mercoledì 26 maggio 2021

Il processo D'Onofrio, parte 8

Il processo D'Onofrio, ottava parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.

LA DODICESIMA UDIENZA.

8 giugno 1949 - A questo punto si comincia ad avere la sensazione che le parti si vadano mettendo d’accordo per ridurre il numero dei testi. Del resto ormai poche sono le cose nuove che si sentono dire dai reduci che s’avvicendano sulla pedana e, certamente, l'escussione di tutti i 130 testi indotti da una parte e dall'altra non potrebbe portare elementi nuovi in giudizio.

Il primo teste della udienza è il colonnello dei bersaglieri Luigi Longo, omonimo del deputato comunista, già comandante del 3° reggimento. Fu destinato al campo di Susdal e lì conobbe il primo fuoruscito italiano, un certo Roncato, il quale si presentò ai prigionieri parlando in rumeno. Il col. Longo volle conoscerlo personalmente ma sulle prime la cosa fu difficile perché il Roncato finse di non comprendere la lingua italiana. Poi si decise a parlare nella nostra lingua e finì addirittura per esprimersi in dialetto veneto. Il colonnello fu contento di aver trovato un italiano e sperò che potesse venire qualche vantaggio ai prigionieri. Si rivolse infatti al Roncato per ottenere che il comando del campo, tenuto fino allora dai rumeni, fosse affidato ad ufficiali italiani ma si senti rispondere dal fuoruscito che non lo seccasse con le sue chiacchiere.

Non migliore risultato sortì un’altra proposta del colonnello al fuoruscito: quella di ottenere da lui che ai prigionieri italiani venissero restituiti gli indumenti che i soldati russi e quelli croati avevano loro tolto dopo la cattura. Roncato gli rispose che si pretendeva una cosa che 'non era democratica'.

Nel mese di febbraio scoppiò una violenta epidemia di tifo petecchiale e oltre il cinquanta per cento degli ufficiali italiani prigionieri morirono. Anche il Roncato s’ammalò e per un certo periodo di tempo non si vide più. Ma prima di andarsene fece una ispezione alle latrine del campo che, naturalmente, essendo la maggior parte degli internati ammalati, non potevano essere pulite. Andò a cercare il col. Longo e gli disse: 'Colonnello, questa... se non la fai sparire subito, te la faccio mangiare...'.

Il teste subì un solo interrogatorio dal maggiore russo Nowicoff cui assistette il Roncalo che fungeva da interprete. Una volta sola il fuoruscito intervenne per accusare l'esercito italiano di atrocità e di ribalderie di ogni sorta commesse nel territorio occupato. Il teste ha poi ricordato che nell’aprile del 1943 il Roncato riunì tutti gli ufficiali prigionieri e tenne loro un discorso politico al termine del quale domandò quale fosse il nostro parere sugli avvenimenti italiani. I maggiori Massa e Russo, i quali fecero presentile loro idee contrarie a quelle del Roncato, si trovano tuttora in Russia.

Presidente: 'Lei ebbe occasione di vedere altri emigrati italiani durante il periodo della sua prigionia?'.

Longo: 'Sì. Conobbi il fuoruscito Rizzoli il quale svolgeva fra i prigionieri una attiva propaganda filosovietica. Ricordo con precisione che un giorno il comandante russo del campo, il colonnello Krastin, radunò tutti noi ufficiali per dirci che gli emigrati, nella loro qualità di commissari politici, erano funzionari del governo sovietico e che come tali andavano rispettati'.

Fra i prigionieri — ha raccontato — c'era un certo cap. Salvagno, che fu preso particolarmente di mira dal Roncato e sottoposto ad interrogatori estenuanti. Da un ultimo interrogatorio subito il Salvagno uscì talmente disfatto che dette segni di alienazione mentale e tre giorni dopo morì. A questo punto l'avv. Paone ha voluto sapere dal teste se fosse vero che dopo il 25 luglio egli firmò un appello rivolto al popolo italiano perché ponesse fine alla guerra.

Longo: 'È vero'.

Avv. Taddei: 'Sì, ma sarebbe anche bene che si sapesse come il col. Longo fosse indotto a firmarlo dopo quattro giorni di insistenti interrogatori'.

Viene chiamato successivamente a deporre il prof. Germano Mancini che durante la campagna in Russia fu ufficiale medico. Egli ha precisato quali fossero le condizioni sanitarie dei campi di concentramento e ricordato come avvenne la sua cattura. Il Mancini cadde in mano russa mentre si trovava in servizio presso l'ospedale italiano di Kantemirovka nel quale erano ricoverati 386 malati. A tutti fu imposto dai sovietici di firmare un documento in cui si attestava che il trattamento ricevuto dalle autorità russe era stato ottimo. Dovettero firmare anche alcuni moribondi in stato comatoso.

