Il processo D'Onofrio, undicesima parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.
LA DICIOTTESIMA UDIENZA.
18 giugno 1949 - Una lettera - che ha costituito un piccolo colpo di scena - e la deposizione di un altro cappellano militare, Padre Turla, sono stati i fatti che hanno caratterizzato questa udienza, e devono avere contrariato non poco il sen. D'Onofrio. Si è presentato per primo il tenente dei bersaglieri Umberto Puce.
Puce: 'La mia prima destinazione, come prigioniero di guerra, fu un bosco nei pressi di Minciulinskin: 'il bosco della morte', come lo chiamarono subito i prigionieri. Qui gli italiani furono sistemati in alcune buche seminterrate, senza porta e malamente coperte; non c'era paglia per terra e il cibo era costituito da una zuppa di brodaglia con dentro nove chicchi, contati, di lenticchia, pane nero immangiabile e per bevanda un liquido indefinibile. Arrivammo nel bosco in settemila, ripartimmo tre mesi dopo che eravamo ridotti in cinquecento. Ma già prima di giungere nel bosco i prigionieri erano stati decimati per la lunga marcia, per la debolezza, per la spietatezza delle guardie russe di scorta alle colonne'.
Il teste ha raccontato che per impadronirsi delle tute mimetiche che due soldati indossavano, quei disgraziati furono fatti uscire dalle file e fucilati; quelli che per una ragione qualsiasi non riuscivano a tenersi nella colonna venivano passati per le armi; abbattuto con due colpi di pistola alla nuca fu un poveretto, che, durante il viaggio in treno, sfondato un finestrino, si era gettato dal convoglio sulla neve per placare la sete.
'Al campo di Viliba la situazione subì un leggero miglioramento: c'era acqua in abbondanza e si mangiava un po’ meglio, ma il tifo petecchiale e le altre epidemie continuarono a mietere vittime. Dei 500 arrivati ripartimmo, dopo meno di due mesi, in 300. Nuova destinazione, il campo di Baskaia e poi Susdal'.
Puce: 'Qui conobbi il fuoruscito Roncato il quale vestiva la uniforme russa. Egli profferì volgari insulti contro i prigionieri italiani, vantandosi di aver combattuto sul Don contro le nostre truppe. 'Non lo sapevate che avreste fatto questa fine, quando veniste a combattere contro i russi? - disse - dovevate ribellarvi prima!'. E quando gli dissi che ero volontario di guerra, mi schernì e additandomi ad un ufficiale russo esclamò ridendo: 'Eccolo, il conquistatore'.
Seppi poi da alcuni colleghi che venivano dal campo di Oranki che laggiù la vita era durissima e che il trasferimento di lì in un campo di punizione del cap. Magnani e di altri ufficiali italiani era da attribuirsi a D'Onofrio. All'ufficio politico del campo mi fu proposto di riferire sull'atteggiamento e sulle idee politiche dei colleghi e quando si accorsero che le informazioni da me fornite non corrispondevano ad altre che i russi avevano e che anzi mettevano in ottima luce proprio coloro che erano stati segnalati alla polizia sovietica, mi minacciarono puntandomi alle tempie le pistole. Mi fu proposto pure di spedire dei messaggi radio ai familiari, ma opposi un netto rifiuto, perché si pretendeva che si sottolineasse nel testo come la prigionia in Russia fosse un paradiso, mentre ci sfamavamo con le ortiche'.
Padre Turla non ha esitato ad attaccare direttamente il querelante del quale fece la conoscenza poco prima del 25 luglio 1943. Lo conobbe al convalescenziario di Skit dove era stato ricoverato una volta guarito da una violenta forma di tifo petecchiale e da una otite purulenta, malattie che lo avevano ridotto al peso di 35 chili e gli avevano lasciato una amnesia tale che fino alla fine del 1944 non ricordava neppure il nome della madre. Ed ecco il colloquio avvenuto fra il cappellano e D'Onofrio.
P. Turla: 'L'attuale querelante mi parlò prima di politica e poi mi presentò il famoso appello al popolo italiano, istigandomi ad entrare a far parte del gruppo degli attivisti. 'Sono un sacerdote e come tale non posso appartenere a gruppi politici', risposi.
D'Onofrio interruppe: 'Allora lei è un fascista!'. Ribattei che io non mi ero mai interessato di cose politiche. Avevo appena dodici anni quando ero entrato in seminario... D'Onofrio disse ancora: 'Lei sta male ed ha bisogno di cure, di mangiare bene per rimettersi e soprattutto ha bisogno di tornarsene a casa sua. Lei firmi qui su questo foglio e vedrà che noi lo aiuteremo'. Poi si allontanò non senza aver ancora insistito a lungo. Ma il giorno successivo tornò alla carica. 'Beh, ci ha pensato bene? Pensi, le ripeto, che con una firma a questo foglio e con la sua adesione al gruppo antifascista lei starà molto meglio. Il gruppo antifascista ha discreti vantaggi: lei avrà più libertà, perché quello è un gruppo ricreativo ed anche di cultura'. Al mio rifiuto D'Onofrio assicurò: 'Se ne pentirà! Lo riferirò alle autorità sovietiche. Si ricordi bene che lei è un prete e non è detto che i russi abbiano intenzione di continuare per un pezzo a rispettare il suo saio'.
Le conseguenze di questo drammatico colloquio non tardarono a farsi sentire e che il D'Onofrio avesse messo in atto la minaccia non c'è dubbio se appena dopo due giorni fui dimesso dal convalescenziario e rispedito al campo, sebbene fossi ancora malato. Fui rimesso a vitto comune e per non morire dovetti cibarmi di ghiande e di cicoria che trovavo nei campi'.
Ma Padre Turla non si è limitato a parlare dei suoi rapporti con l'attuale querelante. Ha voluto anche raccontare al Tribunale come si vivesse nei campi di concentramento.
P. Turla: 'Gli italiani non dimenticheranno mai il nome terribile di Krinovaia ed ha aggiunto che in quel campo 27 mila prigionieri italiani morirono di fame e di fatiche. Tanta era la disperazione che per tre volte di seguito chiedemmo alle autorità militari sovietiche di essere fucilati. Non voglio scendere in particolari per non dare altri dolori a tante mamme d'Italia, ma non posso non confermare gli episodi di cannibalismo, le scene sanguinarie che si ripetevano giorno per giorno, gli stenti delle lunghe marce di trasferimento'.
Avv. Taddei: 'È vero che nei campi si poteva celebrare la Messa e che fu perfino organizzato un Presepe nella ricorrenza del Natale?'.
