giovedì 8 aprile 2021

Il processo D'Onofrio, parte 5

Il processo D'Onofrio, quinta parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.

LA SESTA UDIENZA.

Nessuna tregua, non un attimo di respiro, né la possibilità di prendere la minima iniziativa, ha dato il primo teste escusso oggi 28 maggio 1949, con la valanga di precise accuse che ha rovesciato sul capo del senatore D'Onofrio. Don Enelio Franzoni, cappellano della Divisione Pasubio, catturato nel dicembre del 1942, proposto per la medaglia d’oro sul campo, prima di cominciare la sua deposizione, ha guardato fisso negli occhi, con uno sguardo sicuro e leale, il querelante. E poi ha iniziato la narrazione dei numerosi interrogatori subiti da parte del Fiammenghi, del D'Onofrio e prima ancora dal Robotti che lo assillò con le solite domande sul perché fosse venuto a fare la guerra in Russia e sul perché mai l'esercito non si ribellasse, ricordandogli, a conclusione, la storia di Napoleone e della campagna di Russia: 'In Russia si va, ma non si torna', commentò il fuoruscito.

Don Franzoni: 'Fui fatto entrare in una stanza nel campo di Oranki, poco prima del 25 luglio 1943, dove trovai, insieme al D'Onofrio, Fiammenghi e il maggiore russo Orloff. Un soldato russo chiuse la porta alle mie spalle e rimase fuori di piantone. D'Onofrio m'invitò prima a sedere, e poi volle sapere le mie generalità e dove avessi esercitato il ministero religioso in Italia. Risposi che ero insegnante al seminario di Bologna'.

Presidente: 'Scriveva qualche cosa il D'Onofrio, durante questo colloquio?'.

Don Franzoni: 'Sì, prendeva degli appunti e il magg. Orloff faceva la stessa cosa. Mi chiese poi quali fossero le mie idee politiche e malgrado rispondessi che, come sacerdote, non potevo avere idee politiche, insistette dicendo, fra l’altro, che oltre ad essere sacerdote ero anche cittadino. Ancora una volta replicai che un cappellano militare non può avere idee politiche, ma lui non si dette per inteso: voleva ad ogni costo che gli rispondessi. Ma visto che a quel modo non riusciva ad ottenere una risposta, tentò un’altra strada e cominciò a dirmi che, ovviamente, come cappellano dovevo almeno conoscere le idee degli altri ufficiali. Rimasi offeso da queste parole. D'Onofrio voleva abusare della mia qualità e servirsene per i suoi scopi. Mi guardai bene, perciò, dal rispondere ad una domanda tanto maligna e insinuante.

Ma non era ancora finito: l'interrogatorio si protrasse per altre due ore. D'Onofrio cambiò argomento e mi parlò della Patria lontana e della famiglia. Mi chiese se desideravo rivedere la mia famiglia. Certo, aggiunse, se volevo rivederla era necessario che mi allineassi ai nuovi tempi. Nelle sue parole non stentai a riconoscere una aperta minaccia.

Un giorno, mentre ero ancora al campo di Tamboff, ebbi ordine dal comandante russo di scrivere una lettera al Papa, nella quale dovevo consigliarlo sull’andamento della guerra suggerendogli di cercare di por fine ad essa. Io scrissi a Sua Santità pregandola di aiutarci, ma non feci cenno alcuno al suggerimento che m'era stato dato dal comandante russo, il quale, dopo aver letto la lettera disse che non andava bene e me la fece riscrivere daccapo. In sostanza tornai a scrivere le stesse cose, ampliandole con giri di parole, ma non nel senso desiderato dall'ufficiale russo. Comunque, prima di consegnarla, la lessi agli ufficiali ed ebbi la loro approvazione.

È assolutamente falso che io nella lettera abbia esaltato la Unione Sovietica, come asserì il D'Onofrio all'epoca della polemica avuta con il 'Risorgimento Liberale'. Non avrei certamente potuto farlo mentre attorno a me, per fame e per freddo, morivano ad uno ad uno i miei uomini'.

Il tenente degli alpini Mario Braga dichiara che nel campo di Susdal incontrò il cap. Magnani, proveniente dal campo di Elabuga, il quale gli disse di essere stato informato dai sovietici stessi che si trovava in quel campo in seguito a segnalazione del signor D'Onofrio e del magg. Orloff.

L’affermazione del teste provoca un vivace scambio di frasi fra l'avv. Taddei e i due avvocati di parte civile i quali sostengono che il teste, in una sua precedente deposizione scritta, non aveva accennato alla circostanza ora citata e chiedono l'incriminazione del teste. Il quale, intervenendo nel battibecco, spiega che non accennò allora alla circostanza in questione perché temeva che, facendo il nome del cap. Magnani ancora prigioniero, potesse in qualche modo danneggiarlo. Siccome il Magnani è stato citato più volte in quest’aula, oggi sente il dovere di dire tutta la verità.

