domenica 8 novembre 2020

L'unico Presidente

Io mi chiedo come prima di lui e dopo di lui nessun Presidente della Repubblica abbia mai sentito il dovere di recarsi a rendere omaggio ai nostri soldati in terra di Russia.

Nel 2000 Carlo Azeglio Ciampi terminò la sua visita in Russia recandosi a Tambov, nella provincia russa a 500 km sud est di Mosca, per deporre i fiori sulla tomba degli italiani morti negli anni della Seconda Guerra Mondiale. Allora, e ancora oggi, fu il primo e unico inquilino del Quirinale a compiere questo gesto. Proprio nei pressi di Tambov, dal 1942 al 1946, era attivo il campo di prigionia di Rada, il più grande tra quelli situati sul territorio dell'Unione Sovietica. Oggi al posto del campo sorge un cimitero internazionale con le tombe di 13 mila persone, di 29 nazionalità diverse. Settemila di loro sono italiani, ma ci sono anche tedeschi, ungheresi, giapponesi.

Lo storico russo Evgeniy Pisarev, nel suo libro "Rada, Pot'ma, T'ma, GulaGa" (Rada, Potma, tenebre del Gulag), edito nel 1999, descrive così la realtà del campo di prigionia vicino a Tambov: "In sei mesi, dal dicembre del '42 entrarono a Rada 24 mila prigionieri, di cui 10.118 italiani. Il lager non era attrezzato per accogliere tanti uomini, gli stessi carcerieri dormivano in ricoveri di fortuna. La mortalità era altissima: 1.464 a gennaio, 2.581 a febbraio, 2.770 a marzo. In 10 mesi sono state registrate 14.433 morti. La percentuale dei deceduti fra gli italiani del campo 188 è spaventosa: oltre il 70%. I racconti dei sopravvissuti di quel periodo sono semplicemente agghiaccianti: fame, freddo, malattie. Mancava tutto, fino alle cose più elementari. Le risse per un pezzo di pane erano frequentissime. I morti non venivano nemmeno sepolti, così gli uomini del bunker avevano una porzione in più da mangiare. L'abbrutimento era completo. Il lager diventò presto un letamaio ed un lazzaretto: la dissenteria faceva strage insieme al tifo petecchiale. I pidocchi non davano tregua e non si riusciva in nessun modo a debellarli. Il campo di concentramento di Rada venne creato alla fine del '41: i sovietici avevano bisogno di un luogo per filtrare i propri soldati o partigiani “liberati”, sospettati di collusione col nemico per il solo fatto di essere stati catturati. I prigionieri vivevano in specie di bunker, grandi buche nel terreno (13 metri per sette) e una tettoia appena fuori terra, in grado di ospitare 80 uomini. Col tempo, il campo si allargò e le condizioni di vita decisamente migliorarono. Si riuscirono a celebrare persino le Sante messe a Pasqua e Natale. Nel '47 Rada venne chiusa".

sabato 7 novembre 2020

Dove sei? Tullio D'Orazio...

Il signor Stefano D'Orazio cerca notizie di suo zio Tullio; nato a Torino il 13/11/1920, deceduto/disperso in Russia in località non nota il 20/12/1942, artigliere del 17° Reggimento Artiglieria della Divisione di Fanteria "Sforzesca". Lo zio era molto amico di un suo commilitone di nome Antonio Cerutti di Cigliano (VC). Antonio Cerutti è riuscito a tornare in Italia sano e salvo ed è morto di morte naturale diversi anni fa a Cigliano, suo paese natale, diversi anni fa. Inoltre cerca informazioni sulla località nella quale il reparto si trovava il 20/12/1942 e informazioni sui movimenti del III Gruppo 105/28 del 17° Reggimento Artiglieria della Divisione di Fanteria "Sforzesca" fra il 15/12/1942 e il 25/12/1942. Ringrazio chiunque fosse in grado di fornire informazioni.

La fame dei vinti

Ho appena terminato di leggere "La fame dei vinti"... ne ho letti tantissimi di libri sulla Russia; alcuni forse anche più belli. Ma "La fame dei vinti", oltre a raccontare una storia personale vera e vissuta, nell'introduzione che qui riporto per intero, spiega cosa furono gli anni dopo il rientro dei reduci superstiti dai campi di prigionia. La rabbia...

Quando la sera del 27 novembre 2000 è apparsa alla televisione la figura del presidente della Repubblica in visita alle fosse comuni di Tambov, ove sono sepolte migliaia di prigionieri di guerra italiani, sono stato travolto da una grande emozione che mi ha trascinato alle lacrime.

Essendo sopravvissuto ai campi di prigionia dell'ex URSS, quella scena ha ridestato in me un turbinio di ricordi, commisti a una rabbia repressa che mi porto dentro da oltre cinquant'anni.

Ci salvammo in pochi da quello sterminio. Tambov, Krinovaia, Tiomnikov, Uciostoje, Miciurinsk, Nekrilovo e altre decine di campi dell'Asia e della Siberia sono i luoghi ove trovarono la morte da vinti decine di migliaia di nostri soldati deposti in centinaia di fosse comuni.

Di noi prigionieri nessuno seppe nulla per tre anni, eravamo considerati tutti "dispersi" in quella terribile guerra. Al rientro in patria incominciammo a raccontare la sorte di quegli assenti, ma le nostre testimonianze parlavano troppo di morti, di fame e di sterminio. Perciò non passò molto che si insinuò nella pubblica opinione una penetrante disinformazione mista a incredulità, tendente a dimostrare che le decine di migliaia di soldati che ancora mancavano dovevano essere morte tutte in ritirata.

Ai pochi sopravvissuti, minati nel fisico e tormentati da terribili ricordi, rimase che il silenzio dei vinti. Il 1946 fu per me ancora un anno difficile perché, nonostante le continue cure, il mio recupero fisico si prospettava lungo e incerto e nel frattempo la mente ritornava sempre là in quell'inferno. Apparivano cosi negli occhi: la fame tremenda, il cannibalismo, i cadaveri in catasta come la legna, i compagni che avevo dovuto deporre ignoti nelle fosse, gli occhi sporgenti pieni di lacrime dei morenti che invocavano aiuto, gli otto amici d'infanzia che non erano tornati. Non potevo raccontare alle loro madri in lacrime l'orrore e la crudezza di Krinovaja e provavo un senso di vergogna per essere riuscito a tornare, unico superstite.

Molte volte mi chiedevo perché il destino fosse stato clemente con me consentendomi di ritornare dopo aver superato quelle terribili prove che avevano sterminato tanti compagni: forse mi voleva testimone di quegli eventi. Così, conscio di rappresentare almeno una decina di coloro che non erano tornati, decisi di fissare i ricordi su questo diario.

Era la primavera del 1946. L'atmosfera politica di quel dopoguerra sconsigliava la pubblicazione di storie che potessero accusare di qualche colpa l'Unione Sovietica. Già le mie testimonianze, per cui io ero forse l'unico superstite, provocarono minacce verso la mia persona l'accusa di coltivare sogni politici raccontando storie inventate. Cosicché, anche per la tranquillità di mia madre, ancora incredula nell'avermi ritrovato, riposi lO scritto in attesa di tempi migliori.

Eppure in quelle pagine era chiara la mia intenzione di ricordare la storia di tanti compagni morti da vinti a causa dell'odio che semina una guerra ove le ideologie ne esasperano la violenza fino a far impazzire gli uomini.

La visita a Tambov e le sollecitazioni di amici e di compagni di prigionia mi hanno convinto a togliere la polvere a questo diario ormai destinato al macero. E' una storia di tre anni di fame che, oltre alla totale mancanza di ogni assistenza sanitaria e di soccorso, testimonia i fatti subiti e osservati nei campi in cui ero stato internato. Chi ha vissuto quelle scene ed è miracolosamente sopravvissuto è stato marchiato per sempre nel profondo dell'anima e, non riuscendo a testimoniare, si è rinchiuso in un tormentoso silenzio che dura tuttora e durerà fino alla fine dei suoi giorni.

In questa mia breve premessa desidero invitare il lettore a considerare che i sopravvissuti e tutti coloro che non sono tornati erano giovani di popolo che avevano indossato la divisa militare senza poter obiettare o disertare, obbligati a rispettare le dure leggi vigenti in tempo di guerra. Per queste loro umili origini non avevano certamente il duro cipiglio guerriero, erano solo dei soldati malvestiti e male armati che combattevano con onore. Essi, pur nelle dure condizioni imposte dalla guerra nel fronte orientale, portarono rispetto alla popolazione nemica meritandosi il riconoscimento con la famosa frase: "Italianski Karasciò" (Italiani brava gente!). Ma ogni ora e ogni giorno di quei primi sei mesi del 1943 passati in quei campi sono stati cosi densi di fatti disumani di dolore e di disperazione da portare quegli uomini a maledire le umane origini invocando la morte liberatrice.