P. Turla: 'Per quanto mi riguarda, ho potuto celebrare la Messa soltanto una volta, durante tutta la prigionia. Fu nel campo di Susdal il 1° gennaio del 1944. Il Presepe, poi, è vero, fu fatto, ma dovemmo fare una domanda al comando russo mascherandolo sotto la definizione di 'mostra artistica'. È vero anche che i sovietici vennero a visitare il Presepe. Essi si rallegrarono con noi e, indicando il panorama nel quale si vedevano palmizi, capanne e grotte, ci chiesero se raffigurava Roma'.
A questo punto, esaurita la deposizione di Padre Turla - che già aveva notevolmente turbato il querelante - c'è stato il colpo di scena.
L'Avv. Taddei ha tirato fuori una lettera scritta da uno dei testi d’accusa, precisamente Alessandro D'Alessandro, il quale si era dilungato in una precedente udienza, nell’esaltazione del regime sovietico, dell’ottimo trattamento usato ai prigionieri, e non aveva lesinato i ringraziamenti a tutti i fuorusciti italiani che gli 'avevano aperto gli occhi'. La lettera in questione fu spedita dal fronte russo il 25 ottobre del 1942, un anno prima di essere catturato, e indirizzata ad una zia residente a Rocca di Papa, nei pressi di Roma. Nello scritto il D’Alessandro si scagliava contro il regime sovietico e l'organizzazione interna della Russia esprimendosi in questi precisi termini: 'Ho parlato ai mugiki della zona nella quale siamo fortificati. Le deplorevolissime condizioni fisiche e morali in cui abbiamo trovato quelle popolazioni dimostrano chiaramente che il paradiso sovietico non è quello che la propaganda di Mosca vuol far credere'.
E non sono impressioni personali, vuol precisare lo scrivente, perché, insiste, si tratta di confidenze fattegli da qualche vecchio mugik. E ancora: 'Solo una cosa i contadini russi conoscono, e molto bene: il commissario politico e la sua frusta'. E più oltre: 'Quale è il premio della loro fatica? Nulla. I contadini ricevono, alla fine della giornata, mezzo chilo di pane e nient’altro. Se protestano, il crepitio dei fucili si fa sentire senza pietà'. Per concludere poi: 'Il popolo russo ha conosciuto il suo calvario'.
La lettura della lettera è stato un po’ come un fulmine a ciel sereno: gli avvocati hanno cominciato a guardarsi, pronti a dare il via al battibecco; D'Onofrio era visibilmente contrariato e il D’Alessandro era addirittura violaceo, non sapeva più dove guardare quando è stato chiamato nuovamente alla pedana per riconoscere la lettera come sua, cosa della quale, naturalmente, non ha potuto fare a meno. Ma tutto si è risolto in un brevissimo scambio di botte e risposte fra le parti, cui ha dato inizio proprio il querelante.
D'Onofrio: 'Io vorrei proprio sapere come ha fatto la difesa a venire in possesso di quella lettera'.
Avv. Taddei: 'L'ho avuta dalla posta, naturalmente'.
Avv. Sotgiu: 'Chiedo che venga citato come testimone la destinataria della lettera'.
Avv. Taddei: 'Non riesco a comprendere la ragione per cui vi agitate tanto. Del resto l’episodio non fa che confermare quanto efficace sia stata la propaganda del D'Onofrio, il quale ha trasformato, con un colpo di bacchetta magica, un denigratore della Russia in un attivista modello, come è oggi il D'Alessandro'.
D'Alessandro: 'Ma io allora credevo che quella fosse la realtà. Così infatti ci dicevano sempre i consoli della milizia che venivano per fare la propaganda. E del resto il capomanipolo Taddei può testimoniare...'.
Avv. Taddei: 'Signor Presidente è già la seconda o la terza volta che i testi parlano di me in questo modo. Credo che sia il caso di intervenire energicamente...'.
Prima che l'udienza venga tolta il tribunale si riserva di decidere se citare o meno la signora Ester Bersaretti, destinatario della lettera, giacché, alla richiesta dell'avv. Sotgiu, si associano anche i difensori e il P.M.
LA DICIANNOVESIMA UDIENZA.
20 giugno 1949 - Siamo ormai agli ultimi testimoni. Il giorno della sentenza si avvicina e l'interesse suscitato da questo processo, che dura già da un mese, è sempre vivissimo. Ancora due testi a discarico e poi sarà la volta degli ultimi cinque addotti dalla Parte civile.
Il primo a deporre è stato il tenente di artiglieria Orazio Mangone della divisione Pasubio il quale ha fatto un lungo e particolareggiato racconto del viaggio dal luogo della cattura al primo campo di concentramento, quello di Tamboff. È stata la storia, già narrata dagli altri reduci, di patimenti, di fatiche, di minacce, di morte. Al campo di Tamboff i prigionieri furono accolti dalla signora Torre. Faceva molto freddo e gli uomini battevano i piedi in terra nel tentativo di scaldarsi o almeno di far circolare il sangue. Chiesero aiuto all’emigrata, ma questa rispose loro beffardamente 'Avete battuto tanto le mani a Piazza Venezia, ora potete anche battere i piedi'.
Il teste conobbe D'Onofrio al campo di Oranki e fu da lui interrogato all'indomani della presentazione dell’appello al popolo italiano. Poiché il Mangone rifiutò di sottoscrivere, l'attuale querelante gli disse: 'Lei deve rivedere le sue idee se vuol tornare in Patria. Lei lo sa che in Siberia fa molto freddo?'. 'Sono un prigioniero - rispose l'ufficiale - e desidero seguitare a fare il prigioniero'.
Presidente: 'Quali furono le conseguenze del suo rifiuto?'.
Mangone: 'Fui immediatamente dimesso dal convalescenziario e rispedito ad Oranki dove mi assegnarono al lavoro malgrado non pesassi 40 chili. Fu ad Oranki che il cap. Magnani mi espresse le sue preoccupazioni per quello che lo aspettava dopo l'ostilità che aveva dimostrata nei riguardi del D'Onofrio. Come temeva, il capitano fu trasferito infatti in un campo di punizione.
Al campo di Susdal in ogni baracca c’era un ufficiale appartenente al gruppo antifascista il quale svolgeva propaganda politica. In proposito nella mia baracca questa funzione era espletata dal ten. Tommaso Barone, il quale rientrò in Italia due anni prima degli altri'.