Prima che salga sulla pedana l'altro testimone, il tenente degli alpini Carlo Colombo, nasce un secondo incidente. L'avv. Taddei presenta al tribunale una foto nella quale è ritratto il corpo di un bersagliere spaventosamente mutilato dai soldati russi all'atto della cattura. È il corpo della medaglia d’oro alla memoria Guido Cassinelli il quale rimase abbarbicato alla sua mitragliatrice fino a che, sparato l'ultimo colpo, i russi non riuscirono a farlo prigioniero ancora al suo posto di combattimento. Avv. Sotgiu: 'Mi oppongo che la fotografia venga allegata agli atti. Essa esula dalla materia del processo'.

L'avv. Taddei insiste. Il Presidente consente che la fotografia, esibita dalla difesa, circoli nell’aula per sola visione.

Avv. Taddei: 'Però i criminali di guerra erano i bersaglieri...'.

Chiuso l'incidente il ten. Colombo può dire che nel campo di Susdal incontrò la signora Torre che fungeva da interprete. Le chiese di aiutarlo a far pervenire una sua lettera alla famiglia, ma la Torre, sorridendo, rispose che la posta era un 'dono che bisognava saper contraccambiare'. Anche il ten. Colombo parla a lungo del cap. Magnani ribadendo quanto già è stato detto da tutti gli altri testi.

Aggiunge solo che il capitano gli disse: 'Se alla fine della guerra io non tornerò più in Italia, lei può attribuire pubblicamente la colpa di ciò al signor D'Onofrio...'.

Ultimo teste della difesa il tenente dei Carabinieri Francesco Mantineo, anch’egli internato nel campo di Susdal, dove conobbe quasi tutti gli ufficiali che non hanno fatto ritorno. Cita, fra gli altri, il gen. Battisti, il magg. Massa, il magg. Zigiotti, don Brevi, il cap. Magnani. Questi gli raccontò degli snervanti interrogatori ai quali era stato sottoposto dal D'Onofrio che il Magnani stesso chiamava 'il Giuda'. Il teste dichiara che il Magnani gli disse allora: 'Se avrò la fortuna di ritornare in Patria, cosa che mi sembra difficile, ne racconterò delle belle sul conto di questo signore'.

L'udienza è finita. Il sen. D'Onofrio raccoglie con cura le proprie cartelle, gli appunti che prende continuamente. Un vago sorriso increspa le sue labbra mentre si allontana dall’aula. Da lunedì la valanga delle accuse si arresterà e alle sue orecchie suoneranno soltanto parole amiche: per una settimana.

LA SETTIMA UDIENZA.

30 maggio 1949 - Prima che comincino ad avvicendarsi sulla pedana coloro che sono stati chiamati a dimostrare la falsità delle accuse lanciate contro il sen. D'Onofrio, il querelante deve ascoltare ancora la voce, non certo gradita, del ten. Giuseppe Cangiano della Divisione Torino, il quale non fece in tempo a deporre nella udienza precedente.

L’ultimo teste addotto dalla difesa ha raccontato che nel campo di Kiev, dove aveva conosciuto il cap. Magnani proveniente da Elabuga, fu invitato a sottoscrivere una dichiarazione nella quale si diceva pressappoco: 'Il capitano Magnani e il tenente Giuseppe Ioli sono colpevoli dei massacri contro le popolazioni civili russe; sono colpevoli dell’incendio delle chiese russe; sono fascisti irriducibili. Essi perciò dovranno essere eliminati perché diversamente continueranno la loro opera nefasta'. La dichiarazione, nella quale si aggiungeva che la morte dei prigionieri italiani nei campi di concentramento era avvenuta per malattie da essi contratte prima della cattura, era redatta in lingua italiana e recava, in calce, due firme...

D'Onofrio: 'Lo dica pure... Una delle firme era la mia...'.

Cangiano: 'Infatti, stavo per dirlo. Delle due firme l’una era di un certo cap. Gullino e l'altra era quella del D'Onofrio. La dichiarazione era assolutamente falsa ed io naturalmente mi rifiutai di firmarla anche perché in essa si diceva che io avevo la certezza delle accuse ed ero a conoscenza degli episodi citati.

Fui rinchiuso in carcere per due mesi e, scontata la pena, nuovamente chiamato e nuovamente invitato a sottoscrivere la dichiarazione. Era il 26 dicembre del 1946. Al mio rifiuto, un soldato russo mi legò ad una sedia. Poi insieme ad un capitano sovietico cominciò, per ordine di quello, a picchiarmi a schiaffi, a calci, a pugni. Il capitano usava una riga di ferro. Ad un certo punto l'ufficiale mi disse: 'Ma insomma perché lei si ostina a fare il martire? I veri italiani, non hanno esitato a firmare'. Mi rifiutai ancora e loro ricominciarono a percuotermi finché non svenni'.