Le sono riconoscente signor Presidente Ciampi, perché con il Suo alto e nobile gesto, assieme a tanti compagni che ho deposto in quelle fosse, finalmente ho ritrovato una Patria anch'io!

giovedì 5 novembre 2020

I giorni e gli anni, parte 6

Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".

Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. Questo è l'ultimo estratto e narra forse i momenti più drammatici dall'inizio della ritirata alla cattura e l'inizio della prigionia. Pubblicare parti di questi libri vuole essere solo un incentivo alla lettura di questi testi che non dovrebbero mai essere dimenticati.

LA RITIRATA.

Da circa un'ora il battaglione si lasciato alle spalle la linea Defrancisci e continua a marciare ordinatamente e in silenzio. Non ci sono ritardatari. I tre, che sono mancati all'appuntamento dell'ultima pattuglia a causa dei piedi congelati, camminano di buon passo come gli altri. Nella piccola radura del boschetto che costeggia la nostra strada, proprio dove tenentino fresco arrivato, piazzando i cannoncini della sua batteria, ci aveva salutato con candido ottimismo, si vedono i segni di una partenza affrettata e nervosa. Tra gli alberi semiaffondate nella neve, le masse oscure di due trattori caterpillars inutilizzabili per mancanza di carburante. Più oltre, lontano, forse sulla sponda a sbalzo del Don, grandi nubi di fumo e rossi bagliori di incendi. Si unisce a noi un gruppo di artiglieri che dicono di aver abbandonato i pezzi dopo aver asportato e sepolto gli Otturatori. Un mulo dal pelo lungo e bianco di ghiaccioli trascina una slitta sovraccarica di casse e di equipaggiamenti. Ripassiamo tra le sgangherate baracche di Getreide Swiss. Un pai0 di chilometri più oltre dovremmo trovare i nostri autocarri, intanto alla nostra destra, a meno di un chilometro in linea d'aria, avvolti da nembi di fumo, bruciano i capannoni in cui abbiamo riposato per 48 ore dopo Ogolewka. Penso con umiliazione e rabbia alla lettera "confortevole" scritta a mia moglie.

Forse proprio allora mi si affianca Cuti, il compaesano del Genio Ferrovieri. Porta tuttora il suo lungo, inutile fucile ed tutto ravvolto in una grossa sciarpa grigia che dinnanzi alla bocca mostra sfilacci di ghiaccio. Dovrebbe avere all'incirca la mia stessa età, eppure, cosi infagottato, mi appare assai più vecchio. Ma, in realtà, come apparirò io agli altri? Cuti tira fuori da una tasca del pettorale una manciata di grani di caffe tostato e mi dice: "Prendi, da forza".

Camminiamo fianco a fianco, in silenzio. Russi terribilmente lontana e vicina. Si incontrano i nostri sguardi sgomenti: "Ce la faremo?". Marciamo insieme ancora un breve tratto, poi: "At salut, Danilo! At salut Cuti!". Ognuno rientra al proprio reparto. La ritirata sta per divenire una marea caotica. Non ci vedremo più. La colonna è simile a un lungo serpente. Di mano in mano che il ripiegamento procede, il serpente perde i pezzi, si alleggerisce del superfluo, si libera della pelle ridotta a brandelli, rimane solo carne viva. Viva fino a quando? Ai bordi della pista, nelle zone di confluenza dei vari reparti nella corrente principale, si ammucchiano sulla neve cassoni da fureria, cassette da ufficiale, marmitte da campo, munizioni, materiali di ogni specie.

Ogni tanto, sempre più raramente, qualche camion stracarico di materiale e di uomini, feriti o semplicemente spedati, ci sorpassa costringendoci a buttarci fuori strada affondando nella neve fino ai ginocchi. Bestemmie e maledizioni. Ma "i nostri camions" dove sono? Getreide ormai indietro e cresce invece la fatica bestiale e la confusione. Attraversiamo i resti bruciati di un gruppo di case, gia sede di comandi e di magazzini della sussistenza, muri anneriti, tettoie contorte dal fuoco rovinate a terra, travi di legno ancora fumanti. Appena fuori del piccolo villaggio una vecchia chiesa, trasformata in magazzino viveri, sfuggita al fuoco, ma porta egualmente i segni di una recente tempesta che ha devastato tutto ciò che vi era al suo interno. Dall'immensa porta spalancata si vedono ancora sulle scansie grosse forme di grana che vengono fatte a pezzi a colpi di baionetta, in fretta, perché si deve riprendere subito il cammino. Nessuno intende rimanere distaccato.

Ormai siamo in piena notte. Il freddo intenso. Dalle sciarpe e dai passamontagna, davanti alle bocche ansimanti degli uomini in marcia disordinata, pendono grappoli di ghiaccioli. Ogni tanto ancora qualcuno chiede rabbiosamente: "Ma i camions dove sono?". La domanda rivolta a tutti e a nessuno vuole forse coltivare una residua speranza, vuole trovare uno stimolo per continuare a camminare, vuole arginare, finché sia possibile, la disperazione. Ma la disperazione penetra egualmente negli animi. Ondate repentine di disperazione. "Vigliacchi! Farabutti! Traditori!" - si sente gridare qua e là. Ecco, uno che finora ha marciato in silenzio, a testa bassa, cocciutamente, ecco, all'improvviso si ferma e dice che non può più continuare, che si è sforzato di arrivare fin perché credeva di trovare gli autocarri. Non niente, invece. Tutti sono scappati, i vigliacchi, e lui non ne può più, è congelato, ha i piedi che sanguinano, brucia di febbre, non ce la fa più.

Cresce il marasma, anche perché il cammino è ostacolato dal lento avanzare di alcune slitte trascinate da muli che sembrano più affranti degli uomini. Sono slitte cariche di cassette da ufficiale, di sacchi a pelo, di munizioni. Buttiamo tutto a terra al margine della pista e carichiamo gli spedati, i congelati, i feriti e quelli che non c'è più modo di tenere in piedi. Protestano i conducenti, ma si persuadono presto e continuano col nuovo carico la lenta marcia. Avanti, avanti! Fermarsi significa morire! L'Italia lontana! Nessuno pensa più alla "nuova linea difensiva", alla favolosa linea fortificata dove dovremmo passare l'inverno. Circola la voce che il Comando di Corpo d'Armata ha fatto le valigie fin dal giorno 16, quando il 6° fu mandato a "conquistare" Ogolewka, e insieme si dice che i russi ci hanno chiuso in un'immensa sacca e che rimane aperto solo un piccolo varco dalla parte del villaggio di Makaroff! Avanti, allora, verso Makaroff!

Ha ripreso a nevicare e soffia un forte vento. Il freddo è intenso, tagliente, tuttavia finché si va avanti, finché si cammina, il freddo non si avverte. C'è gia chi non ne può più e si ferma e si butta sulla neve nell'illusoria attesa di una slitta o di camion su cui arrampicarsi, ma le slitte e i camions o sono più avanti col grosso della fiumana o sono inchiodati per sempre indietro sulla pista ormai vuota anche degli ultimi ritardatari. Fermarsi, buttarsi a terra, addormentarsi, morire. Ai margini della pista c'è un mucchio di neve.

Ma perché tornano le macchine dei comandi? Che successo? Da Makaroff non si passa, anche là ci sono i carri armati russi. Indietro! Prendiamo un'altra direzione, non c'è strada, la bufera ha cancellato tutto. Seguiamo una fila di pali telegrafici, ricordo dei collegamenti fra i nostri comandi. Sulla neve fresca la marcia si fa più faticosa e poi ci sono ingorghi di macchine e la lotta per far salire qualcuno sui pochi camions. Rabbiose invettive. Uomini schiacciati da ruote e da cingoli. Scie di sangue sulla neve.

Avanti, avanti, verso Popowka! Là si dovranno concentrare tutte le forze residue, là troveremo un gruppo di carri armati tedeschi, là rimetteremo un po' d'ordine per tentare lo sfondamento della sacca. Là ci fermeremo un poco a prendere respiro, là forse potremo anche dormire. Sono brandelli di speranza, ma danno la forza per continuare.

Finalmente arriviamo a Popowka. Un grosso villaggio sperduto in mezzo ad un deserto di dune nevose, dalle casette apparentemente risparmiate dalla guerra, ma vuote di abitanti. Vi sono confluiti in un disordine indescrivibile i resti di almeno tre divisioni e camions e trattori in parte destinati a rimanere li bloccati dai serbatoi a secco, slitte, carrette da contadino, automobili dei comandi. Ritroviamo anche l'autocarro del Comando di battaglione, carico di cassoni di scartoffie e di altro materiale ormai del tutto inutile, già depositato alla "base". Scaraventiamo a terra casse e cassoni e facciamo posto per i congelati e i feriti che non possono camminare. Andranno avanti finché ci sarà carburante.