Del viaggio di ritorno, il teste ha raccontalo poi al tribunale le difficoltà incontrate. Partì dal campo nell’aprile del 1946 ma gli ufficiali superiori furono trattenuti e fra essi il gen. Ricagno. Il Mangone ed altri cinquanta colleghi, giunti in Romania, furono fermati prima alla frontiera austriaca, a Sighet. I russi dicevano che non era possibile farli partire per mancanza di vagoni e soltanto quando i prigionieri cominciarono lo sciopero della fame furono portati a Vienna e di lì rimpatriati per l'intervento della Croce Rossa Internazionale. Cosicché il loro rientro fu ritardato di oltre un mese.
È stata poi la volta del comandante dell’8° reggimento Alpini, col. Luigi Zacchi. Subì il primo interrogatorio, dopo la cattura, dal fuoruscito Vera a Rostov e poi, successivamente, ad Oranki parlò con Fiammenghi. Costui cercò di sapere quale fosse la sua idea politica e gli prospettò un ottimo avvenire in Italia qualora l'avesse mutata. 'Non mi sono mai interessato di politica - rispose il colonnello - e perciò non ho idee da cambiare'.
'Si ricordi - lo ammonì allora Fiammenghi - che in Italia troverà il comunismo padrone della situazione. È bene che si regoli'. 'So perfettamente quale sia il mio dovere - ribatté il colonnello - e non ho paura'. 'Ma lei è sicuro di ritornare in Italia?' chiese allora il commissario.
'Certamente. A meno che non vada all’altro mondo per una malattia'.
Presidente: 'Lei sentì mai parlare di una legione garibaldina?'.
Zacchi: 'Sì. Questo gruppo fu formato dopo la dichiarazione di guerra alla Germania. Aveva lo scopo apparente di riunire tutti gli italiani, ma in effetti mirava a conoscere quali fossero le tendenze politiche dei prigionieri'.
Presidente: 'Il teste conobbe il cap. Magnani?'.
Zacchi: 'Sì, era l'aiutante maggiore del mio reggimento'.
Presidente: 'E seppe dell’interrogatorio subito dal cap. Magnani?'.
Zacchi: 'Sì. Egli mi riferì del colloquio avuto con il D’Onofrio il quale lo aveva minacciato di non farlo ritornare più in Italia. Era un ottimo ufficiale, il cap. Magnani. Quando lo consigliai a moderarsi e a restare tranquillo mi rispose: 'Non m’importa niente. Preferisco non tornare ma lasciare a mia figlia un nome del quale non debba vergognarsi'.
Avv. Taddei: 'Perché avvenivano i trasferimenti in campo di punizione?'.
Zacchi: 'Perché i prigionieri si opponevano alla propaganda comunista'.
Avv. Taddei: 'Le consta che ci sia stato qualche caso di spionaggio a Susdal?'.
Zacchi: 'Molti erano quelli sospetti di spionaggio ma in genere tutti mantenevano l'incognito. Qualcuno però, come un certo Mario Pugnetti di Mestre, confermò apertamente di essere stato incaricato dal commissario del campo di riferire i discorsi che i compagni di baracca facevano quando si trovavano insieme. Costui si faceva chiamare Napir Suratovo e si spacciava per indiano e per ufficiale. Invece era un caporale'.
Avv. Taddei: 'Questo Pugnetti era iscritto al gruppo antifascista?'.
Zacchi: 'Sì'.
Avv. Taddei: 'Lei sa se i commissari politici erano considerati alla stregua di funzionari sovietici?'.
Zacchi: 'Ce lo disse ufficialmente il comandante russo del campo, il colonnello Krastin. 'I commissari politici italiani - disse esattamente - sono dei funzionari sovietici e pertanto si deve loro obbedienza'.
Avv. Sotgiu: 'È vero che quando gli fu proposto di sottoscrivere un messaggio di plauso al Governo di Parri, lei si rifiutò e anzi per protesta si strappò le mostrine d’alpino?'.
Zacchi: 'Fandonie! Non ho idea di chi abbia messo in giro una menzogna del genere. Io porto le mostrine d’alpino onoratamente dal 1915. E non mi sono mai sognato di togliermele!'.
Avv. Taddei: 'Dato che lei era l'ufficiale più elevato in grado cosa può dirci degli attuali imputati che si trovavano nello stesso campo con lei?'.
Zacchi: 'Erano ufficiali molto retti e di elevati sentimenti. Ho conosciuto molto bene gli attuali imputati nel periodo della prigionia'.
Con il ten. Franco Bellofiore è poi cominciala la sfilata degli ultimi cinque testimoni d'accusa. Egli ha affermato che a Tamboff la razione viveri era abbondante, ma che i rumeni che dominavano nelle cucine facevano 'camorra' e perciò il più delle volte il rancio arrivava dimezzato. I fuorusciti si comportarono bene con i prigionieri; i trasferimenti avvenivano in treno; coloro che lavoravano venivano compensati con supplementi viveri.
Avv. Taddei: 'Lei ricorda di aver firmato un appello con il quale si invitavano i soldati a ribellarsi agli ufficiali?'.
Bellofiore: 'Non mi sembra'.
È stato poi chiesto al signor Bellofiore quanti furono i prigionieri che morirono durante la prigionia.
Bellofiore: 'Ma io non facevo mica le statistiche...'.
La deposizione, che nulla di nuovo apporta ai già numerosi clementi di giudizio, sarebbe esaurita. Prima però che il teste venga congedato, è richiamato sulla pedana il ten. Mangone il quale su esplicita domanda della difesa dichiara che il Bellofiore era sospettato di denunciare ai sovietici coloro che preferivano non assistere alle conferenze politiche tenute dagli emigrati italiani. Ma si trattava soltanto di sospetti, seppure gravi. Forse per questo il Bellofiore non ha creduto opportuno reagire e l'udienza si è chiusa nella calma più assoluta. Il vecchio adagio ammoniste: chi tace, conferma.
Dal 2011 camminiamo in Russia e ci regaliamo emozioni
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Danilo Dolcini - Phone 349.6472823 - Email danilo.dolcini@gmail.com - FB Un italiano in Russia
martedì 6 luglio 2021
Palù, la Bigia e tutti gli altri, parte 2
Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".
Palù, la Bigia e tutti gli altri... seconda parte.