D'Onofrio: 'È falso. Tutto falso. Non ho mai fatto dichiarazioni del genere. Ho conosciuto il cap. Gullino nel campo di Skit, ma non ho parlato con lui di crimini di guerra. Per principio aborrisco la guerra e non avrei un attimo di esitazione nel denunciare chiunque di tali crimini si fosse macchiato. Ma non ho mai saputo che il cap. Magnani o il ten. Ioli abbiano commesso azioni del genere. Del resto io al fronte russo non ci sono mai stato'.

Avv. Mastino Del Rio: 'Se al D'Onofrio fossero stati noti crimini di guerra commessi da militari russi, li avrebbe, egli, denunciati?'.

D'Onofrio: 'Pubblicamente. Ma non mi è mai risultato che soldati russi abbiano commesso crimini di guerra'.

Prima che sia introdotto il primo teste della parte civile, l’avvocato Taddei ha fatto sapere al Collegio che la federazione comunista di Parma, prima che avesse inizio il processo, fece delle indagini presso i suoi organizzati allo scopo di sapere tutto quello che era possibile sul conto del signor Luigi Avalli, uno degli imputati: le sue idee politiche, quale fu il suo comportamento prima dell’8 settembre 1943 e dopo tale data e dopo il suo rientro dalla prigionia. Evidentemente la difesa ha voluto rendere la pariglia a quanto aveva detto in precedenza la parte civile a proposito di una circolare che l'Unione Reduci dalla Russia inviò a tutti i commilitoni per sollecitare testimonianze da servire nell'attuale processo. Ed è cominciata la serie dei testimoni addotti dal querelante.

Il primo è un ufficiale d'artiglieria Alessandro D’Alessandro che fu nei campi di Tamboff e Susdal.

D'Alessandro: 'Avevamo una certa libertà e, se è vero che durante i primi tempi della prigionia il morale era molto depresso e le cose andavano piuttosto male, è pur vero che a poco a poco notammo un certo generale miglioramento della situazione. Nel campo potevamo servirci di una biblioteca discretamente fornita di libri di letteratura e di politica...'.

'Per compensare la mancanza del cibo necessario per vivere' s’è inteso gridare da qualcuno del pubblico.

D'Alessandro: 'Cominciai a farmi una cultura politica e mi convertii all'antifascismo e osservai come il commissario politico del campo si prodigasse per migliorare sempre più le condizioni dei prigionieri'.

Presidente: 'Conobbe, lei, il D'Onofrio durante la sua permanenza al campo di Susdal?'.

D'Alessandro: 'No. Durante la mia permanenza in terra di Russia non vidi mai Edoardo D'Onofrio. Ho conosciuto il senatore soltanto al mio ritorno in Italia'.

Avv. Mastino Del Rio: 'Quanti morti vi furono a Valuiki?'.

D’Alessandro: 'Nella mia baracca perirono 15 uomini su 60 occupanti'.

Avv. Mastino del Rio: 'E a Tamboff?'.

D’Alessandro: 'A Tamboff le condizioni divennero più critiche e la percentuale dei morti crebbe'.

Il teste cade in contraddizioni evidenti, dimenticando che poco prima ha parlato di progressivo 'generale miglioramento della situazione nei campi'.

Avv. Taddei: 'Il teste, per caso, è iscritto al partito comunista italiano?'.

Avv. Paone: 'Abbiamo chiesto, noi, ai vostri testi se erano iscritti al movimento sociale italiano?'.

Il Presidente taglia corto dichiarando non valida la domanda e il teste viene congedato. È la volta di un caporale di fanteria, Luigi Leggeri, il quale teste fu inviato in quella scuola per premio: aveva esaltato la vittoria delle armi russe. Ricorda soltanto i nomi di Fiammenghi e di Vella, come insegnanti; nella scuola si studiava il movimento operaio e l'insegnamento era improntato a criteri antifascisti. Alla fine del corso il teste e tutti gli altri che erano in quel campo-scuola, furono fatti rientrare in Italia.

Avv. Taddei: 'È vero che alla fine del corso si doveva prestare un giuramento?'.

Leggeri: 'Sì. Ma era un giuramento di fedeltà al popolo italiano e non era obbligatorio'.

Il teste a discarico Sergio Fiaschi, appositamente richiamato, riferisce la formula di tale giuramento: 'Nel nome del popolo, giuro di non desistere dalla lotta intrapresa per il trionfo del proletariato e i miei compagni mi sopprimano nel sangue se verrò meno a tale giuramento'. Il Fiaschi ha aggiunto, però, che l'ultima parte della formula fu abolita, perché alcuni frequentatori della scuola stessa vi si opposero.

Elio Pietrocola, ex sergente automobilista, chiamato a deporre successivamente, ha affermato che i discorsi tenuti dal D'Onofrio non erano affatto improntati a sentimenti antinazionali, ma auspicavano che il nostro Paese divenisse una nazione libera e indipendente. Il teste notò che le conferenze del D'Onofrio erano di tanto grande interesse, da 'essere desiderate'. Nel campo non mancava una 'certa' libertà di critica. Le dichiarazioni del teste Pietrocola, sottolineate dai lunghi mormorii dei reduci che si trovano nello spazio riservato al pubblico, concludono la seduta.

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