martedì 1 giugno 2021

Racconti di Russia, la cancrena

Questa testimonianza racconta le insolite, quanto terribili, vicende dell'alpino Armando Molinari avvenute durante l'inizio della ritirata.

Caporal maggiore Armando Molinari, 10a Compagnia, Battaglione Mondovì, 1° Reggimento Alpini.

[...] Facemmo una terribile marcia camminando ininterrottamente giorno e notte, con trenta e quaranta sotto zero, fino a quando superammo la zona di Rossosch e ci trovammo nel territorio di riunione delle truppe alpine e ci riunimmo alle altre 2 nostre divisioni. Cominciamo allora la marcia che avrebbe portato i superstiti (ma naturalmente lo sapemmo molto più tardi) a giungere a Nikolajewka e a salvarsi dalla sacca. Io però sulla strada per Nikolajewka devo dire che misi soltanto il piede e compii i primi passi, perché ben presto furono proprio i miei piedi a darmi atroci dolori e a impedirmi di camminare. Sostai qualche ora in un'isba, e quando riuscii a togliermi le scarpe e le calze i miei piedi erano insensibili e bianchi come il marmo. Non mi reggevo in equilibrio, ero disperato [...]

Quando sentimmo le fucilate dei partigiani in arrivo ci trascinammo a nasconderci in una stalla; allorché uscimmo per cercare qualche cosa da mangiare io per muovermi dovetti legarmi alle ginocchia degli stracci di coperta e d'allora in poi mi trascinai strisciando sulle ginocchia; dopo qualche giorno mi trovai separato dai miei compagni di sventura; andavo di isba in isba domandando la carità, vivevo di quello che mi davano i contadini russi, i soldati russi non mi catturavano neppure; vedendo com'ero conciato pensavano certamente che sarei morto da solo sulla neve e che potevano quindi lasciarmi anche dov'ero.

Col passare dei giorni la cancrena ai piedi mi fece andare in sfacelo la carne tanto che si vedevano le ossa delle dita, e il fetore era terribile; io stesso capivo che la cancrena si sarebbe a poco a poco diffusa e mi avrebbe distrutto. Allora con una lametta da barba che per fortuna avevo ancora mi tagliai ad una ad una tutte le dieci dita dei piedi facendomi saltare via anche gli ossicini fino ad arrivare alla carne viva e sana con un dolore che mi faceva impazzire, ma intanto il sangue vivo usciva ed era la salvezza.

Mi tamponai con pezzi di camicia e tirai avanti: certe notti incontravo nelle stalle qualche altro alpino congelato e pieno di cancrena, dovetti anche a questi tagliare le dita, me lo chiedevano perché il risultato che vedevano su di me pareva buono anche se la piaga restava aperta, per disinfettarla in qualche modo orinavamo sulla piaga; dava un bruciore tremendo ma forse faceva qualcosa. Passai per settimane da isba a isba, da stalla a stalla; dicendo che ero italiano trovavo comprensione e pietà [...]

[...] Un giorno mi accolsero in sosta in un'isba, un russo si impietosì talmente del mio stato che in mezza giornata mi confeziono sotto miei occhi un paio di stampelle, mi parve di rinascere quando mi aiutò a rizzarmi e mi accorsi che appoggiandomi a quei legni potevo riprendere una posizione umana, manterrò riconoscenza per quel russo finché vivrò.

Ma i piedi buttavano sangue, avevo bisogno di cure, mi decisi a presentarmi a un treno ospedale russo carico di militari; non mi accolsero, una infermiera mi gettò delle bende già insanguinate, delle vere bende colle quali potei fasciarmi un po' meglio. So che non è quasi credibile, ma quando mi avvicinai a qualche campo di concentramento per darmi prigioniero le guardie mi scacciarono sempre, evidentemente ero un rottame da non prendere in considerazione.

Soltanto dopo l'otto settembre, quando cominciò a circolare la voce che l'Italia aveva fatto la resa anche con la Russia, pensai che non ero più un nemico, che mi dovevano accogliere e possibilmente sfamare, curare. Insistetti tanto dinnanzi al campo 52 finché mi fecero entrare; diventai finalmente un prigioniero regolare, e da allora seguii la sorte degli altri prigionieri italiani, e con questi a suo tempo venni rimpatriato.

RICCARDO

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