Ha nostalgia delle sue montagne, da quelle dell'Argentina dove ha formato le zampe, alle Alpi, dove l'aria era pura, i boschi di abete odoravano di resina, l'erba era fragrante, deliziosa da masticare, fresca. Da quanto tempo non gusta più erba fresca? Ne sente la voglia ma il suo amico conducente non ne ha trovata per lui ed egli rumina il fieno, sempre pieno, non sempre fresco, spesso bagnato, integrato dall'Energon che gli piace, ma l'erba fresca è tutta un'altra cosa! Poi è venuta la neve, e continua a nevicare, il cielo è plumbeo, il vento solleva turbini di fiocchi cristallini che lo pungono sulla pelle, sugli occhi, gli si appiccicano al pelame nero e gli danno brividi di freddo. Ma si deve andare, andare sempre, con la pioggia, col vento, con la neve e con la tormenta, perché il suo amico conducente va e lui, mulo degli alpini, deve seguirlo, docile. Se il suo conducente, che è un uomo, resiste a tutto questo travaglio, può ben resistere un mulo della sua taglia. Ma sono gli avvenimenti degli ultimi giorni che lo tengono in apprensione. I muli sono tutti allineati in scuderia, ma gli uomini, tanti uomini, sono andati via. Eppure non ha sentito il suono della tromba con le note dei congedanti. Anche il conducente della Bigia, che gli è vicina, è andato via e Scotto è triste, non canta più; la sera i conducenti non si radunano nel centro della scuderia, in cerchio, al calduccio della stalla, per cantare le loro canzoni in coro, come facevano fino a poche sere prima.
E Palù prova un po' di gelosia verso la Bigia. Prima il suo conducente era tutto per lui, tutte le attenzioni erano rivolte a lui. Non che lo trascuri, perché ogni mattina gli fa "governo", lustra il suo pelo, dà il grasso agli zoccoli, gli prepara la lettiera, gli dà il fieno e l'Energon. Ma poi si dedica anche alla Bigia, anche a lei fa governo, le lustre gli zoccoli, cosa che l'altro conducente non faceva quasi mai, la fa mangiare e, fatto che lo infastidisce, in passato le zollette di zucchero erano tutte per lui, mentre adesso, se Scotto ha quattro zollette, due le dà a lui e due alla Bigia. Quando va a fare la spesa e racimola qualche carota o dell'insalata nella cucina dell'ospedale, prima la dava tutta a lui, adesso ne mette un po' sulla carretta e la tiene per la Bigia, quando torna in scuderia.
Adesso non lo attaccano più alla carretta, c'è un nuovo mezzo, strano e mai visto prima, la slitta. Non gli viene più posto il basto sulla schiena ma un collare dal quale partono le tirelle che vengono attaccate al timone della slitta. Questa è meno pesante e ingombrante della carretta, è più facile da tirare perché scivola sulla neve e non fa il rumore che facevano le ruote della carretta sulla acciottolato delle vie di Rossosch. Gli piace, questo sistema di traino che lo lascia più libero nei movimenti perché non più costretto fra le stanghe; e poi quando la neve è farinosa oppure solida sulla strada, può trottare, invece di camminare. Il conducente siede sulla slitta, lo governa con le lunghe redini e ha imparato ad obbedire a quel comando, tanto diverso dal continuo tirare della briglia corta, infilata nel polso del conducente, che lo obbligava ad un passo lento, continuo, ma mai a trottare.
Decisamente le cose sono molto cambiate, colpa di quell'ambiente, del paesaggio, della neve e del vento di questa terra tanto diversa da tutte le altre dove è stato. Non che Palù sappia il nome di quelle terre, ma le rammenta tutte per alcuni particolari: la Pampa argentina, i serpenti, le fresche acque delle Ande, il primo incontro con il treno, che aveva scambiato per un serpentone nero e giallo; la calura feroce dell'Africa, le lunghe marce sotto un sole cocente, con una perenne sete che gli bruciava la gola e poteva dissetarsi solo in rare pozzanghere gialle, che sapevano di terra, ma che era meglio di niente. E poi quella tremenda frustata sulla coscia sinistra, che lo aveva atterrato dandogli un forte dolore, che anche ora, ogni tanto, gli fa fremere la pelle al solo pensarci.
Rivede le corvée in quell'altra terra che egli non sa come si chiama, ma è l'Albania, la salita su per le mulattiere viscide di fango e pioggia e rivede anche i suoi compagni muli nel burrone. E quel giorno che il suo amico conducente è scivolato rimanendo attaccato alla briglia, e lo guardava con occhi dilatati dallo spavento e diceva "tira Palù, va in drè" ed egli, con un tremendo mal alla bocca perché tutto il peso del conducente era attaccato al suo morso, punta le zampe anteriori per non scivolare nel fango, fino a trovare un punto solido contro una roccia e poi facendo forza sui garretti posteriori alza la testa, e il male che diventa sempre più lancinante, ma sa che deve salvare il suo amico e tira, tira fino a trascinarlo di nuovo sulla mulattiera.
Nelle lunghe ore, legato alla mangiatoia, mentre rumina il fieno un po' umido, nella sua testa tutti i ricordi affiorano e popolano i suoi sogni. Perché anche i muli sognano, non importa quello che dicono gli uomini. Essi hanno un'intelligenza che gli uomini vedono solo nel passo deciso e sicuro, nella forza che mettono per superare un ostacolo o evitare un pericolo; ma l'intelligenza del mulo è un'altra cosa ed è fatta di affetto per l'amico conducente, non perché lo fa mangiare e lo governa tenendolo pulito e col pelo lucido, bensì perché sa che lui e il conducente sono una cosa sola, accoppiata, ma con gli stessi intenti e con la stessa volontà. Sarà amico per sempre del suo conducente, non si lasceranno più, qualunque cosa accada, e questo è segno di intelligenza. È anche spirito di solidarietà, ma questa è una parola difficile che di certo il mulo non conosce, ma se il suo amico si troverà in pericolo lo aiuterà, fino a morire se necessario.
Palù tira gagliardo i quintali della sua slitta; è abituato ai grossi carichi della carretta è quel traino che scivola sulla piana ghiacciata gli suona più dolce del cigolio e dello sferragliare delle grosse ruote della carretta sulla acciottolato delle strade di montagna. Sente nostalgia di un bel prato verde; da quanto tempo non ha più gustato il sapore dell'erba fresca. Sempre fino ed Energon, buoni anche quelli, ma l'erba di un bel prato di montagna è sempre un'altra cosa.
