lunedì 2 novembre 2020

I giorni e gli anni, parte 4

Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. La cartina riportata è stata ricavata da Google Earth e dovrebbe (ne parlo al condizionale) riportare la linea Defrancisci, dopo le opportune verifiche rispetto ai testi da me consultati.

LA LINEA DEFRANCISCI.

All’alba del giorno 16 ci svegliò una nuova sorpresa: "Allarme!".

In mezz'ora il battaglione doveva mettersi in condizioni di marciare verso la linea del fronte "per dare una mano" ad un reggimento della Pasubio contro cui i russi stavano esercitando una forte pressione. La favola del gen. Troiano (ma era mai esistito costui?) in cerca di accantonamenti invernali si sgonfiava miserabilmente nel mugugno generale. Quanto si sarebbe tirato avanti ancora con questa catena di mistificazioni, di fantasie e di subitanee sempre più sofferte prese di coscienza di una realtà tragica? Tutti eravamo convinti, che il repentino reimpiego in linea del battaglione si sarebbe tradotto nella ripetizione di Ogolewka e avremmo avuto conferma che i comandi superiori, mosconi impazziti, prendevano decisioni folgoranti e contradditorie mancando in assoluto un piano tattico, nell’ignoranza del reale andamento delle operazioni sul fronte. Ancora tutti avvertivamo, sia pure confusamente, che qualcosa di importante, di decisivo ci era tenuto nascosto.

Gli uomini affardellarono gli zaini e, uscendo lentamente dal capannone, si misero in fila in silenzio. Tirava il solito vento gelido dell’alba. Il cannoneggiamento era molto vicino e continuo. "Zaino in spalla! ... Andiamo".

Ripassammo per Getreide Swiss e la trovammo più squallida di quando eravamo partiti per Ogolewka. I bunkers e le baracche si erano trasformati in depositi di neve, penetrata attraverso porte e finestre sgangherate. Non vedemmo anima viva, passammo in silenzio avanzando a fatica perché nella notte aveva nevicato molto. Sotto gli scarponi scricchiolava la neve fresca, sbatacchiava qualche gavetta ciondolante.

Ben oltre Getreide Swiss incontrammo i primi feriti della Pasubio. Erano feriti leggeri che andavano verso la retrovia alla cieca, in cerca di un posto di medicazione o di un ospedaletto da campo. Alcuni avevano già avuto una medicazione sommaria, altri no. Per lo più erano accompagnati da commilitoni o anche da superiori forse eccessivamente caritatevoli, date le circostanze. Apparivano tutti agitatissimi, raccontavano che i sovietici avevano attaccato di sorpresa con grandi forze lo schieramento del 79° reggimento, avevano spezzato ogni resistenza ed ora avanzavano contrastati soltanto da deboli forze superstiti dello stesso reggimento.

Come avevano fatto i feriti ad arrivare fin lì? In quel punto non si udiva nessuna sparatoria di mitragliatrice o di fucileria, il fronte, dunque, avrebbe dovuto situarsi ancora abbastanza lontano, invece il racconto dei feriti dava i russi a un paio di chilometri al massimo. Proseguimmo la nostra marcia. In un boschetto, che fiancheggiava l’incerta strada da noi percorsa, una batteria di gente fresca, pulita, equipaggiata di nuovo, piazzava i suoi pezzi sfruttando piccole radure. Ufficiali ed artiglieri apparivano tranquillissimi e manovravano ordinatamente come fossero in piazza d’armi. Un sottotenente venne sulla strada e ci chiese dove eravamo diretti.

"Di rinforzo alla Pasubio. I russi hanno sfondato". "Macché sfondato!" - disse l’ufficiale. - "Li hanno già fermati alla linea Defrancisci. Vedrete che vi faranno tornare indietro subito. Noi siamo venuti qui solo per maggior sicurezza".

La notizia era buona, ma chi poteva crederci? Intanto continuammo ad andare avanti.

Dopo qualche chilometro, quantunque procedessimo a testa bassa come i muli, scorgemmo scendere da lontano verso di noi un gruppo di uomini, un plotone forse, preceduto da una figura allampanata e gesticolante. Gli uomini erano militi della Tagliamento e fanti e bersaglieri, facce sfigurate dai segni della fatica, dalla fame, dal sonno, pastrani e scarponi inzaccherati e a brandelli. L'ufficiale alla loro testa, alto, magro, terreo, con la faccia ossuta, angolosa, i grandi occhi allucinati, vestito di un pastrano grigio-verde scuro lungo fino ai piedi, sembrava mosso da un’eccitazione incontrollabile. Parlava a scatti, a raffiche: stavano di presidio in un caposaldo bombardato per errore a due riprese dagli stukas tedeschi; gravi perdite tra gli uomini, un capitano impazzito; nella notte era giunto il cambio, ora andavano indietro, al Comando, chissà dove.