Mancini: 'In vero soltanto di una cosa dovevamo ringraziare i russi: di non essere stati fucilati. Infatti quando l'ospedale fu occupato, quattro dei nostri, fra i quali il cappellano, furono immediatamente fucilati. Quanto alla distinzione fisica che si dice i russi facessero fra i prigionieri per la distribuzione di differenti razioni di viveri, la cosa è vera, ma l'assegnazione alle diverse categorie veniva fatta soltanto in rapporto alla apparenza dei muscoli di ciascuno senza altro esame delle condizioni generali del prigioniero'.

Ai chiarimenti del prof. Mancini, interessanti anche dal punto di vista sanitario, è seguita la deposizione del capitano di fanteria Ferdinando De Ninni che ha spiegato quale fosse l'attività della scuola di antifascismo aggiungendo, a quanto era stato già detto dagli altri testi, che coloro che la frequentavano avevano diritto ad un supplemento di rancio. Personalmente la ritenne sempre una cosa molto poco seria.

Il teste conobbe D'Onofrio nel campo di Skit e da lui fu sottoposto a numerosi interrogatori durante i quali, essendosi rifiutato di 'allinearsi ai nuovi tempi' si ebbe minacce e intimidazioni. Anticipando poi le dichiarazioni che dopo di lui farà lo stesso interessato, il cap. De Ninni ha riferito alcune battute che ebbe occasione di ascoltare, del colloquio svoltosi fra il D'Onofrio e il ten. Sandali. Egli ricorda che l'attuale querelante chiese al Sandali: 'Perché lei non si è iscritto al gruppo antifascista?'. Al che questi rispose: 'Io ho un regolamento da rispettare' avendosi come immediata replica dal D'Onofrio: 'Se lei non la finisce di fare il testardo, se ne pentirà'.

E finalmente, nell’aula, si è sentito parlare del famoso campo di Elabuga da uno che c'era stato: il ten. Rodolfo Sandali il quale fu compreso, come si ricorderà, nella lista nera di quelli che si opposero apertamente all’ordine del giorno proposto dal D'Onofrio dopo il 25 luglio 1943.

Sandali: 'Fui interrogato per la prima volta dal D'Onofrio, appena giunto nel campo convalescenziario di Skit. Nel periodo in cui subii gli interrogatori pesavo meno di 38 chili e anche le mie condizioni morali erano precarie perché da moltissimo tempo non avevo notizie della mia famiglia. Fummo chiamati nell’ufficio del commissario politico ed io fui interrogato per primo. Mi chiese per quale ragione non mi fossi ancora iscritto al gruppo antifascista e quale fosse la mia opinione intorno alla situazione creatasi in Italia dopo la caduta del fascismo. Risposi che la mia qualità di ufficiale mi impediva di pronunciarmi e che comunque avevo intenzione di rimanere fedele al nuovo governo che in Italia si era costituito. Pregai poi D'Onofrio di desistere dall'interrogarmi perché ero letteralmente estenuato. Fu questo a far andare su tutte le furie il commissario politico.

Con tono irato, D'Onofrio mi chiese se amavo la mia famiglia e se avessi il desiderio di rivederla e finì con voce minacciosa: 'Se lei vuol tornare in Italia a rivedere i suoi, deve cambiare le sue idee. Altrimenti se ne pentirà'. Fui terrorizzato dalla minaccia e ciò peggiorò ancora il mio stato di salute. Per tutto il periodo della prigionia quella minaccia mi perseguitò e non ebbi più pace. Il cap. Magnani, il capomanipolo Ferretti, il ten. Santoro, il ten. Ioli erano con me, quel giorno, e le stesse minacce furono fatte a tutti loro. Due giorni dopo l'interrogatorio fummo trasferiti in dieci al campo di Elabuga. Appena arrivammo ci isolarono da tutti gli altri prigionieri'.

Sandali: 'In quel campo vi erano due zone: in una di esse erano raccolti tutti i prigionieri che avevano manifestato tendenze filosovietiche, nell’altra coloro che venivano considerati reazionari. A noi fu vietato nel modo più assoluto di parlare con gli altri prigionieri italiani che si trovavano nell'una e nell'altra zona del campo'.

Presidente: 'Lei è mai stato interrogato in questo campo?'.