Ci fermiamo a Popowka tutto il giorno. Quale giorno? Dormo un paio d'ore nel calduccio di una isba e mangio gallette spalmate di conserva di pomodoro, ma la maggior parte della giornata trascorre in rapporti-ufficiali, veri raduni di fantasmi. Nessuno ha informazioni sulla situazione, domina il verbo "pare" e il "si dice", non si sa niente di sicuro dei russi e di noi stessi, si cerca invano di fare una specie di inventario delle forze e dell'armamento disponibile. La notizia più precisa che "pare" che una divisione corazzata germanica sia in marcia verso di noi!

Nel pomeriggio una pattuglia di carri armati leggeri sovietici, sbucata improvvisamente dal profondo di una balka, avanza indisturbata fino alle prime case del paese, mette fuori uso con pochi colpi alcuni automezzi, poi scompare tutto a un tratto come apparsa dietro il mare di montagne russe che ci circonda. Verso sera si lascia Popowka. Gli uomini ancora armati e in grado di combattere sono ridotti a poche migliaia. Mi viene assegnato il comando di una cosiddetta compagnia di formazione: una sessantina di unità in fila per uno dietro di me. Pochissimi sono del mio battaglione.

Dopo qualche ora di marcia la colonna si arresta. Sembra che le avanguardie motorizzate si siano scontrate con forti contingenti sovietici che sbarrano la strada per Meskoff. Reparti ancora efficienti della Divisione Torino vengono mandati avanti a togliere di mezzo l'ostacolo. Nella notte gelida attendiamo l'esito dell'operazione battendo i piedi a terra e riparandoci schiena contro schiena. All'orizzonte vediamo incrociarsi scie luminose di proiettili traccianti, mentre giunge l'eco chiarissima delle raffiche di mitragliatrice e della fucileria. Quanto tempo aspettiamo? La Torino è riuscita a rompere il cerchio? La linea del fuoco si spostata più lontano, ma intanto l'attesa ha trasformato il grosso in un'infernale baraonda. Le cosiddette compagnie di formazione si sono sfasciate. Non c'è che una massa informe di quasi 20 mila uomini, che ondeggia, avanza, indietreggia, si ferma senza un piano, senza una guida, solo ubbidendo ad elementari istinti. Molti automezzi, i cui motori sono stati tenuti accesi nel timore che, a causa del gelo, una volta spenti non si possano più avviare, hanno esaurito il carburante e si arrestano per sempre in mezzo alla fiumana. I feriti, i congelati e gli spossati, ammucchiati nei cassoni dei camions definitivamente fermi, non vogliono scendere a nessun costo. D'altra parte come potrebbero camminare? Dove caricarli se anche dai parapetti dei camions ancora in marcia pendono grappoli

umani? Il caos nelle cose e nelle menti. Qual è la successione di tutti gli avvenimenti vissuti? Quando realmente avvennero? Quale avvenne prima, quale dopo?

Alle prime luci di un'alba mi trovo in una conca insieme a qualche migliaio di altri fuggiaschi. Non si vede il nemico. Cerchiamo un po' di riparo dal gelo in alcune isbe diroccate e nei vicini pagliai devastati. Passa una piccola slitta tirata da un cavalluccio spelacchiato che per lo sforzo allunga il muso fino a terra. C'è sopra quel colonnello di fanteria che pochi giorni fa ho visto agitatissimo ispezionare la linea Defrancisci. Ora ferito ad una gamba, ma appare assolutamente calmo e cerca di dare coraggio e di mettere un po' d'ordine nelle nostre file. Ad un tratto esplode a pochi metri dal gruppo di uomini che attornia la slitta una granata, certamente di un carro russo, ma non scopriamo dove il carro sia appostato. Ancora baraonda di uomini, in mezzo ai quali, come una barca dalla vela stracciata in un mare in tempesta, un pugno di animosi tenta di muovere, spingendo disperatamente, un camioncino che porta un anticarro 47/32, per disporlo nella posizione più favorevole per sparare.

Sulla sommità dell'altura prospiciente la conca si profila la sagoma del carro russo. Avanza verso di noi sparando a tiro rapido. Dalla parte opposta dell'avvallamento si vedono scendere in ordine sparso degli uomini in tunica bianca. Non sparano. Sono tedeschi? Sono russi? A fatica si riesce a raccogliere un centinaio di uomini che conservano ancora il moschetto o il fucile mitragliatore. Ci schieriamo dietro una cunetta e tra le macerie di un'isba. Il resto dell'ammucchiata si disperde qua e là.

Gli uomini dalle tuniche bianche si avvicinano a balzi e cominciano a sparare coi parabellum. Altro che i tedeschi "liberatori"! Rispondiamo precipitosamente, con scarsa precisione, ma evidente che il nostro fuoco li sorprende, forse non si attendevano alcuna resistenza. Si gettano a terra e avanzano più cautamente. Intanto dall'interno del camioncino dal copertone mimetico un bersagliere punta l'anticarro sulla tank russa ormai vicina e al primo tiro accade l'impossibile: il carro colpito forse nell'unico punto vulnerabile della sua imponente mole e rimane immobilizzato. Il bersagliere spara ancora contro un altro carro che sta per affiancarsi al primo, non lo colpisce o forse lo colpisce senza neppure scalfirlo, tuttavia anche il secondo carro si ferma, sosta un attimo ruotando il cannoncino e sparando, poi lentamente si ritira proteggendo l'equipaggio uscito dal carro ferito. Anche gli uomini dalle tuniche bianche ripiegano.

Nella conca siamo rimasti in pochi. Riprendiamo il cammino e non tardiamo a ritrovarci col grosso della colonna in ritirata. Cavalli e muli magri stecchiti arrancano faticosamente trascinando slitte cariche di feriti e di congelati. C'è anche un reparto tedesco motorizzato con i camions ben forniti di carburante, semoventi, mitragliatrici a due e a quattro canne montate su slittini, carro-cucina. Sono ben equipaggiati, calzano tutti i preziosissimi valenki, hanno regolarmente mangiato il rancio caldo, non hanno ancora messo da parte la naturale boria e non nascondono il disprezzo per tutti noi che navighiamo in condizioni assai diverse.

Passiamo a poca distanza da Meskoff, ai margini di un boschetto, e improvvisamente siamo fatti segno a violente raffiche di mitragliatrice. Parecchi uomini, italiani, ma anche tedeschi, cadono a terra feriti. La colonna è ferma. Un maggiore germanico chiama a sé un gruppo di ufficiali italiani e li informa che, se non si ripulirà al più presto il boschetto, non si potrà proseguire. É un compito, dice grintoso, che spetta agli italiani.

Raccogliamo un plotoncino di uomini, di cui uno solo armato di fucile mitragliatore Breda, e andiamo a rastrellare la macchia boscosa. I russi, probabilmente partigiani, conoscono il terreno insidioso e, quantunque debbano essere poche unità, pur ritirandosi, ci tengono impegnati e ci infliggono qualche perdita. Finalmente sembrano essersi dileguati nel nulla, non sparano più. Torniamo al punto di partenza, anche i tedeschi sono scomparsi. Appena ci siamo allontanati per il rastrellamento, hanno ripreso la marcia, lasciando sulla neve una decina di nostri feriti, uno dei quali mostra le mani insanguinate gridando: "I tedeschi, i tedeschi!". L'hanno costretto a colpi di baionetta sulle mani a lasciare la sponda del camion a cui si era aggrappato vedendoli ripartire.

Sono ricordi staccati l'uno dall'altro, frammenti, e mi sforzo inutilmente di trovare fra loro un nesso e una successione nel tempo. Dove vidi quel gruppo di ufficiali giovanissimi reggere in alto una grande bandiera tricolore, mentre una mitragliatrice sparava su di loro? Quando vidi seppellire la bandiera? Quando ricevemmo l'ordine di seguire le tracce lasciate sulla neve da un trattore condotto da un ufficiale del comando della Pasubio? Fin da quando era iniziato il ripiegamento la vicenda dei giorni e delle notti, della luce e del buio, si era confusa in un unico incubo grigio, ma quella notte mi pare fosse una notte stellata e che le ossa scricchiolassero dal freddo. Avanti nella neve azzurrognola sulle tracce del trattore!

