martedì 21 dicembre 2021

Rapporto sui prigionieri, parte 10

Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

GLI ALTRI CAMPI.

Non tutti i prigionieri conobbero i campi di smistamento di cui si è detto al capitolo precedente. Molti vennero inviati direttamente in numerosi altri campi. Tra quelli dove l'afflusso di soldati italiani fu più massiccio si possono citare quelli della Mordovia a 600 km a sud-est di Mosca; quelli delle repubbliche indipendenti dei Tatari e dei Mari al di la del Volga (1.000 km ad est di Mosca); quelli negli Urali nelle regioni di Perm e Sverdlovsk (1.800 km ad est di nella regione di Tashkent nel Kazakistan meridionale, al confine con la Cina e l'Afghanistan. Quasi tutti gli ufficiali sul fronte delle nostre Divisioni di Fanteria, nella seconda quindicina di dicembre '42, insieme ai loro soldati furono mandati a Suzdal, duecento chilometri a nord-est di Mosca.

In questi campi si verificò la stessa ecatombe dei campi di smistamento con l'aggravante che, a causa della lunghissima durata dei trasporti, la mortalità in treno fu molto più elevata e le condizioni di coloro che arrivarono vivi erano ormai disperate e senza possibilità di sopravvivenza. A peggiorare ulteriormente queste possibilità, arrivarono i superstiti dei campi di smistamento con i germi del tifo petecchiale che si diffuse ben facilmente anche perché i russi si preoccuparono - o lo fecero in ritardo - di prendere provvedimenti di isolamento e di disinfezione. Per cui alla grande moria dei primi mesi, dovuta soprattutto alla denutrizione, al gelo, agli esiti infausti delle ferite, si aggiunse la spaventosa mortalità dovuta al tifo che assottigliò, forse ancor più delle altre cause, la già ridottissima schiera dei prigionieri.

Questi campi avevano una rudimentale funzionalità. I prigionieri vivevano in baracche o edifici, dormivano su incastellature a due o tre piani con pagliericcio (non sempre) e coperta, esistevano cucine, impianti di disinfestazione, latrine e bagni. I prigionieri erano sottoposti ad un superficiale controllo sanitario da parte dei medici russi il cui scopo precipuo era la valutazione della loro capacità lavorativa. Un quadro complessivo del trattamento e delle condizioni di vita nei campi, non è possibile definirlo, in quanto - regola generale in Russia - vi erano differenze enormi tra un campo e l'altro e nello stesso campo, il funzionamento è cambiato nel corso del tempo e non sempre in maniera evolutiva.

Sorte diversa toccò a numerosissimi feriti e congelati, lasciati provvisoriamente in capannoni a Valuiki e Rossosc, al momento di formazione delle colonne, oppure scartati dalle colonne stesse durante le marce del "davaj" - nonché ai feriti trovati nei nostri ospedali da campo di Kantemirovka, Cerkovo, Podgornoje. Essi vennero, in seguito trasportati negli innumerevoli lager-ospedale situati nelle remote retrovie. Grandi concentramenti di soldati si ebbero negli ospedali della regione di Kirov (Pinjug, Belaja Koluniza, Fosforitnj, Bistriaghi), sul Volga tra Kuibiscev e Saratov (Volsk), tra gli Urali cd il Caspio (Ak Bulak), nel Kazakistan centrale (Borovoje).

Erano ospedali organizzati dove il trattamento alimentare era adeguato e l'assistenza medica era efficiente, assicurata da personale russo affiancato da ufficiali medici prigionieri. Tuttavia le condizioni e la durata dei trasporti resero vana questa sistemazione, meno primitiva di quella riservata agli altri prigionieri. Anche negli ospedali la mortalità è stata molto elevata. In base alle testimonianze dei rimpatriali ed alla documentazione recentemente fornita dagli archivi russi, i campi dove furono rinchiusi i nostri prigionieri sono circa duecento ed altrettanti gli ospedali.

Occorre tuttavia osservare che i prigionieri venivano con frequenza trasferiti da un campo all'altro; non c'è italiano che non abbia conosciuto meno di cinque o sei lager o lager-ospedale. Parecchi nostri prigionieri di guerra hanno conosciuto anche le prigioni sovietiche. I primi ufficiali catturati, come il Ten. pilota Nannini, abbattuto nel settembre 1941 o il Ten. medico Reginato, preso nel maggio 1942, nonché i nostri tre generali Battisti, Ricagno e Pascolini, catturati alla fine di gennaio 1943, furono subito trasportati a Mosca, rinchiusi alla "Lubianka" (la prigione dell'NKVD, la polizia politica) e sottoposti a snervanti, prolungati interrogatori preceduti da trattamenti di raffinata tortura psicologica.

Anche altri prigionieri subirono trattamenti analoghi, ma dopo esser stati prelevati improvvisamente dai campi di concentramento e per motivi che nemmeno gli stessi malcapitati hanno saputo spiegare. E' capitato poi, in varie occasioni, che prigionieri di guerra siano stati associati alle carceri di qualche città in attesa di chissà cosa, rinchiusi assieme a delinquenti comuni e prigionieri politici. Infine - ma di questo se ne parlerà in apposito capitolo - i prigionieri di guerra italiani che furono trattenuti in Russia sotto accuse false ed assurde, prima e dopo le lunghissime inchieste ed i processi, conobbero profondamente le galere staliniane.

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