Sandali: 'Sì. Fui sottoposto ad interrogatori di carattere politico, ma da un ufficiale russo e da un fuoruscito tedesco. Mi fu chiesta la mia opinione politica e siccome io risposi che non potevo pronunciarmi essendo un militare, l'ufficiale che m'interrogava replicò: 'Questo lei lo ha già detto. Ora sia più preciso nelle sue risposte'. Erano le risposte che avevo dato al D'Onofrio. L'Italia aveva già dichiarato guerra alla Germania e in relazione a questo fatto mi fu chiesto se ero disposto a combattere contro i tedeschi. Risposi di sì e che non avevo mai avuto alcuna simpatia per Hitler. L’ufficiale sovietico mi propose allora di riferirgli i discorsi che i miei colleghi tenevano nella baracca che occupavamo. 'Ciò, aggiunse, migliorerebbe sensibilmente la sua posizione'. Naturalmente io opposi un netto rifiuto a questa proposta'.

Avv. Taddei: 'Il prigioniero aveva una sua cartella personale?'.

Sandali: 'Sì. Anzi io ebbi occasione di vedere la mia. C'erano la fotografia e le mie impronte digitali. Seppi che questa cartella accompagnava il prigioniero nelle sue peregrinazioni attraverso i vari campi'.

Avv. Taddei: 'Logico, eravate dei criminali di guerra...'.

LA TREDICESIMA UDIENZA.

10 giugno 1949. - La richiesta del Tribunale al Ministero della Difesa è stata soddisfatta e oggi si sono saputi, finalmente, i nomi degli ufficiali italiani accusati dalla Russia di crimini di guerra. Dei dodici indicati, dieci sono stati identificati e precisamente: i gen. Roberto Lerici e Paolo Torriassi, il ten. col. Raffaello Marconi, il ten. col. medico Bernardo Giannetti, il magg. Giovanni Biasotti, i cap. C.C. Dante Jovino e Mariano Piazza, il cap. Luigi Groppelli, il ten. Renato Barile, il ten. col. Romolo Romagnoli. Di questi dieci ufficiali tre sono deceduti e precisamente: il gen. Torriassi, i ten. col. Marconi e Romagnoli. Uno soltanto è trattenuto ancora in Russia: il cap. Dante Jovino. I due ufficiali non identificati sono un certo Plass, comandante la regione di Pisarevo e Franzi Piliz, comandante la guarnigione di Kantemirowka.

E questo è stato uno dei due argomenti più importanti della udienza. L’altro è costituito da un caratteristico ordine del giorno del maresciallo Stalin, il quale, evidentemente impressionato dalla alta percentuale di mortalità registrata nei campi di concentramento, avrebbe stabilito: proibito morire! Per il resto poche novità nelle deposizioni dei testi escussi nel corso dell’udienza; com’era prevedibile.

Il prof. Aldo Sandulli, ordinario di diritto amministrativo nell'Università di Trieste, il quale ha fatto la rivelazione sull'ordine di Stalin, ha confermato che nel campo di Krinovaia, dove fu internato subito dopo la cattura, la percentuale della mortalità fu spaventosa: di 400 ufficiali solo 270 sopravvissero. Il teste ha confermato ancora i casi di cannibalismo, citati da quanti lo hanno preceduto sulla pedana, aggiungendo che durante le marce di trasferimento ai prigionieri non veniva somministrato cibo di nessun genere e che nel campo di Krinovaia sola razione distribuita era una zuppa al giorno consistente in acqua calda e ossa.

P.M.: 'Quali erano le condizioni fisiche dei soldati al momento della cattura?'.

Sandulli: 'Non buone, ma ancora efficienti. Trasferito ad Oranki venni ricoverato al lazzaretto, dove unico mezzo di cura era un termometro per tutti gli ammalati, per misurare la febbre. Ai primi di maggio 1943 arrivò un generale sovietico il quale, con grande solennità annunciò a tutti i prigionieri che per 'ordine' (il teste riferisce con precisione la corrispondente parola in russo) delle autorità superiori 'nessun prigioniero doveva più morire'.

Avv. Taddei: '... E coloro che fossero morti sarebbero stati dei sabotatori...'.

Sandulli: 'Proprio così, purtroppo. Malgrado l'ordine però i prigionieri continuarono naturalmente a morire. Sopraggiunsero rifornimenti americani e le condizioni dei prigionieri andarono leggermente migliorando con una più abbondante distribuzione di viveri, ma, come ho detto, questo non eliminò la mortalità. Io fui uno dei pochi che ebbi la fortuna di salvarmi e fui così spedito al convalescenziario di Skit dove mi accorsi che per essere un luogo di cura, il trattamento non era affatto migliore, se non addirittura peggiore di quello usatoci negli altri campi. Fra l’altro eravamo letteralmente mangiati dagli insetti, tanto che il poter essere inviati al lavoro era considerato come una liberazione.