Ma dove andato a finire questo trattore del maggiore Massa, che pure sentiamo rombare da qualche parte? Gira anche lui qua e là come un mostruoso moscone alla disperata ricerca di una strada libera per l'Italia. L'abbiamo perduto di vista molte volte, ma sempre ritrovato. Questa volta sembra essersi volatizzato nella neve. Attendiamo. Ecco, si ode il suo ansimare faticoso al di là di una ondulazione del terreno che potrebbe nascondercelo. Seguiamo una rudimentale pista dove la neve è molto alta, camminiamo come fossimo impegnati per l'ultimo balzo; la lieve salita innevata ci prende il respiro; ma il rumore viene di là, certamente il trattore. Ci spingiamo avanti e veniamo investiti da una raffica di mitragliatrice che ci fa ripiegare precipitosamente, lasciando morti e feriti dietro di noi.

In marcia ancora, avanti, senza una meta precisa, senza sapere minimamente dove si Va. Gli uomini sono sempre più spossati, camminano barcollando, semiaddormentati, perché irresistibile il bisogno di dormire. Si buttano a terra. Li scuoti, li spingi come puoi: "Non fermarti! Tieni duro ancora un poco! Se ti addormenti muori".

"Lasciami fare, mi riposo solo un attimo. Andate avanti! Non mi addormento. Vi raggiungerò tra poco". Ma basta quell'attimo di occhi chiusi, la morte, non il sonno. E la strada tutta segnata da statue di ghiaccio che giacciono ai due lati del cammino e contro cui incespichiamo col nostro passo barcollante. Siamo ancora immersi nel grigiore uniforme, ma deve essere notte. Davanti a noi un gruppo di casette di legno. Attorno non si vede alcun movimento. Si dice, chissà con quanto fondamento, che nel pomeriggio sia passato di un grosso reparto di partigiani. Ora, però, tutto calmo. In testa alla nostra colonna, che è ormai solo una piccola frazione della grande fiumana che si ritira, discutiamo se fermarci o no. Prevale la considerazione dell'estrema spossatezza generale; bisogna fermarsi per mangiare quel po' che rimasto nelle tasche e tentare di dormire qualche ora.

Mi pare di essermi appena addormentato che mi sveglia una furibonda sparatoria. Centrate le finestrelle dell'isba, rovesciato a terra il lumino ad olio, nell'oscurità grida, bestemmie, lamenti. Balziamo fuori dal provvisorio rifugio. I russi attaccano il borgo da tre lati, impiegando anche piccoli mortai d'assalto che abbattono molti dei nostri sulla neve e seminano il panico e la confusione. I più animosi cercano di rispondere facendo fuoco col moschetto e coi pochi parabellum, ma non si tratta di una resistenza, che d'altra parte in quelle condizioni sarebbe impossibile. Per salvarsi non resta che tentare di raggiungere una profonda balka, distante da noi circa 200 metri, dall'unico lato che sembra ancora libero.

Con le armi che ci sono rimaste bruciamo le ultime munizioni, lanciamo le ultime bombe a mano e ci buttiamo fuori della borgata in direzione della balka. Una corsa frenetica di qualche decina di metri, poi a terra; ancora un balzo, nuova corsa Sulla neve, di nuovo a terra. Eternità di 200 metri! Siamo partiti dalle isbe abbastanza in ordine, quasi ubbidendo ad un piano d'azione precedentemente predisposto; ora ognuno corre per suo conto, non vede che se stesso. Finalmente arrivo alla balka e mi lascio cadere pesantemente lungo il pendio. Mi sento stordito, ma sono intatto. Sono salvo?

Sopra il mio capo, ma più in alto di prima, passano sibilando le pallottole delle mitragliatrici russe. Avanzo lungo la balka. Il grigiore del cielo ora meno intenso, forse sta per sorgere l'alba. Vedo buttati qua e là bombe a mano, caricatori vuoti e pieni, elmetti, armi portatili. Il fondo balka si allarga fino a divenire un'ampia vallata. La sparatoria è ormai lontana. Soldati isolati o a piccoli gruppi sono sparsi nell'immensa distesa di neve come fossero passati attraverso un gigantesco vaglio e sembrano andare tutti nella mia stessa direzione. Raggiungo due di questi puntini neri: un sottotenente e un graduato dei bersaglieri. Anche loro stavano prendendo un po' di respiro in una delle isbe quando i russi, partigiani si dice, hanno attaccato. Sono romagnoli come me. Dove andiamo? Andiamo avanti, ma non siamo neppure certi se andiamo verso est o verso ovest. La bussola si fracassata nel trambusto dell'improvviso risveglio. Seguiamo una pista che reca impronte di uomini e di macchine, ma a passar di qui non stato certo il grosso della colonna in ritirata. Superata una leggera salita, arriviamo ad un vasto capannone, forse un deposito di macchine agricole o un magazzino, dal tetto di paglia ancora quasi intatto. Appoggiati alla parete esterna, vicino all'entrata, militari feriti, fasciati alla meglio con bende intrise di sangue, sofferenti soprattutto per la sete. Molti hanno i piedi ravvolti in stracci, congelati, impotenti ormai a muoversi. Anche l'interno del capannone pieno di feriti, più gravi, sembra. Il tanfo che si avverte entrando come un pugno nel petto. C'è un medico, ci sono anche alcuni militari con la croce rossa al braccio.

"Siete feriti?" - ci chiede bruscamente il medico. "No." - rispondiamo, - "Avete bisogno?". "Se non siete feriti, andate, andate" - incalza l'ufficiale medico. - "Qui non potete fare niente. Ho bisogno di materiale sanitario, di disinfettante, di almeno un pò d'acqua. Non l'avete. Andate, andate! Datemi i vostri pacchetti di medicazione, se li avete ancora. Io resterò qui coi feriti e gli infermieri ad aspettare i russi. Se avete del cognac nelle borracce, datemelo".

Gli lasciamo quanto ancora in nostro possesso e riprendiamo il cammino. Ci seguono gli occhi pallidi, giallognoli dei feriti dalle grigie facce irsute. Avanti, avanti, dunque, sulle tracce lasciate da un'altra colonna di uomini. Da molto tempo ci trasciniamo e non vediamo che neve. A tratti, quest'abbandono, questa solitudine ci da l'impressione di trovarci "fuori", di essere passati "di là", di aver superato l'accerchiamento, ma siamo troppo sfiniti per pensare. Abbiamo sete, abbiamo fame, abbiamo sonno. Tiriamo avanti. All'improvviso ci appare a distanza, al bordo della pista una costruzione bassa, isolata, attorno a cui c'é movimento di uomini, un camion, dei carriaggi. Russi? Italiani? Comunque ci avviciniamo: sono militari in grigioverde, gente come noi, naufraghi. Entriamo nella casa: una stanza piena di feriti e la scena di poco fa si rinnova, nell'altra stanza ci sono degli ufficiali italiani e delle giovani donne ukraine. Le donne strillano e piangono disperatamente, abbracciate ai loro amici, che cercano di calmarle, di tranquillizzarle, assicurando che i russi non verranno, che ormai non c'è più pericolo, che nessuno le toccherà. Usciamo disgustati e riprendiamo il nostro vagabondare senza speranza. A non molta distanza deve svolgersi un violento combattimento. Ci giunge chiaro un gran tuonare di cannoni e l'inconfondibile voce delle katiusce. Istintivamente cerchiamo di accelerare il passo, ma non passa molto tempo che la stanchezza, la fame e tutto il resto ci paralizza le gambe. Ci fermiamo al riparo di alcune carrette rovesciate.

Ci sono lì presso le carogne dei muli. Niente ci differenzia dai morti che sono intorno a noi semisepolti dalla neve. Quanto tempo sostiamo? A intervalli sfilano davanti a noi gruppetti di uomini disarmati, stracciati, spossati, che vanno avanti senza meta. Ci vedono buttati sulla neve tra le carrette e le carogne di mulo, ma passano senza chiederci nulla. Parlare costa una fatica terribile.

Tutti vanno in una medesima direzione. Ci alziamo lentamente aiutandoci l'uno con l'altro e proviamo a muovere le membra intorpidite. Seguiamo gli altri. Ad un tratto udiamo dietro di noi, fragoroso, il rombo di un motore. Un carro armato? Che possiamo fare? Dove possiamo ripararci se non c'è altro che neve attorno a noi? Proseguiamo in silenzio, senza voltarci, a testa bassa.

Il rombo del motore si avvicina. "Italiani! Italiani!" - sentiamo chiamare con forte accento straniero. Ci fermiamo, ci voltiamo. É un ufficiale russo in piedi su una macchina scoperta, agita le braccia come per salutarci. Noi non abbiamo neppure da alzare le mani: nel volto, nell'abito, nell'atteggiamento, nell'animo siamo già dei prigionieri. Eppure è accaduta l'unica eventualità che avevo sempre escluso nel corso della guerra, ed accaduta in maniera del tutto imprevedibile. La macchina dell'ufficiale sovietico prosegue. Vediamo altri gruppi di italiani fermarsi e ritornare verso di noi che stiamo sbarazzandoci di alcune bombe a mano, delle tessere, dei rubli, dei marchi. In pochi minuti si è raccolta una piccola folla, vigilata da una decina di soldati russi, armati di parabellum, che urlando, ci mettono in fila per quattro. E in marcia di nuovo a ripercorrere in senso inverso la strada percorsa, a fianco a fianco dei due bersaglieri. Sembriamo degli automi, dei sonnambuli.