"Palù, si torna a casa", ma Scotto non ha il tono allegro di chi sà di dirigere i propri passi verso la patria lontana. Cammina tenendo la briglia del suo mulo che, paziente e docile come sempre, pesta neve ghiacciata, sferzato dal vento gelido che gli scompigliava il pelame sulla fronte, gli congela la neve sulle ciglia, sulle froge; ma a tutto il mulo è abituato e osserva il suo conducente, avvolto nel pesante pastrano imbottito, con un colbacco in testa, sul quale, chissà come, è riuscita a cucire l'aquila del cappello alpino; calza pesanti guanti impermeabili e pesta la neve con i suoi valenki. Il quadrupede si rende conto che qualcosa è cambiato, non è la solita aria, lo sente; non marciano più verso il nord-est, ma verso il tramonto del sole, la pista è ingombra non più di carri armati sferraglianti e anche gli autocarri militari che transitano sono pochi, tutti diretti a nord-ovest.
Palù, la Bigia e tutti gli altri... seconda parte.
Ha nostalgia delle sue montagne, da quelle dell'Argentina dove ha formato le zampe, alle Alpi, dove l'aria era pura, i boschi di abete odoravano di resina, l'erba era fragrante, deliziosa da masticare, fresca. Da quanto tempo non gusta più erba fresca? Ne sente la voglia ma il suo amico conducente non ne ha trovata per lui ed egli rumina il fieno, sempre pieno, non sempre fresco, spesso bagnato, integrato dall'Energon che gli piace, ma l'erba fresca è tutta un'altra cosa! Poi è venuta la neve, e continua a nevicare, il cielo è plumbeo, il vento solleva turbini di fiocchi cristallini che lo pungono sulla pelle, sugli occhi, gli si appiccicano al pelame nero e gli danno brividi di freddo. Ma si deve andare, andare sempre, con la pioggia, col vento, con la neve e con la tormenta, perché il suo amico conducente va e lui, mulo degli alpini, deve seguirlo, docile. Se il suo conducente, che è un uomo, resiste a tutto questo travaglio, può ben resistere un mulo della sua taglia. Ma sono gli avvenimenti degli ultimi giorni che lo tengono in apprensione. I muli sono tutti allineati in scuderia, ma gli uomini, tanti uomini, sono andati via. Eppure non ha sentito il suono della tromba con le note dei congedanti. Anche il conducente della Bigia, che gli è vicina, è andato via e Scotto è triste, non canta più; la sera i conducenti non si radunano nel centro della scuderia, in cerchio, al calduccio della stalla, per cantare le loro canzoni in coro, come facevano fino a poche sere prima.
E Palù prova un po' di gelosia verso la Bigia. Prima il suo conducente era tutto per lui, tutte le attenzioni erano rivolte a lui. Non che lo trascuri, perché ogni mattina gli fa "governo", lustra il suo pelo, dà il grasso agli zoccoli, gli prepara la lettiera, gli dà il fieno e l'Energon. Ma poi si dedica anche alla Bigia, anche a lei fa governo, le lustre gli zoccoli, cosa che l'altro conducente non faceva quasi mai, la fa mangiare e, fatto che lo infastidisce, in passato le zollette di zucchero erano tutte per lui, mentre adesso, se Scotto ha quattro zollette, due le dà a lui e due alla Bigia. Quando va a fare la spesa e racimola qualche carota o dell'insalata nella cucina dell'ospedale, prima la dava tutta a lui, adesso ne mette un po' sulla carretta e la tiene per la Bigia, quando torna in scuderia.
Adesso non lo attaccano più alla carretta, c'è un nuovo mezzo, strano e mai visto prima, la slitta. Non gli viene più posto il basto sulla schiena ma un collare dal quale partono le tirelle che vengono attaccate al timone della slitta. Questa è meno pesante e ingombrante della carretta, è più facile da tirare perché scivola sulla neve e non fa il rumore che facevano le ruote della carretta sulla acciottolato delle vie di Rossosch. Gli piace, questo sistema di traino che lo lascia più libero nei movimenti perché non più costretto fra le stanghe; e poi quando la neve è farinosa oppure solida sulla strada, può trottare, invece di camminare. Il conducente siede sulla slitta, lo governa con le lunghe redini e ha imparato ad obbedire a quel comando, tanto diverso dal continuo tirare della briglia corta, infilata nel polso del conducente, che lo obbligava ad un passo lento, continuo, ma mai a trottare.
Decisamente le cose sono molto cambiate, colpa di quell'ambiente, del paesaggio, della neve e del vento di questa terra tanto diversa da tutte le altre dove è stato. Non che Palù sappia il nome di quelle terre, ma le rammenta tutte per alcuni particolari: la Pampa argentina, i serpenti, le fresche acque delle Ande, il primo incontro con il treno, che aveva scambiato per un serpentone nero e giallo; la calura feroce dell'Africa, le lunghe marce sotto un sole cocente, con una perenne sete che gli bruciava la gola e poteva dissetarsi solo in rare pozzanghere gialle, che sapevano di terra, ma che era meglio di niente. E poi quella tremenda frustata sulla coscia sinistra, che lo aveva atterrato dandogli un forte dolore, che anche ora, ogni tanto, gli fa fremere la pelle al solo pensarci.
Rivede le corvée in quell'altra terra che egli non sa come si chiama, ma è l'Albania, la salita su per le mulattiere viscide di fango e pioggia e rivede anche i suoi compagni muli nel burrone. E quel giorno che il suo amico conducente è scivolato rimanendo attaccato alla briglia, e lo guardava con occhi dilatati dallo spavento e diceva "tira Palù, va in drè" ed egli, con un tremendo mal alla bocca perché tutto il peso del conducente era attaccato al suo morso, punta le zampe anteriori per non scivolare nel fango, fino a trovare un punto solido contro una roccia e poi facendo forza sui garretti posteriori alza la testa, e il male che diventa sempre più lancinante, ma sa che deve salvare il suo amico e tira, tira fino a trascinarlo di nuovo sulla mulattiera.
Nelle lunghe ore, legato alla mangiatoia, mentre rumina il fieno un po' umido, nella sua testa tutti i ricordi affiorano e popolano i suoi sogni. Perché anche i muli sognano, non importa quello che dicono gli uomini. Essi hanno un'intelligenza che gli uomini vedono solo nel passo deciso e sicuro, nella forza che mettono per superare un ostacolo o evitare un pericolo; ma l'intelligenza del mulo è un'altra cosa ed è fatta di affetto per l'amico conducente, non perché lo fa mangiare e lo governa tenendolo pulito e col pelo lucido, bensì perché sa che lui e il conducente sono una cosa sola, accoppiata, ma con gli stessi intenti e con la stessa volontà. Sarà amico per sempre del suo conducente, non si lasceranno più, qualunque cosa accada, e questo è segno di intelligenza. È anche spirito di solidarietà, ma questa è una parola difficile che di certo il mulo non conosce, ma se il suo amico si troverà in pericolo lo aiuterà, fino a morire se necessario.
