giovedì 30 dicembre 2021

Rapporto sui prigionieri, parte 11

Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

LA VITA NEI CAMPI.

Con il passare dei mesi, la vita nei campi divenne più vivibile, il vitto aumentò in quantità e fu distribuito regolarmente. Tuttavia il trattamento risultò molto diverso da campo a campo, in relazione alle ruberie che, ad iniziare dal Comandante russo con i suoi ufficiali e soldati, per finire ai prigionieri addetti ai magazzini ed alle cucine, venivano perpetrate sulla pelle di tutti gli altri. Anche la disorganizzazione e gli intoppi della distribuzione esterna, determinarono periodi di vitto scarsissimo o pessimo. Vi sono esempi di campi alimentati in pieno inverno e durante più mesi, esclusivamente con zuppa di ortiche o con patate gelate. Ciascuna nazionalità, nello stesso lager, era riunita sotto il Comando di un ufficiale o di un sottufficiale del proprio esercito, che era responsabile nei confronti dei russi dell'ordine, della disciplina e dell'attività dei suoi uomini. Le trasgressioni venivano punite con il carcere a pane ed acqua ed in ambienti che, specialmente in inverno, erano micidiali. Molti decessi successivi alle grandi morie iniziali, sono da imputarsi alle conseguenze di una permanenza un po' più lunga in prigione.

Immancabile cerimonia di tutti i campi di concentramento del mondo è l'appello. Questo avveniva due volte al giorno all'aperto, a ranghi inquadrati, con qualsiasi tempo e qualsiasi temperatura. L'incombenza era affidata, di solito, a soldati russi che non sapevano contare e pertanto si protraeva per ore anche se c'era tormenta o c'erano -20°. Il lavoro era obbligatorio per i soldati: gli ufficiali erano obbligati a provvedere a tutti i servizi interni. Il lavoro era regolato da cottimi (norma) e solo il raggiungimento della misura stabilita, dava diritto ad un supplemento di vitto. Tale sistema, imposto del tutto in modo personale dai vari comandanti ed affidalo per il controllo a soldati o a civili russi, ed in ultimo anche a prigionieri armati, divenuti carcerieri dei loro connazionali, dava luogo ad ogni specie di soprusi, angherie ed ingiustizie.

Anche gli ufficiali furono costretti eccezionalmente a lavorare all'esterno del lager, per sgomberare le strade dalla neve, raccogliere d'urgenza patate minacciate da precoci gelate, trasportare legna per gli innumerevoli bisogni del campo e tutto questo sotto il ricatto di sospensione o di crisi nell'approvvigionamento dei viveri o la limitazione o sospensione del riscaldamento. Va detto però che a prescindere da queste chiamate generali, un buon numero di ufficiali è sempre andato a lavorare volontariamente per arrotondare il sempre magro pasto di spettanza e per molti, anche per spezzare l'infinita noia della vita di recluso. I lavori più comuni, nei quali furono impiegati i prigionieri, erano il taglio dei boschi, i lavori agricoli nei "Kolkos", la raccolta del cotone, la fabbricazione dei mattoni, i lavori di edilizia sia in legno che in muratura, in qualche caso anche il lavoro in miniera. All'interno dei campi, a seconda dei loro mestieri da borghesi, svolgevano attività di sarti, calzolai, falegnami, muratori, elettricisti. Di loro si avvaleva il personale del campo e non di rado anche la popolazione civile esterna ai lager.

Terminata l'epoca delle grandi morie (febbraio-maggio 1943) nei campi fu organizzata dai russi una rudimentale assistenza medica, alla quale partecipavano anche ufficiali medici prigionieri. Purtroppo la carenza cronica di medicine, medicamenti ed attrezzature limitava qualsiasi intervento efficace. Le periodiche visite effettuate da commissioni esterne avevano solo lo scopo di classificare i prigionieri ai fini della loro capacità lavorativa. Molti nostri ufficiali medici furono trasferiti, sin dal 1944 nei lager dei soldati o lager-ospedale - non necessariamente in quelli con i soldati italiani - per provvedere alla assistenza medica.

Nel lager di Suzdal, dove erano stati concentrati quasi tutti i nostri ufficiali, la presenza di numerosi cappellani, diede la possibilità di un'assistenza religiosa e spirituale di grande aiuto. Ostacolata e clandestina nei primi tempi, fu poi permessa dai russi tanto da consentire la celebrazione della Messa tutte le domeniche. Ogni tentativo dei cappellani di ottenere il trasferimento, come i medici, nei campi, a maggior concentrazione di nostri soldati, si infranse contro un ostinato, quanto comprensibile - dal loro punto di vista - "niet" dei russi. Nei campi fu permessa l'organizzazione di recite, spettacoli, cori e concerti eseguiti con strumenti forniti dal comando russo. A Suzdal, nell'ultimo anno, furono anche proiettati film russi di smaccato argomento propagandistico. Tra i prigionieri più in gamba si svolsero anche gare e tornei, chiamiamoli pseudo-sportivi, tenuto conto della mancanza assoluta di attrezzature e della prestanza fisica dei concorrenti.

Una restrizione che influì in modo pesante sul morale dei prigionieri, fu la totale mancanza di notizie dalla propria famiglia. I russi non distribuirono mai la corrispondenza che pur doveva arrivare copiosa dall'Italia. Solo alla fine del 1945 e solo agli ufficiali, sono state consegnate alcune lettere che erano state spedite un anno prima. Egualmente in senso contrario. Se si fa eccezione al centinaio di cartoline distribuite dai russi a Tambov, ancora nel febbraio 1943, perché dessero notizia a casa della loro cattura, non fu possibile scrivere se non dopo la fine della guerra. Anche questa tardiva concessione fu in pratica annullala da qualche comandante di lager, che non inoltrò a chi di dovere le cartoline scritte con tanta speranza e le lasciò marcire in qualche scantinato.

Ammesso che questo disinteresse sia dipeso dal fatto che presso i russi non esisteva nemmeno la posta militare e che sarebbe stato troppo pretenderla da un'amministrazione carceraria che faceva morire di fame i prigionieri, è evidente che la distribuzione di Tambov era stata fatta con chiari scopi propagandistici e che l'annullamento successivo fu dovuto all'imbarazzo di far conoscere che gli italiani superstiti erano solo diecimila. L'unica via per la quale i prigionieri poterono far sapere a casa d'essere ancora vivi fu la firma degli appelli al popolo italiano, che i commissari politici sollecitavano con interessata frequenza, appelli che venivano trasmessi da Radio Mosca. Anche in questo caso, ben pochi nomi di firmatari ebbero il privilegio di essere citati, era un privilegio che bisognava meritarsi.

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