Un soldato russo a cavallo s'accosta e fa incetta di orologi da polso. Anch'io mi affretto a slacciare il mio e a consegnarglielo. Il cervello mi si deve essere svuotato della volontà e della facoltà di pensare. Ho lo sguardo a terra, fisso ai piedi che si muovono, un passo dietro l'altro. E' il 23 dicembre 1942.

mercoledì 4 novembre 2020

I giorni e gli anni, parte 5

Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".

Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. Inizia la parte più tragica e difficile per quegli uomini così già provati e lontani da casa, sperduti nel deserto bianco di Russia.

L'ORDINE DI RIPIEGAMENTO.

All’alba del 19 la situazione nel nostro settore non era cambiata. A tutti, però, cominciavano a pesare in maniera insopportabile le notti passate all’addiaccio ad una temperatura rigidissima, il sonno a cui non ci si poteva abbandonare che per pochi minuti, la fame che il rancio che arrivava una volta al giorno non poteva placare, anche perché era fame di roba calda, la tensione nervosa propria di chi si sentiva ormai in balia di forze a lui estranee ed ostili.

Non si era ancora fatto giorno che venni chiamato al Comando di battaglione. Erano stati segnalati dei gruppetti di russi nella grande balka, bisognava prendere una pattuglia di 12 uomini e passare al setaccio il profondo avvallamento parallelo alla linea del fronte e ripulirlo di eventuali infiltrazioni nemiche.

Gli avamposti sovietici erano a poche decine di metri dal margine della balka e, per arrivare a questa, bisognava percorrere un notevole tratto di pendio scoperto, dove, sul bianco della neve, i cappotti grigio-verdi avrebbero fatto spicco. Tuttavia accolsi l’ordine con assoluta indifferenza. La prospettiva di un’azione rischiosa era più sopportabile, in definitiva, di un’attesa debilitante e senza speranza. Andare incontro alla morte, non cercarla, era preferibile all’aspettarla dietro un parapetto di neve.

Scelsi i dodici uomini meno intorpiditi e fiaccati e indicai loro l’avamposto dove avrebbero dovuto farsi trovare mezz'ora dopo per iniziare la pattuglia. Mi sembrò che anche loro accogliessero la mia designazione con indifferenza, ma all'appuntamento trovai soltanto il sergente e cinque uomini. E il resto? Il sottufficiale disse che tre avevano sostenuto avere i piedi congelati tanto che non potevano neppure mettere gli scarponi, un altro aveva una colica e sembrava più morto che vivo; gli altri non aveva potuto rintracciarli.

"Andiamo!" - dissi e la pattuglia del 6°, formato ridotto, uscì per eliminare dalla grande balka l’insidiosa presenza dei russi. In realtà, ormai, in quel mattino del 19 dicembre 1942, ognuno era solo con se stesso.

Senza danno arrivammo al fondo balka. Procedendo a sbalzi al riparo dei cespugli innevati e di certe piccole asperità del terreno, percorremmo il lungo avvallamento. Sparavamo all'impazzata coi parabellum, ma non scorgevamo la presenza fisica del nemico. Io avevo l’impressione che fossimo fatti segno soltanto di colpi di mortaio, una vera gragnuola. Mi disse più tardi il capitano Soana, che il destino aveva strappato alla pacifica vita di impiegato comunale per farne un guerriero volontario, che l'intenso fuoco delle sue mitragliatrici impedì ai russi di realizzare il tentativo di accerchiarci. Passammo indenni. Solo alla fine, là dove la balka si restringeva a budello con alte pareti scoscese, il sergente ebbe un braccio ferito da una scheggia di mortaio. Non si poteva stare ancora a lungo in quella trappola e cercammo di affrettare i tempi. Fu allora che scorsi un uomo in piedi, immobile, in una specie di nicchia naturale del terreno. Gli puntai contro il parabellum, non si mosse. Vidi sulla sciapka la stella rossa. "Mani in alto!" - gli gridai - "Vieni avanti!". Alzò lentamente le mani, che apparivano enormi nei guantoni imbottiti. Aveva al polso un orologio dall’ampio quadrante nero. (Seppi poi che era una bussola). Era disarmato. Lo prendemmo in mezzo e, guardandoci ben attorno per evitare nuove, più sgradite sorprese, rientrammo nella linea Defrancisci. Dall’uscita al rientro era trascorsa un’ora e mezza.

Al Comando erano soddisfatti: certamente la nostra azione non aveva mutato nulla della situazione concreta, però eravamo usciti dalle postazioni di nostra iniziativa, ci eravamo fatti vivi, e poi ... avevamo fatto un prigioniero. Ma chi era quel soldato disarmato? Come spiegare il suo atteggiamento enigmatico che non aveva lasciato trasparire nulla dei suoi sentimenti, anche quelli meno occultabili come la paura? Come mai pronunziava così bene le parole "italiano", "Roma", "fanteria", "soldato"? Che fosse un soldato russo semplicemente rimasto tagliato fuori dal suo reparto? Che fosse un disertore? Che fosse una spia preparata dai russi per infiltrarsi nel nostro schieramento? Che fosse un agente segreto lasciato lì allo scopo, una volta catturato, di organizzare il movimento partigiano nelle nostre retrovie? Questi sembravano i problemi del momento nella buca del Comando. Ma mi fu anche detto di presentare delle proposte di decorazioni.

La tensione nervosa, che era succeduta all’iniziale stato d’indifferenza, si andava scaricando. Ero completamente sfinito. Mi buttai su una branda. Prima di chiudere gli occhi, vidi il "prigioniero" che, ormai senza guantoni da sciatore e senza bussola, seduto per terra, stava mangiando tranquillamente una pagnotta. Sembrava pensare solo a quello.

Non so quanto dormii, né se dormii o tenni soltanto gli occhi chiusi. Ad un tratto mi sentii scosso energicamente, qualcuno mi chiamava; chino su di me c’era il tenente Di Leo. "Che c'è?" - chiesi. "Circola la voce che tra poco ci ritireremo" - disse agitatissimo Di Leo. - "È voce di popolo. Il Comandante di Gruppo è andato a rapporto". "Ritirarsi! Ma dove?". "A qualche chilometro di qui. Costituiremo una nuova linea difensiva. Pare che ci siano delle grandi fortificazioni e degli accantonamenti preparati da tempo. Lì passeremo l'inverno".

Era straordinario, il siciliano Di Leo, ancora pieno di fiducia, nonostante l'esperienza della "linea fortificata Defrancisci".

Poco dopo uscimmo dalla buca per l’arrivo delle slitte con le marmitte da campo piene di pasta asciutta e nuovi fusti di cognac. Chiamammo i militi di corvée per portare il rancio nei piccoli caposaldi e negli avamposti, dove erano sparsi tutti gli uomini tutti gli uomini del battaglione e i rinforzi della Pasubio. Non fecero in tempo ad arrivare, giunse prima l’"ordine di ripiegamento - esecuzione immediata".

Frenetica corsa di portaordini e di ufficiali in tutte le postazioni. Sull’unico camion a disposizione del Gruppo e sulle slitte venne caricato il materiale indispensabile. Il resto doveva venire bruciato.

Rapidamente gli uomini del 6° si radunarono alla buca del Comando, silenziosi, assorti. Pochissimi presero il mestolo di rancio, giunto in linea già freddo e immangiabile. Non ci furono proteste. In fila, ordinatissimi come non mai, all'apparenza calmi, riempirono le borracce di cognac e misero nel tascapane la pagnotta. Sul camion, a fianco dell’autista, fu fatto salire un ferito, un capitano che aveva inciampato in una bomba a mano abbandonata in un camminamento. La bomba, scoppiando, gli aveva spappolato un piede. Camion e slitte si misero in cammino, dietro gli uomini. Non vidi il "prigioniero".

"Forza ragazzi! Passata Getreide Swiss troveremo gli automezzi che ci aspettano" - assicurava qualcuno, tenacemente ottimista. Così ebbe inizio il ripiegamento. Scendevano le prime ombre della sera e qua e là all’orizzonte si vedevano i bagliori di grandi incendi. Erano le 15,30 del 19 dicembre.

lunedì 2 novembre 2020

I giorni e gli anni, parte 4

Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".

Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. La cartina riportata è stata ricavata da Google Earth e dovrebbe (ne parlo al condizionale) riportare la linea Defrancisci, dopo le opportune verifiche rispetto ai testi da me consultati.

LA LINEA DEFRANCISCI.

All’alba del giorno 16 ci svegliò una nuova sorpresa: "Allarme!".

In mezz'ora il battaglione doveva mettersi in condizioni di marciare verso la linea del fronte "per dare una mano" ad un reggimento della Pasubio contro cui i russi stavano esercitando una forte pressione. La favola del gen. Troiano (ma era mai esistito costui?) in cerca di accantonamenti invernali si sgonfiava miserabilmente nel mugugno generale. Quanto si sarebbe tirato avanti ancora con questa catena di mistificazioni, di fantasie e di subitanee sempre più sofferte prese di coscienza di una realtà tragica? Tutti eravamo convinti, che il repentino reimpiego in linea del battaglione si sarebbe tradotto nella ripetizione di Ogolewka e avremmo avuto conferma che i comandi superiori, mosconi impazziti, prendevano decisioni folgoranti e contradditorie mancando in assoluto un piano tattico, nell’ignoranza del reale andamento delle operazioni sul fronte. Ancora tutti avvertivamo, sia pure confusamente, che qualcosa di importante, di decisivo ci era tenuto nascosto.

Gli uomini affardellarono gli zaini e, uscendo lentamente dal capannone, si misero in fila in silenzio. Tirava il solito vento gelido dell’alba. Il cannoneggiamento era molto vicino e continuo. "Zaino in spalla! ... Andiamo".

Ripassammo per Getreide Swiss e la trovammo più squallida di quando eravamo partiti per Ogolewka. I bunkers e le baracche si erano trasformati in depositi di neve, penetrata attraverso porte e finestre sgangherate. Non vedemmo anima viva, passammo in silenzio avanzando a fatica perché nella notte aveva nevicato molto. Sotto gli scarponi scricchiolava la neve fresca, sbatacchiava qualche gavetta ciondolante.

Ben oltre Getreide Swiss incontrammo i primi feriti della Pasubio. Erano feriti leggeri che andavano verso la retrovia alla cieca, in cerca di un posto di medicazione o di un ospedaletto da campo. Alcuni avevano già avuto una medicazione sommaria, altri no. Per lo più erano accompagnati da commilitoni o anche da superiori forse eccessivamente caritatevoli, date le circostanze. Apparivano tutti agitatissimi, raccontavano che i sovietici avevano attaccato di sorpresa con grandi forze lo schieramento del 79° reggimento, avevano spezzato ogni resistenza ed ora avanzavano contrastati soltanto da deboli forze superstiti dello stesso reggimento.

Come avevano fatto i feriti ad arrivare fin lì? In quel punto non si udiva nessuna sparatoria di mitragliatrice o di fucileria, il fronte, dunque, avrebbe dovuto situarsi ancora abbastanza lontano, invece il racconto dei feriti dava i russi a un paio di chilometri al massimo. Proseguimmo la nostra marcia. In un boschetto, che fiancheggiava l’incerta strada da noi percorsa, una batteria di gente fresca, pulita, equipaggiata di nuovo, piazzava i suoi pezzi sfruttando piccole radure. Ufficiali ed artiglieri apparivano tranquillissimi e manovravano ordinatamente come fossero in piazza d’armi. Un sottotenente venne sulla strada e ci chiese dove eravamo diretti.

"Di rinforzo alla Pasubio. I russi hanno sfondato". "Macché sfondato!" - disse l’ufficiale. - "Li hanno già fermati alla linea Defrancisci. Vedrete che vi faranno tornare indietro subito. Noi siamo venuti qui solo per maggior sicurezza".

La notizia era buona, ma chi poteva crederci? Intanto continuammo ad andare avanti.

Dopo qualche chilometro, quantunque procedessimo a testa bassa come i muli, scorgemmo scendere da lontano verso di noi un gruppo di uomini, un plotone forse, preceduto da una figura allampanata e gesticolante. Gli uomini erano militi della Tagliamento e fanti e bersaglieri, facce sfigurate dai segni della fatica, dalla fame, dal sonno, pastrani e scarponi inzaccherati e a brandelli. L'ufficiale alla loro testa, alto, magro, terreo, con la faccia ossuta, angolosa, i grandi occhi allucinati, vestito di un pastrano grigio-verde scuro lungo fino ai piedi, sembrava mosso da un’eccitazione incontrollabile. Parlava a scatti, a raffiche: stavano di presidio in un caposaldo bombardato per errore a due riprese dagli stukas tedeschi; gravi perdite tra gli uomini, un capitano impazzito; nella notte era giunto il cambio, ora andavano indietro, al Comando, chissà dove.

Lo ascoltammo sgomenti. Osservandolo attentamente mi sembrò di ravvisare una fisionomia già incontrata altrove.

Gli chiesi di dove era, due volte, tre volte. Non ci fu verso di aver risposta. Seguiva il suo racconto, lo ripeteva, come sotto un incubo ossessivo. Solo poco prima di riprendere la marcia col suo scardinatissimo plotone disse che i russi avevano attaccato il suo caposaldo con grandi forze fino al giorno precedente, non erano passati, e da 24 ore sembravano spariti. Dovevano aver spostato l’attacco nel settore della Pasubio. Poi sempre gesticolando con le lunghe braccia da mulino a vento, si avviò coi suoi uomini. "Vivi!" - mi gridò salutando con una mano.

Rimasi come interdetto per quello strano augurio. Si trattava proprio di un originale. Intanto erano giunti alcuni portaordini del Comando di Gruppo incaricati di farci da guida. L'ordine era di andare più in fretta.

Dopo un paio d'ore di marcia sulla neve fresca giungemmo alla sommità di una collina piatta, ove si aprivano, a distanza di un centinaio di metri l'una dall'altra, quattro-cinque enormi buche rettangolari, forse di metri 3 per 10, profondi 3-4 metri, completamente scoperte.

Ci dissero che eravamo arrivati. "Ma questa è la famosa linea Defrancisci?" "Sì, è questa. Tutto quel che c'è è qui!".

Vi trovammo qualche centinaio di uomini della Pasubio, i resti di alcuni battaglioni che, investiti in pieno dai russi sulla linea del Don, erano stati sbaragliati, nonostante un'accanita resistenza. Tra di loro si scorgevano parecchi militari in divisa di tela estiva e bustina, col solo pastrano, senza pelliccia. Erano i "vecchi" della Pasubio, quelli che avevano già conosciuto l’inverno russo e che dovevano rientrare in patria per avvicendamento. I comandi avevano ritenuto inutile distribuire i pellicciotti e l’equipaggiamento pesante.

Di fronte al piatto culmine della collinetta, a circa trecento metri, si apriva trasversalmente una larga e profonda balka. Al di là si avvicendavano ancora colline piatte e avvallamenti. Il Don con le sue sponde a sbalzo non doveva essere molto lontano. Ad occhio nudo di vedevano scendere degli uomini in ordine sparso. Superstiti della Pasubio? Osservammo col cannocchiale. No, erano i russi.

Il battaglione venne disposto sulla linea delle grandi buche e gli uomini scavarono nella neve alta quasi un metro camminamenti, postazioni e avamposti. Una semplice protezione dalla vista, peraltro assai necessaria.

La fucileria era lontana. Neppure l’artiglieria ci disturbava, ma i russi si andavano avvicinando visibilmente. Bisognava fermarli prima che si attestassero alla balka o che tentassero di aggirarci sulla destra, dove mancavamo ancora di qualsiasi collegamento. Furono portati in postazione quattro cannoncini anticarro coi quali avrebbe dovuto essere possibile fare un buon fuoco di sbarramento. Purtroppo c’erano gli anticarro 47/32 (inutili come anticarro, ma utilissimi per l'impiego che se ne poteva fare nella circostanza), ma mancavano le munizioni. Fuori, dunque, le pattuglie ... a tener lontani i russi.

Finalmente, dopo qualche ora, le munizioni arrivarono e alle nostre spalle si fece viva l'artiglieria. Forse era la batteria dell'ufficiale ottimista incontrato al mattino. In quell’occasione il tiro dei piccoli anticarro fu particolarmente efficace. Le pattuglie russe, sorprese dalla precisione dei tiri, si dispersero, si misero al riparo nelle ondulazioni del terreno e noi le perdemmo di vista. Presto non si notò più nessun segno di avanzata.