Palù tira gagliardo i quintali della sua slitta; è abituato ai grossi carichi della carretta è quel traino che scivola sulla piana ghiacciata gli suona più dolce del cigolio e dello sferragliare delle grosse ruote della carretta sulla acciottolato delle strade di montagna. Sente nostalgia di un bel prato verde; da quanto tempo non ha più gustato il sapore dell'erba fresca. Sempre fino ed Energon, buoni anche quelli, ma l'erba di un bel prato di montagna è sempre un'altra cosa.
"Palù, si torna a casa", ma Scotto non ha il tono allegro di chi sà di dirigere i propri passi verso la patria lontana. Cammina tenendo la briglia del suo mulo che, paziente e docile come sempre, pesta neve ghiacciata, sferzato dal vento gelido che gli scompigliava il pelame sulla fronte, gli congela la neve sulle ciglia, sulle froge; ma a tutto il mulo è abituato e osserva il suo conducente, avvolto nel pesante pastrano imbottito, con un colbacco in testa, sul quale, chissà come, è riuscita a cucire l'aquila del cappello alpino; calza pesanti guanti impermeabili e pesta la neve con i suoi valenki. Il quadrupede si rende conto che qualcosa è cambiato, non è la solita aria, lo sente; non marciano più verso il nord-est, ma verso il tramonto del sole, la pista è ingombra non più di carri armati sferraglianti e anche gli autocarri militari che transitano sono pochi, tutti diretti a nord-ovest.
Racconti di Russia, la mitragliatrice
Un'altra testimonianza tratta dal libro "Nikolajewka: c'ero anche io" a cura di Giulio Bedeschi. Questa volta per ricordare gli atti di coraggio di cui furono capaci i soldati italiani, che nonostante la tragicità di quegli avvenimenti, furono disposti a sacrificarsi pur di salvare i compagni feriti e in ritirata.
Alpino Albino Porro, 114a Compagnia, Battaglione Tolmezzo, 8° Reggimento Alpini.
La sera del 21 gennaio 1943 la colonna di cui anch'io facevo parte sostava nel paese di Novo Georgiewka, io e altri pochi alpini occupammo un'isba all'imbocco del paese lato nord; verso le prime ore del mattino il paese venne attaccato da reparti russi, di soprassalto ci portammo fuori per accertarci di quanto succedeva; infatti a circa duecento metri notammo alcuni camion con soldati russi in parte a bordo degli automezzi, in parte a terra che avanzando lentamente e con prudenza alternavano raffiche su di noi; un alpino (conosciuto in quel episodio e non più rivisto, ma che spero fortemente si trovi anche lui vivente) ancora in possesso di un fucile mitragliatore mi grida "Le munizioni! prendi le munizioni!"; saltai nell'isba e mi impossessai di una cassa fortunatamente piena di caricatori, ma poiché si doveva sparare su un costone sopraelevato che circondava il paese, e cioè verso l'alto il bipede non serviva pur abbassandosi verso terra; a questo punto lo gridai al mio compagno "Appoggia l'arma su una mia spalla e spara!".
Infatti fu così, avvolsi la canna con una coperta per poterla tenere ferma e abbassai la testa verso terra... Resistemmo in quella condizione credo una mezz'ora circa, nel frattempo un'altra mitragliatrice cantava all'interno di un'isba; erano anche loro alpini che sparavano nella nostra direzione.
La colonna si era messa in marcia, finite le munizioni ci guardammo in faccia e con un veloce sguardo attorno alle isbe, si capì che eravamo rimasti soli, non potrò mai dimenticare la corsa tra un'isba e l'altra per raggiungere la colonna ormai lontana. Cammin facendo in coda alla colonna sfinito dalla fatica, ma con grande contentezza in cuore pensavo, che col nostro sacrificio anche a rischio della propria vita, avevamo dato la possibilità a tanti nostri compagni feriti e congelati di sopravvivere per quella giornata.
RICCARDO
Alpino Albino Porro, 114a Compagnia, Battaglione Tolmezzo, 8° Reggimento Alpini.
La sera del 21 gennaio 1943 la colonna di cui anch'io facevo parte sostava nel paese di Novo Georgiewka, io e altri pochi alpini occupammo un'isba all'imbocco del paese lato nord; verso le prime ore del mattino il paese venne attaccato da reparti russi, di soprassalto ci portammo fuori per accertarci di quanto succedeva; infatti a circa duecento metri notammo alcuni camion con soldati russi in parte a bordo degli automezzi, in parte a terra che avanzando lentamente e con prudenza alternavano raffiche su di noi; un alpino (conosciuto in quel episodio e non più rivisto, ma che spero fortemente si trovi anche lui vivente) ancora in possesso di un fucile mitragliatore mi grida "Le munizioni! prendi le munizioni!"; saltai nell'isba e mi impossessai di una cassa fortunatamente piena di caricatori, ma poiché si doveva sparare su un costone sopraelevato che circondava il paese, e cioè verso l'alto il bipede non serviva pur abbassandosi verso terra; a questo punto lo gridai al mio compagno "Appoggia l'arma su una mia spalla e spara!".
Infatti fu così, avvolsi la canna con una coperta per poterla tenere ferma e abbassai la testa verso terra... Resistemmo in quella condizione credo una mezz'ora circa, nel frattempo un'altra mitragliatrice cantava all'interno di un'isba; erano anche loro alpini che sparavano nella nostra direzione.
La colonna si era messa in marcia, finite le munizioni ci guardammo in faccia e con un veloce sguardo attorno alle isbe, si capì che eravamo rimasti soli, non potrò mai dimenticare la corsa tra un'isba e l'altra per raggiungere la colonna ormai lontana. Cammin facendo in coda alla colonna sfinito dalla fatica, ma con grande contentezza in cuore pensavo, che col nostro sacrificio anche a rischio della propria vita, avevamo dato la possibilità a tanti nostri compagni feriti e congelati di sopravvivere per quella giornata.
RICCARDO
martedì 29 giugno 2021
Ricompense - 8a Armata - 109° Btg. Mitraglieri
Ricompense al Valor Militare attribuite per le operazioni sul Fronte Russo, a cura di Carlo Vicentini, fonte UNIRR.
MOVM - Medaglia d'Oro al Valor Militare, MAVM - Medaglia d'Argento al Valor Militare, MBVM - Medaglia di Bronzo al Valor Militare, MOVM - Medaglia d'Oro al Valor Militare, CGVM - Croce di Guerra al Valor Militare.