Lo ascoltammo sgomenti. Osservandolo attentamente mi sembrò di ravvisare una fisionomia già incontrata altrove.

Gli chiesi di dove era, due volte, tre volte. Non ci fu verso di aver risposta. Seguiva il suo racconto, lo ripeteva, come sotto un incubo ossessivo. Solo poco prima di riprendere la marcia col suo scardinatissimo plotone disse che i russi avevano attaccato il suo caposaldo con grandi forze fino al giorno precedente, non erano passati, e da 24 ore sembravano spariti. Dovevano aver spostato l’attacco nel settore della Pasubio. Poi sempre gesticolando con le lunghe braccia da mulino a vento, si avviò coi suoi uomini. "Vivi!" - mi gridò salutando con una mano.

Rimasi come interdetto per quello strano augurio. Si trattava proprio di un originale. Intanto erano giunti alcuni portaordini del Comando di Gruppo incaricati di farci da guida. L'ordine era di andare più in fretta.

Dopo un paio d'ore di marcia sulla neve fresca giungemmo alla sommità di una collina piatta, ove si aprivano, a distanza di un centinaio di metri l'una dall'altra, quattro-cinque enormi buche rettangolari, forse di metri 3 per 10, profondi 3-4 metri, completamente scoperte.

Ci dissero che eravamo arrivati. "Ma questa è la famosa linea Defrancisci?" "Sì, è questa. Tutto quel che c'è è qui!".

Vi trovammo qualche centinaio di uomini della Pasubio, i resti di alcuni battaglioni che, investiti in pieno dai russi sulla linea del Don, erano stati sbaragliati, nonostante un'accanita resistenza. Tra di loro si scorgevano parecchi militari in divisa di tela estiva e bustina, col solo pastrano, senza pelliccia. Erano i "vecchi" della Pasubio, quelli che avevano già conosciuto l’inverno russo e che dovevano rientrare in patria per avvicendamento. I comandi avevano ritenuto inutile distribuire i pellicciotti e l’equipaggiamento pesante.

Di fronte al piatto culmine della collinetta, a circa trecento metri, si apriva trasversalmente una larga e profonda balka. Al di là si avvicendavano ancora colline piatte e avvallamenti. Il Don con le sue sponde a sbalzo non doveva essere molto lontano. Ad occhio nudo di vedevano scendere degli uomini in ordine sparso. Superstiti della Pasubio? Osservammo col cannocchiale. No, erano i russi.

Il battaglione venne disposto sulla linea delle grandi buche e gli uomini scavarono nella neve alta quasi un metro camminamenti, postazioni e avamposti. Una semplice protezione dalla vista, peraltro assai necessaria.

La fucileria era lontana. Neppure l’artiglieria ci disturbava, ma i russi si andavano avvicinando visibilmente. Bisognava fermarli prima che si attestassero alla balka o che tentassero di aggirarci sulla destra, dove mancavamo ancora di qualsiasi collegamento. Furono portati in postazione quattro cannoncini anticarro coi quali avrebbe dovuto essere possibile fare un buon fuoco di sbarramento. Purtroppo c’erano gli anticarro 47/32 (inutili come anticarro, ma utilissimi per l'impiego che se ne poteva fare nella circostanza), ma mancavano le munizioni. Fuori, dunque, le pattuglie ... a tener lontani i russi.

Finalmente, dopo qualche ora, le munizioni arrivarono e alle nostre spalle si fece viva l'artiglieria. Forse era la batteria dell'ufficiale ottimista incontrato al mattino. In quell’occasione il tiro dei piccoli anticarro fu particolarmente efficace. Le pattuglie russe, sorprese dalla precisione dei tiri, si dispersero, si misero al riparo nelle ondulazioni del terreno e noi le perdemmo di vista. Presto non si notò più nessun segno di avanzata.

Ancora un salvataggio in extremis dovuto al caso, alla freddezza o all’iniziativa di un singolo reparto, un salvataggio che ci voleva perché sulla linea Defrancisci regnava il caos. Nessuno sapeva con precisione chi comandasse il settore. Lungo la linea, nelle postazioni, nei posti avanzati al margine della balka si aggirava un colonnello che sembrava aver perduto la testa. Correva qua e là a dare ordini, a dire bravo a uno, coglione a un altro che magari si comportava esattamente come il primo, creando nell’improvvisato schieramento una confusione indescrivibile. Gli teneva dietro, arrancando a fatica nella neve, un capitano a cui non era permesso di aprire bocca e che scuoteva malinconicamente il capo.