Ancora un salvataggio in extremis dovuto al caso, alla freddezza o all’iniziativa di un singolo reparto, un salvataggio che ci voleva perché sulla linea Defrancisci regnava il caos. Nessuno sapeva con precisione chi comandasse il settore. Lungo la linea, nelle postazioni, nei posti avanzati al margine della balka si aggirava un colonnello che sembrava aver perduto la testa. Correva qua e là a dare ordini, a dire bravo a uno, coglione a un altro che magari si comportava esattamente come il primo, creando nell’improvvisato schieramento una confusione indescrivibile. Gli teneva dietro, arrancando a fatica nella neve, un capitano a cui non era permesso di aprire bocca e che scuoteva malinconicamente il capo.

Tuttavia, poiché i russi sembravano davvero spariti dietro le alture prospicienti il Don, a poco a poco anche sulla linea Defrancisci si fece un certo ordine. Nelle postazioni erano reparti di formazione "spontanea", camicie nere e soldati della Pasubio, quasi tutti "vecchi" dello C.S.I.R. Di fatto le truppe del settore dipendevano dal Comandante del Montebello.

Il fronte affidato al 6° battaglione con gli aggregati della Pasubio era molto vasto e sarebbe stato impossibile tenerlo con la linea continua. Sbadilando nella neve e cercando, spesso senza esito, di rompere il terreno ghiacciato, si costituì tuttavia una serie di punti di resistenza, minuscoli caposaldi ciascuno dotato di un'arma pesante, collegati a vista durante il giorno e dal continuo circolare di piccole pattuglie durante la notte. Così all’addiaccio, riparati dal gelido vento da parapetti di neve, affrontammo la prima notte sulla "linea fortificata Defrancisci".

Era già buio quando giunse il primo "rancio caldo", tutt'altro che caldo in verità, ma non ancora ghiacciato. Nelle postazioni e nelle buche avanzate delle vedette sembrò molto buono e abbondante, accompagnato peraltro da un gavettino di cognac, di cui erano arrivati alcuni fusti assieme al rancio.

"Forza, ragazzi, le borracce! C’è cognac a volontà!". "Bene, meglio tardi che mai! Ma perché lo tirano fuori solo adesso? È un brutto segno!". "Prima", un paio di cucchiaiate di cognac venivano date agli uomini che si apprestavano ad uscire di pattuglia.

La prima notte passò abbastanza tranquilla. Qualche sparatoria qua e là, qualche raffica dei russi con proiettili traccianti. All’alba, però, vedemmo che gli avamposti russi si erano avvicinati ulteriormente alla balka, a cui il nostro schieramento stava affacciato, ed avevano portato avanti anche le armi pesanti. In concreto, non si poteva alzare la testa al di sopra dei parapetti di neve. Ancora una volta si doveva convenire che, se i sovietici avessero attaccato come avevano fatto giorni prima con la Pasubio, non avremmo potuto resistere a lungo.

Ma ancora una volta a ridarci speranza, a rinfrancarci, ad aiutarci a tener duro, almeno dentro noi stessi, fu fatta circolare la voce che una divisione corazzata tedesca stava per venire a darci il cambio. L'illusione è sempre l’ultima a morire, ma che illusione potevamo ancora nutrire quando, nel pomeriggio del 17 dicembre, vedemmo arrivare in linea un battaglione del Genio Ferrovieri? Era quella la favolosa divisione corazzata tedesca?

Erano tutti anziani che non avevano mai visto la prima linea, che non sapevano maneggiare le armi, che non avevano armi. Fino a pochi giorni prima avevano messo giù rotaie a ritmo contadino, riposando sovente presso la stufa dell’isba più vicina. All'improvviso erano stati buttati nell’occhio del ciclone col compito di sbarrare la strada ai russi, forse di fermare i carri armati con una vecchia mitragliatrice FIAT che ogni tanto necessitava di essere messa sul fuoco per sbloccarne i congegni raggelati. Erano consapevoli di rappresentare, loro malgrado, un particolare comico e tragico insieme, nel quadro della guerra, ma erano straordinariamente bravi, volenterosi, ubbidienti, direi quasi, mansueti. Ascoltavano gli ufficiali e anche gli "anziani" degli altri reparti con rispettosa attenzione. Volevano rendersi utili subito, ma che pena con quei loro occhi troppo fermi e spalancati, con quei cappottoni foderati nelle retrovie con pelo variopinto, con quelle mani tenacemente infilate nelle tasche sul petto, con quelle barbe disseminate di fili d’argento!

"Tenente, ora che sono arrivati i macchinisti, speriamo che arrivi anche il treno!" - era la battuta amara di un "vecchio" della Pasubio ancora in divisa estiva. Così sulla linea Defrancisci passammo il 16, il 17, il 18 dicembre. Nemico veramente feroce il freddo, che il sonno ingigantiva. A turno gli uomini andavano a scaldarsi nelle grandi buche, dove erano state apprestate delle stufe e che in parte erano state coperte con travi e teli da tenda.

Ogni tanto una raffica, ogni tanto un colpo di mortaio. I russi ci tenevano svegli, in attesa sempre dell’arrivo della favolosa divisione corazzata tedesca.

domenica 1 novembre 2020

Auguri Sergente!

Puoi conoscere il cuore di un uomo già dal modo in cui egli tratta gli animali.

Il 1 novembre 1921 nasceva MARIO RIGONI STERN, il sergente Mario Rigoni Stern... dopo aver letto il suo "Ritorno sul Don" tanti anni fa decisi che DOVEVO anche io andare in Russia.

Tanti auguri Sergente dovunque tu sia!!

sabato 31 ottobre 2020

L'aurora a occidente, parte 2

Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".

Riporto una parte dell'introduzione scritta da Mario Bellini nel suo "L'aurora a occidente", bellissimo libro che consiglio a tutti; grazie ai suoi racconti dettagliati di vita vissuta, ho potuto comprendere meglio le vicende belliche ed umane che si svolsero sul "cappello frigio" e nella "valle della morte" ad Arbusovka, ma soprattutto recatomi di persona in quei luoghi sia nel 2016 che nel 2019, ho potuto vivere quei momenti per me molto intensi con una "partecipazione" che ricorderò per tutta la vita... ero lì, ero esattamente in quei posti che lui descrisse così tanto bene e appassionatamente nel suo bel libro. Ma riporto in particolare questo brano per rendere giustizia alla verità, verità che io cerco sempre anche se a volte è dolorosa per qualcuno o fastidiosa per qualcun altro.

Nel quadro della gigantesca battaglia si svolsero le vicende personali che mi accingo a raccontare. Fui partecipe dell'accanita resistenza sul Don dall'11 al 19 dicembre e del successivo ripiegamento del cosiddetto "blocco nord", costituito dalle divisioni Pasubio e Torino e da parte della divisione Ravenna.

Mi trovai in due occasioni a operare con reparti germanici. Non intendo dimenticare gli episodi di arroganza e di brutalità dei quali si resero protagonisti i tedeschi a danno degli italiani, alleati che avevano compiuto il loro dovere e meritavano la loro gratitudine e il loro rispetto. In mancanza di una leale autocritica, della quale i tedeschi non sono stati capaci, la condanna per tali episodi non ha attenuanti. Ritengo doveroso, nel contempo, per un'esigenza di verità, rendere omaggio al valore degli ufficiali e dei soldati, alla capacità combattiva, alla genialità tattica dei reparti della 298a divisione di fanteria germanica. Questa divisione, a ranghi incompleti, fu protagonista di una manovra di ripiegamento semplicemente prodigiosa. Nell'arco di un mese portò in salvo la colonna del 'blocco nord", con il contributo di sangue dei combattenti italiani, dalle rive del Don fino a Belovodsk, attraversando un vasto territorio occupato dalle armate russe, superando accerchiamenti, sbarramenti, assedi, attacchi di ogni tipo sferrati da un nemico agguerritissimo; soprattutto impegnando e ritardando l'avanzata di numerose divisioni sovietiche. I soldati italiani del "blocco nord" non possono dimenticare che il merito dell'esito vittorioso del loro terribile ripiegamento è da attribuire, in massima parte, alla 298a divisione di fanteria germanica.

A titolo personale rendo onore agli ufficiali tedeschi che ho incontrato, dai quali ho ricevuto considerazione e rispetto. lntendo ricordare con gratitudine il sergente Cühy, furiere della 1a compagnia del 20 battaglione del 425° reggimento di fanteria, mio paterno amico nel caposaldo dello scalo merci della stazione ferroviaria di Certkovo. Al suo fermo e appassionato consiglio debbo la decisione di uscire dall'assedio, pur in condizioni di salute penosissime, e di gettarmi con una temperatura di oltre 40° sottozero sulla pista verso Belovodsk, in fondo alla quale, dopo aver attraversato quattro linee di sbarramento nemiche, trovai la salvezza.