8a ARMATA - 109° BATTAGLIONE MITRAGLIERI.
MAVM Tenente BIELLI Erminio
MAVM Tenente SABBATUCCI Vincenzo
MAVM caporale SOLAZZO Lorenzo
MAVM soldato NOCERA Antonio, alla memoria
MAVM soldato OLIVERI Nicolò
MAVM soldato VISENTINI Zelindo
MBVM Capitano LANZOLLA Bartolomeo, alla memoria
MBVM Tenente ANATO' Vincenzo
MBVM Tenente CALVARESI Graziano
MBVM Tenente CORBI Domenico
MBVM Tenente TACCHINI Ferruccio
MBVM sergente FANTAZZINI Raffaele
MBVM sergente MENUNNI Giuseppe
MBVM caporale MISCIAGNA Marino
MBVM soldato ORSINI Cosimo
MBVM soldato RINALDI Giuseppe
CGVM Tenente ESPOSITO Francesco
CGVM sergente RUBINO Elio
CGVM sergente VESTIDELLI Aurelio
MOVM - Medaglia d'Oro al Valor Militare, MAVM - Medaglia d'Argento al Valor Militare, MBVM - Medaglia di Bronzo al Valor Militare, MOVM - Medaglia d'Oro al Valor Militare, CGVM - Croce di Guerra al Valor Militare.
8a ARMATA - 109° BATTAGLIONE MITRAGLIERI.
MAVM Tenente BIELLI Erminio
MAVM Tenente SABBATUCCI Vincenzo
MAVM caporale SOLAZZO Lorenzo
MAVM soldato NOCERA Antonio, alla memoria
MAVM soldato OLIVERI Nicolò
MAVM soldato VISENTINI Zelindo
MBVM Capitano LANZOLLA Bartolomeo, alla memoria
MBVM Tenente ANATO' Vincenzo
MBVM Tenente CALVARESI Graziano
MBVM Tenente CORBI Domenico
MBVM Tenente TACCHINI Ferruccio
MBVM sergente FANTAZZINI Raffaele
MBVM sergente MENUNNI Giuseppe
MBVM caporale MISCIAGNA Marino
MBVM soldato ORSINI Cosimo
MBVM soldato RINALDI Giuseppe
CGVM Tenente ESPOSITO Francesco
CGVM sergente RUBINO Elio
CGVM sergente VESTIDELLI Aurelio
Palù, la Bigia e tutti gli altri, parte 1
Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".
Amo gli animali, più degli esseri umani, e quando ho letto la storia di Palù i giorni scorsi, ammetto, ho "sofferto" tanto quanto leggo le storie dei nostri soldati nella Campagna di Russia.
Tempo fa ho parlato prima di Albino, cavallo del Savoia Cavalleria, e poi di Buck, pastore tedesco che seguì gli alpini dall'Italia e fu anche lui uno dei tanti dispersi... di Palù avevo letto qua e là qualche notizia, ma mai tutta l'intera storia che potete trovare sul bel libro " Muli in guerra - Storia di Palù e del suo alpino 1940-1943" di Gino Ascani e Francesco Fatutta.
Voglio condividere alcuni estratti del libro per rendere omaggio anche a questi soldati a quattro zampe che tanto diedero su quel fronte lontano.
Ma chi era Palù? Per l'anagrafe alpina, il suo vero nome era Palun, così era scritto nel foglio matricolare del quadrupede, schedato secondo le regole, come ogni uomo sotto le armi. Era un bestione grande, di pelame nero, con due grossi zoccoli e solide zampe. Nato in Argentina da un asino della razza Poitu, alto, possente e nero, e da una bella giumenta dal pelame color Isabella, con occhi lucenti, vividi di intelligenza, è un grande senso dell'orientamento fra i pericoli della Pampa, aveva ereditato dal fattore la forza e la statura (era 1,75 al garrese, il punto di attaccatura del collo alla schiena) e dalla fattrice gli occhi vivaci, con una luce umana penetrante; si aveva l'impressione che con quegli occhi sapesse leggere i pensieri degli uomini e del suo conducente Davide in particolare [...] Poi era stato caricato su una nave ed era sbarcato in Italia in una fredda mattina d'inverno, dopo una lunga traversata che lo aveva terrorizzato, fra il rumore degli zoccoli di decine di quadrupedi [...] Dopo poco tempo era diventato "artigliere da montagna", aveva subito le rituali visite di controllo che lo avevano dichiarato "abile" e poi l'addomesticamento, la ferratura degli zoccoli, il basto sulla schiena e il carico di due quintali sul basto; e camminare, camminare, ancora camminare, su per le mulattiere delle Alpi Liguri. Notti passate all'addiaccio, legato al filare con gli zoccoli immersi nella neve, e poi a pestare neve e ghiaccio ancora sulle mulattiere, sempre con la schiena gravata di carichi pesanti, ingombranti che rischiavano spesso di fargli perdere l'equilibrio.
Scotto, felice per essere tornato a governare il suo mulo, lo aveva preso per la briglia ed era disceso per la maledetta mulattiera fangosa. Era tanto allegro che, in un punto pericoloso perché stretto e con uno spesso strato di fango nel quale lo scarpone affondava al completo, si era voltato verso il muro per osservare che non urtasse col carico contro la parete della montagna ed era scivolato giù, verso il burrone, rimanendo attaccato alla testa del mulo solo per mezzo della briglia che aveva stretto freneticamente fra le mani, mentre lo zaino e il fucile lo spingevano in basso. Il mulo aveva affondato le zampe anteriori nel fango, fino a trovare una base solida dove si era puntato e, malgrado il dolore lancinante che quasi cento chili di uomo e armi gli procuravano al morso, stretto fra i denti, tenne duro e retrocesse lentamente, alzando la testa e sollevando il povero conducente, fino a portarlo su, fuori dal burrone. Gli aveva salvato la vita e lo osservava, mentre quello tremava in tutte le membra per lo spavento. Scotto gli accarezzò il muso: "Grazie Palù!". Questo fece cenno di sì con la grande testa e ripresero insieme la discesa.