D'Onofrio arrivò poco prima del 25 luglio 1943. Radunò tutti i prigionieri italiani e si presentò con queste precise parole: 'Signori ufficiali italiani, permettetemi di fare la vostra conoscenza. Sono Edoardo D'Onofrio, di professione cospiratore', e, dopo questo esordio, illustrò ampiamente la situazione italiana. Tornò dopo un paio di mesi per far sottoscrivere il noto messaggio al popolo italiano. Vi furono notevoli pressioni di carattere morale perché il messaggio venisse firmato.

Fui in seguito trasferito al campo 27/2 e qui interrogato da ufficiali sovietici che mi trattarono con una delicatezza che era del tutto sconosciuta ai fuorusciti italiani. Fu in questo campo che vidi il sottotenente Melchionda (il quale depose alcuni giorni or sono come teste a favore del querelante e a carico degli imputati) e sembra svolgesse attività delatoria nei confronti dei colleghi. Infatti il cappellano Don Bertoldi trovò nello zaino di lui un taccuino per appunti nel quale erano scritte frasi come queste: 'Il tenente Tizio non ha applaudito alla conferenza su Garibaldi'; 'il sotto-tenente Caio ha dichiarato che l'Italia non può fare a meno delle sue colonie'.

Dal fuoruscito Rizzoli che mi interrogava nel campo di Susdal, ebbi questo avvertimento che mi lasciò molto turbato: 'Il ritorno in Italia bisogna meritarselo! Si ricordi che i nemici del popolo pagheranno il loro fio!'.

Avv. Taddei: 'È vero che, come ha asserito il D'Onofrio, alcuni ufficiali ostentavano nei campi camicie nere e fez fascisti?'.

Sandulli: 'Ciò era impossibile perché la camicia nera non la indossava neppure la milizia, quando era in linea e quindi non poteva essere ostentata nei campi. È vero piuttosto che i russi avevano distribuito ai prigionieri le giacche nere tolte alle SS tedesche'.

Desiderio Ebene, tenente degli alpini, passò il periodo della prigionia nei campi di Tamboff, Oranki e Skit dove conobbe il D'Onofrio il quale tenne due conferenze. Al termine di esse propose il famoso messaggio cui, come è noto, si oppose, a nome di tutti, il cap. Magnani. Per l'ostilità dimostrata nei confronti del D'Onofrio, ha confermato il teste, il capitano venne trasferito al campo di punizione di Elabuga dove gli venne prospettata la possibilità di migliorare notevolmente la propria posizione. L'ufficiale sovietico che lo interrogava, gli sottopose, infatti, una dichiarazione con la quale si impegnava di fornire ai russi informazioni dettagliate sul comportamento dei compagni di prigionia. Il cap. Magnani oppose alla proposta un categorico rifiuto aggiungendo che quello non era un mestiere per lui e che avrebbe piuttosto preferito essere fucilato immediatamente. L’ufficiale russo non insistette.

Ultima deposizione della giornata, quella del tenente degli alpini Carlo Girometta il quale conferma tutti i punti esposti dai testi che lo hanno preceduto, per quanto riguarda gli interrogatori subiti e le condizioni di vita nei vari campi. Ma anche lui ha voluto portare qualche cosa di nuovo da aggiungere al materiale di giudizio. S'è diffuso, perciò, a parlare della situazione viveri nel campo di Oranki, nella sua qualità di addetto a quella cucina nello stesso periodo in cui il Fiammenghi se ne interessava direttamente. Ed ecco in sostanza la situazione: una zuppa di venti grammi di miglio, pane nero, venti grammi di zucchero e venticinque di burro, al mattino; una zuppa dì miglio, orzo, avena e pane nero alla sera.

Girometta: 'Il pane era tale però che, sono certo, nessuno di quanti si trovano oggi in quest'aula ne avrebbe mangiato neppure un boccone'.

Il Girometta ha poi detto qualche cosa anche della scuola di antifascismo che si trovò a frequentare di autorità. Materie di insegnamento: Storia del leninismo, Storia della Russia, Principi di marxismo e Storia d'Italia.

Avv. Taddei: 'Si è voluto far credere qui, che la scuola fosse una specie di seminario, che accoglieva anche i cattolici. Cosa risulta a lei?'.

Girometta: 'Veramente non tutti i frequentatori della scuola erano marxisti, ma è anche vero che manifestare idee non conformiste era tutt'altro che facile e poteva essere anzi pericoloso. L'indirizzo della scuola era perfettamente comunista. Non era proprio facile, né tanto meno conveniente, esprimere idee diverse. Un emigrato italiano vestito con la divisa russa, al quale ebbi a chiedere aiuto durante la permanenza a Krinovaia mi rispose con tono di sufficienza: 'Ma cosa volete!... È già tanto che non vi abbiamo fucilato!...'.

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