Consapevole di aver militato in un'armata che ha combattuto fieramente, rendo omaggio al valore, alla capacità di sacrificio e al religioso amore per la patria del nostro implacabile nemico di allora. Nel contempo ricordo con commozione uomini e le donne russe che ho incontrato: la dolce Sonia, maestrina di Verch Grekovo; Nina e Gregorio, che mi ospitarono con geloso affetto nella loro casa; la donna del pozzo a Man'kovo nell'orrenda notte di Natale, che pianse temendo per la mia vita; la babuska di Belovodsk, che mi accolse con sollecitudine materna alla fine del mio calvario; e tanti, tanti altri. Tutti sono nel mio cuore, per l'amore che hanno avuto per me e che io ho ricambiato.

Al vertice dei miei pensieri, nel pubblicare questa mia testimonianza, ci sono coloro che caddero nella steppa gelata, con lo sguardo rivolto verso l'occidente immensamente lontano, senza veder l'aurora della salvezza. Il tempo non ha cancellato niente di quella tragedia.

Nuova programmazione

A malincuore, davvero a malincuore il "cammino della memoria" che avremmo voluto organizzare per Gennaio 2021 non potrà essere effettuato a causa della situazione internazionale, venutasi a creare con i contagi causati dal Covid, e dalle conseguenti restrizioni. Tantissime richieste anche per questa edizione... Se non sarà il 2021, allora sarà il 2022. Intanto e nella speranza che tutto possa cambiare per il meglio, stiamo lavorando ad un viaggio estivo (agosto/settembre) alla portata di tutti quanti che ci permetterà di andare a visitare tante località del fronte e non solo: le zone tenute dagli Alpini e quelle tenute dalla Fanteria, i paesi ed i villaggi più famosi delle ritirate, i campi di prigionia, la navigazione del Don per una giornata in modo da vedere parte del fronte direttamente dal fiume...

Se interessati scrivetemi in privato e senza alcun impegno al momento opportuno fornirò tutte le informazioni necessarie per un'attenta valutazione.

venerdì 30 ottobre 2020

I giorni e gli anni, parte 3

Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".

Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. La cartina riportata è stata ricavata da Google Earth dopo le opportune verifiche sul campo e riporta la posizione del Raccordino rispetto agli altri punti di riferimento citati nel libro.

IL RACCORDINO.

La notte del Raccordino fu la notte del freddo, del sonno, della rassegnazione. Ci accanivamo a battere i piedi a terra o contro le pareti del trincerone, dove si era raccolto tutto il gelo di Russia, o ci picchiavamo sulle braccia incrociando le mani guantate. Fermarsi per la stanchezza significava sentire subito le ossa scricchiolare come legna secca. A turno ci buttavamo sui tavolacci umidi e sporchi dell’unico rifugio. Il fumo della stufa rendeva l’aria irrespirabile. Appena entrati gli occhi lacrimavano e la tosse prendeva alla gola, poi ci si abituava al fumo e all’aria pestilenziale. Si era al caldo, dopo tutto, e si aveva l’impressione di sentirsi quasi al sicuro.

Percorrevo il camminamento-trincea e ad ogni piazzola trovavo la solita domanda: "Non è ancora venuto il nostro turno di andare a scaldarci?". "No, c'è tempo. Battere i piedi e tenere gli occhi aperti". Non avevamo un compito da poco. La nostra posizione, che doveva fungere da raccordo fra due capisaldi, in realtà era una trincea isolata, piazzata non su una "gobba" del terreno, ma in una zona piuttosto piatta. A destra, il caposaldo X rimaneva a più di mezzo chilometro e il collegamento era tenuto da una pattuglia di 8 uomini che tra l’altro aveva il compito di sorvegliare la balka boscosa che scendeva fino a Ogolewka, perché di lì i pattuglioni russi avrebbero potuto infiltrarsi alle spalle del nostro schieramento. A sinistra, a circa due chilometri, il caposaldo Z, con cui "si sarebbe dovuto" mantenere il collegamento per mezzo di una pattuglia di tre uomini, che "avrebbe dovuto" incontrare a metà strada un'altra pattuglia di eguale forza proveniente dal caposaldo Z. C'era tutto per stare insicuri e rassegnati.

I russi non davano tregua con le mitragliere, coi mortai, coi proiettili traccianti che sembravano partire a volte da postazioni oltre il fiume, a volte da armi piazzate a poche decine di metri da noi allo scopo di mantenere il nostro improvvisato schieramento in una costante tensione. I loro razzi colorati illuminavano a giorno tutta la riva destra del Don.

Da noi le Breda ogni tanto si inceppavano, il moschetto 91 era poco più che un bastone ingombrante, le due mitragliatrici pesanti in nostro possesso erano tenute in esercizio, sparando raffiche a casaccio, per non trovarle bloccate dal gelo. Le sentivamo così preziose che, quantunque il trincerone non fosse lungo più di 200 metri, le cambiavamo sovente di postazione per cercare di renderle più difficilmente individuabili dai precisi mortai russi.

Così aspettammo le prime luci dell'alba, l'ora ufficiale delle sorprese, degli attacchi improvvisi. Ancora nelle viscere la sensazione che solo il caso poteva proteggerci.

Il caso (o l'imperscrutabile piano operativo dei russi?) per quella notte fu dalla nostra parte. Estrema tensione degli animi per quanto avrebbero potuto fare gli altri, ma niente di più. Così ancora nelle prime ore del mattino. Il fronte era come caduto in un improvviso letargo, non si udiva nessuno sparo, la calma era assoluta. Il freddo, il sonno, la tensione avevano accasciato anche i più resistenti; poi trascorse qualche ora tranquilla, si vide chiaro, arrivò il caffè caldo e un po' di cognac. Alla tensione subentrò la rassegnazione di fronte alla prospettiva, ritenuta certa, di passare nel trincerone del Raccordino, russi permettendo, ancora giorni e notti. Invece, verso mezzogiorno, una compagnia di guastatori, ravvolti in bianche casacche, venne a darci il cambio. Un quarto d'ora per passare le consegne, per dare alcune indicazioni sommarie all'ufficiale genovese che comandava i guastatori, poi una stretta di mano, "Ciao, Poggi, ti lascio il Raccordino. Buona fortuna!". "Buona fortuna anche a te. Arrivederci".

Nei pressi dell'Olimpo si ricongiungemmo con quanto rimaneva del 6° battaglione e ci mettemmo in marcia nella direzione di Getreide Swiss, rifacendo a piedi la strada percorsa in camion la mattina del 12. Cominciava a scendere la sera quando ci fermammo presso un immenso capannone dai muri di mattone e dal tetto di paglia, forse la stalla o il magazzino di un colcos. Ci buttammo sulla paglia, soddisfatti di quanto avevamo trovato. I combattimenti dovevano aver ripreso ad infuriare a pochi chilometri di distanza, perché ne giungeva l’eco chiarissima; ma a noi pareva già di essere lontanissimi, fuori tiro.

Restammo nel capannone il 14 e il 15 dicembre. Dormimmo e riorganizzammo alla meglio i reparti, equilibrando i vuoti. Da casa era giunta molta posta; a me anche un pacco con l’uva augurale per il primo dell’anno. Occupai varie ore a rispondere ai miei. Mi piaceva scrivere singolarmente a mia moglie, ai miei genitori, a mia nonna, anche se sapevo che le lettere differenziate sarebbero state lette collegialmente, riuniti tutti alla sera attorno al tavolo su cui troneggiava Laura addormentata o sgambettante nella piccola culla. Del resto, lo schema degli scritti era unico: assicuravo che il battaglione era a riposo nelle retrovie, perciò i miei dovevano stare tranquilli; l'inverno, poi, e tutta la neve che sarebbe caduta, avrebbe impedito le operazioni di guerra, nessuno si sarebbe mosso; il freddo secco e sano si sopportava bene. La mistificazione "pietosa" era conforme alla propaganda del regime.

Noi, forse, cercavamo di esorcizzare la realtà di cui eravamo prigionieri, inseguendo ingenuamente anche l'obiettivo di "ricaricarci", ma sui giornali giunti dall'Italia col solito mese di ritardo leggemmo un discorso di Mussolini che ci parve rivelare, forse per la prima volta in maniera tanto scoperta, che la retorica non poteva più nascondere le difficoltà e le debolezze del regime all’interno e sui fronti di guerra. Ci fu chi disse che ormai la campana dava un suono fesso.

Tuttavia quel po’ di riposo, come sempre accadeva, ridiede confidenza con la vita e riaprì l'animo alla speranza. Speranza di vivere, non di vincere. Elemento determinante per quella generale ritonificazione fu la notizia, fatta circolare la sera del 14, che il generale Troiano, che aveva sostituito nel comando del raggruppamento il gen. Diamanti, tornando in Italia ai primi freddi, era partito in macchina per andare a cercare nelle retrovie gli accantonamenti, dove avremmo trascorso tranquillamente e al caldo tutto l'inverno.