi se andiamo verso est o verso ovest. La bussola si fracassata nel trambusto dell'improvviso risveglio. Seguiamo una pista che reca impronte di uomini e di macchine, ma a passar di qui non stato certo il grosso della colonna in ritirata. Superata una leggera salita, arriviamo ad un vasto capannone, forse un deposito di macchine agricole o un magazzino, dal tetto di paglia ancora quasi intatto. Appoggiati alla parete esterna, vicino all'entrata, militari feriti, fasciati alla meglio con bende intrise di sangue, sofferenti soprattutto per la sete. Molti hanno i piedi ravvolti in stracci, congelati, impotenti ormai a muoversi. Anche l'interno del capannone pieno di feriti, più gravi, sembra. Il tanfo che si avverte entrando come un pugno nel petto. C'è un medico, ci sono anche alcuni militari con la croce rossa al braccio.

"Siete feriti?" - ci chiede bruscamente il medico. "No." - rispondiamo, - "Avete bisogno?". "Se non siete feriti, andate, andate" - incalza l'ufficiale medico. - "Qui non potete fare niente. Ho bisogno di materiale sanitario, di disinfettante, di almeno un pò d'acqua. Non l'avete. Andate, andate! Datemi i vostri pacchetti di medicazione, se li avete ancora. Io resterò qui coi feriti e gli infermieri ad aspettare i russi. Se avete del cognac nelle borracce, datemelo".

Gli lasciamo quanto ancora in nostro possesso e riprendiamo il cammino. Ci seguono gli occhi pallidi, giallognoli dei feriti dalle grigie facce irsute. Avanti, avanti, dunque, sulle tracce lasciate da un'altra colonna di uomini. Da molto tempo ci trasciniamo e non vediamo che neve. A tratti, quest'abbandono, questa solitudine ci da l'impressione di trovarci "fuori", di essere passati "di là", di aver superato l'accerchiamento, ma siamo troppo sfiniti per pensare. Abbiamo sete, abbiamo fame, abbiamo sonno. Tiriamo avanti. All'improvviso ci appare a distanza, al bordo della pista una costruzione bassa, isolata, attorno a cui c'é movimento di uomini, un camion, dei carriaggi. Russi? Italiani? Comunque ci avviciniamo: sono militari in grigioverde, gente come noi, naufraghi. Entriamo nella casa: una stanza piena di feriti e la scena di poco fa si rinnova, nell'altra stanza ci sono degli ufficiali italiani e delle giovani donne ukraine. Le donne strillano e piangono disperatamente, abbracciate ai loro amici, che cercano di calmarle, di tranquillizzarle, assicurando che i russi non verranno, che ormai non c'è più pericolo, che nessuno le toccherà. Usciamo disgustati e riprendiamo il nostro vagabondare senza speranza. A non molta distanza deve svolgersi un violento combattimento. Ci giunge chiaro un gran tuonare di cannoni e l'inconfondibile voce delle katiusce. Istintivamente cerchiamo di accelerare il passo, ma non passa molto tempo che la stanchezza, la fame e tutto il resto ci paralizza le gambe. Ci fermiamo al riparo di alcune carrette rovesciate.

Ci sono lì presso le carogne dei muli. Niente ci differenzia dai morti che sono intorno a noi semisepolti dalla neve. Quanto tempo sostiamo? A intervalli sfilano davanti a noi gruppetti di uomini disarmati, stracciati, spossati, che vanno avanti senza meta. Ci vedono buttati sulla neve tra le carrette e le carogne di mulo, ma passano senza chiederci nulla. Parlare costa una fatica terribile.

Tutti vanno in una medesima direzione. Ci alziamo lentamente aiutandoci l'uno con l'altro e proviamo a muovere le membra intorpidite. Seguiamo gli altri. Ad un tratto udiamo dietro di noi, fragoroso, il rombo di un motore. Un carro armato? Che possiamo fare? Dove possiamo ripararci se non c'è altro che neve attorno a noi? Proseguiamo in silenzio, senza voltarci, a testa bassa.

Il rombo del motore si avvicina. "Italiani! Italiani!" - sentiamo chiamare con forte accento straniero. Ci fermiamo, ci voltiamo. É un ufficiale russo in piedi su una macchina scoperta, agita le braccia come per salutarci. Noi non abbiamo neppure da alzare le mani: nel volto, nell'abito, nell'atteggiamento, nell'animo siamo già dei prigionieri. Eppure è accaduta l'unica eventualità che avevo sempre escluso nel corso della guerra, ed accaduta in maniera del tutto imprevedibile. La macchina dell'ufficiale sovietico prosegue. Vediamo altri gruppi di italiani fermarsi e ritornare verso di noi che stiamo sbarazzandoci di alcune bombe a mano, delle tessere, dei rubli, dei marchi. In pochi minuti si è raccolta una piccola folla, vigilata da una decina di soldati russi, armati di parabellum, che urlando, ci mettono in fila per quattro. E in marcia di nuovo a ripercorrere in senso inverso la strada percorsa, a fianco a fianco dei due bersaglieri. Sembriamo degli automi, dei sonnambuli.

Un soldato russo a cavallo s'accosta e fa incetta di orologi da polso. Anch'io mi affretto a slacciare il mio e a consegnarglielo. Il cervello mi si deve essere svuotato della volontà e della facoltà di pensare. Ho lo sguardo a terra, fisso ai piedi che si muovono, un passo dietro l'altro. E' il 23 dicembre 1942.

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