Tuttavia, poiché i russi sembravano davvero spariti dietro le alture prospicienti il Don, a poco a poco anche sulla linea Defrancisci si fece un certo ordine. Nelle postazioni erano reparti di formazione "spontanea", camicie nere e soldati della Pasubio, quasi tutti "vecchi" dello C.S.I.R. Di fatto le truppe del settore dipendevano dal Comandante del Montebello.

Il fronte affidato al 6° battaglione con gli aggregati della Pasubio era molto vasto e sarebbe stato impossibile tenerlo con la linea continua. Sbadilando nella neve e cercando, spesso senza esito, di rompere il terreno ghiacciato, si costituì tuttavia una serie di punti di resistenza, minuscoli caposaldi ciascuno dotato di un'arma pesante, collegati a vista durante il giorno e dal continuo circolare di piccole pattuglie durante la notte. Così all’addiaccio, riparati dal gelido vento da parapetti di neve, affrontammo la prima notte sulla "linea fortificata Defrancisci".

Era già buio quando giunse il primo "rancio caldo", tutt'altro che caldo in verità, ma non ancora ghiacciato. Nelle postazioni e nelle buche avanzate delle vedette sembrò molto buono e abbondante, accompagnato peraltro da un gavettino di cognac, di cui erano arrivati alcuni fusti assieme al rancio.

"Forza, ragazzi, le borracce! C’è cognac a volontà!". "Bene, meglio tardi che mai! Ma perché lo tirano fuori solo adesso? È un brutto segno!". "Prima", un paio di cucchiaiate di cognac venivano date agli uomini che si apprestavano ad uscire di pattuglia.

La prima notte passò abbastanza tranquilla. Qualche sparatoria qua e là, qualche raffica dei russi con proiettili traccianti. All’alba, però, vedemmo che gli avamposti russi si erano avvicinati ulteriormente alla balka, a cui il nostro schieramento stava affacciato, ed avevano portato avanti anche le armi pesanti. In concreto, non si poteva alzare la testa al di sopra dei parapetti di neve. Ancora una volta si doveva convenire che, se i sovietici avessero attaccato come avevano fatto giorni prima con la Pasubio, non avremmo potuto resistere a lungo.

Ma ancora una volta a ridarci speranza, a rinfrancarci, ad aiutarci a tener duro, almeno dentro noi stessi, fu fatta circolare la voce che una divisione corazzata tedesca stava per venire a darci il cambio. L'illusione è sempre l’ultima a morire, ma che illusione potevamo ancora nutrire quando, nel pomeriggio del 17 dicembre, vedemmo arrivare in linea un battaglione del Genio Ferrovieri? Era quella la favolosa divisione corazzata tedesca?

Erano tutti anziani che non avevano mai visto la prima linea, che non sapevano maneggiare le armi, che non avevano armi. Fino a pochi giorni prima avevano messo giù rotaie a ritmo contadino, riposando sovente presso la stufa dell’isba più vicina. All'improvviso erano stati buttati nell’occhio del ciclone col compito di sbarrare la strada ai russi, forse di fermare i carri armati con una vecchia mitragliatrice FIAT che ogni tanto necessitava di essere messa sul fuoco per sbloccarne i congegni raggelati. Erano consapevoli di rappresentare, loro malgrado, un particolare comico e tragico insieme, nel quadro della guerra, ma erano straordinariamente bravi, volenterosi, ubbidienti, direi quasi, mansueti. Ascoltavano gli ufficiali e anche gli "anziani" degli altri reparti con rispettosa attenzione. Volevano rendersi utili subito, ma che pena con quei loro occhi troppo fermi e spalancati, con quei cappottoni foderati nelle retrovie con pelo variopinto, con quelle mani tenacemente infilate nelle tasche sul petto, con quelle barbe disseminate di fili d’argento!

"Tenente, ora che sono arrivati i macchinisti, speriamo che arrivi anche il treno!" - era la battuta amara di un "vecchio" della Pasubio ancora in divisa estiva. Così sulla linea Defrancisci passammo il 16, il 17, il 18 dicembre. Nemico veramente feroce il freddo, che il sonno ingigantiva. A turno gli uomini andavano a scaldarsi nelle grandi buche, dove erano state apprestate delle stufe e che in parte erano state coperte con travi e teli da tenda.

Ogni tanto una raffica, ogni tanto un colpo di mortaio. I russi ci tenevano svegli, in attesa sempre dell’arrivo della favolosa divisione corazzata tedesca.

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