Fu in quel momento che Scotto rammento la sua scivolata verso il burrone e lo strappo che, tenendo stretta la briglia, aveva impresso alla testa dell'animale e, quindi, alla sua bocca che stringeva il morso di ferro. Palù non aveva mollato la presa, aveva stretto i denti e, sopportando il grande dolore di quella trazione, lo aveva salvato; ma il dente si era rotto e, a distanza di oltre un mese e mezzo, l'infezione causata da quella ferita aveva messo fuori uso definitivamente quel grosso molare. Mentre il mulo dormiva, sotto l'effetto dell'iniezione, il suo amico conducente continuava ad accarezzare la grande testa, con un senso di infinita tenerezza e di affetto. Ma il giorno seguente il mulo aveva superato la crisi, la sua bocca non sanguinava, la gengiva andava rimarginandosi e, per prudenza, il conducente non gli mise il morso ma usò solo la cavezza e le cinghie della testa per condurlo nella marcia che non poteva subire soste o rallentamenti.
Quel mattino del 28 aprile Scotto entrò in scuderia vestito a nuovo, dal cappello alle scarpe, ancora odoroso di naftalina. Il mulo lo squadrò da capo a piedi e lo rivide com'era il primo giorno del loro incontro, ma meno imbranato di allora. Pensò che forse quel suo caro compagno andava in congedo e lo avrebbe lasciato, come tanti altri conducenti prima di lui; ma Davide lo tranquillizzo, gli accarezzo la grossa testa, liscio il pelo della groppa e gli disse "Caro bestione! Io vado in licenza, a casa, ma torno fra 15 giorni, tu fai il bravo neh!". E il mulo rispose che aveva capito, facendo segno di sì con la testa, poi gli aveva leccato le mani e il conducente, come ultimo ricordo, gli aveva dato sei zollette di zucchero, che aveva preso allo spaccio, prima di andare a salutarlo. Poi l'alpino se n'era andato via e il suo mulo lo aveva osservato girando la testa verso la porta, alzando il muso verso la finestra per vederlo ancora ma non era riuscito nel suo intento perché la finestra dava sulla valle e non sul cortile della caserma.
La sera, quando la compagnia si accampa, il conducente stacca il mulo dal carro e, malgrado sia stanco e assetato, come prima cosa ripulisce il pelame di Palù dal grande strato di polvere che lo ricopre, poi lo fa bere e gli lega al collo il sacco col mangime che il muro divora. Poi pensa a sè stesso, toglie la polvere dalla camicia di flanella, immerge la testa nel fontanile vicino al quale si sono accampati e ritrova l'energia consumata sulla pista polverosa.
Ma Palù, come sta vivendo quella grande avventura? Abbiamo seguito da vicino le vicende dei conducenti, i loro incontri con la popolazione russa, e loro esperienze, ma qual è l'impressione che, da tutto quel trambusto, trae il povero mulo, attore e spettatore ignaro di tutti quegli avvenimenti? Nella sua testa è ancora presente, sebbene un po' confuso, il ricordo di quel lungo viaggio, chiuso nel carro ferroviario, nel gran caldo dell'estate, e discorsi di gente che parlava una diversa lingua, anzi diverse altre lingue; poi rivede le piste polverose che lo soffocavano, mentre tirava la carretta; le carogne di animali sul ciglio della strada, popolate di mosche ed emananti un odore tremendo di morte; le stesse piste in autunno, con la pioggia continua sul carico e il basto, lo faceva scivolare obbligandolo a prestare grande attenzione dove posava gli zoccoli per non finire nel fango. Rivede La notte dei grandi fuochi, quando le altre carrette bruciavano e gli uomini sparavano, e lui li sulla pista, immobile, con la paura che gli serpeggiava fra pelle e muscoli in attesa di qualche fuoco che lo avrebbe divorato, come gli altri muli colpiti dalle bottiglie incendiarie. La notte era illuminata da bagliori rossastri che davano risalto alle gocce di pioggia che cadeva senza intervalli, senza curarsi di quel combattimento, senza riguardo per gli uomini e per le povere bestie che con loro dividevano la sorte. Ha visto il suo amico conducente correre avanti imbracciando il fucile, con la baionetta che luccicava rossastra, come di sangue, e affrontare un altro uomo. E pensa a quello sterminato territorio, tutto piano, con boschi di betulle, campi di girasole dorati, senza montagne.
Amo gli animali, più degli esseri umani, e quando ho letto la storia di Palù i giorni scorsi, ammetto, ho "sofferto" tanto quanto leggo le storie dei nostri soldati nella Campagna di Russia.
Tempo fa ho parlato prima di Albino, cavallo del Savoia Cavalleria, e poi di Buck, pastore tedesco che seguì gli alpini dall'Italia e fu anche lui uno dei tanti dispersi... di Palù avevo letto qua e là qualche notizia, ma mai tutta l'intera storia che potete trovare sul bel libro " Muli in guerra - Storia di Palù e del suo alpino 1940-1943" di Gino Ascani e Francesco Fatutta.
Voglio condividere alcuni estratti del libro per rendere omaggio anche a questi soldati a quattro zampe che tanto diedero su quel fronte lontano.
Ma chi era Palù? Per l'anagrafe alpina, il suo vero nome era Palun, così era scritto nel foglio matricolare del quadrupede, schedato secondo le regole, come ogni uomo sotto le armi. Era un bestione grande, di pelame nero, con due grossi zoccoli e solide zampe. Nato in Argentina da un asino della razza Poitu, alto, possente e nero, e da una bella giumenta dal pelame color Isabella, con occhi lucenti, vividi di intelligenza, è un grande senso dell'orientamento fra i pericoli della Pampa, aveva ereditato dal fattore la forza e la statura (era 1,75 al garrese, il punto di attaccatura del collo alla schiena) e dalla fattrice gli occhi vivaci, con una luce umana penetrante; si aveva l'impressione che con quegli occhi sapesse leggere i pensieri degli uomini e del suo conducente Davide in particolare [...] Poi era stato caricato su una nave ed era sbarcato in Italia in una fredda mattina d'inverno, dopo una lunga traversata che lo aveva terrorizzato, fra il rumore degli zoccoli di decine di quadrupedi [...] Dopo poco tempo era diventato "artigliere da montagna", aveva subito le rituali visite di controllo che lo avevano dichiarato "abile" e poi l'addomesticamento, la ferratura degli zoccoli, il basto sulla schiena e il carico di due quintali sul basto; e camminare, camminare, ancora camminare, su per le mulattiere delle Alpi Liguri. Notti passate all'addiaccio, legato al filare con gli zoccoli immersi nella neve, e poi a pestare neve e ghiaccio ancora sulle mulattiere, sempre con la schiena gravata di carichi pesanti, ingombranti che rischiavano spesso di fargli perdere l'equilibrio.
Scotto, felice per essere tornato a governare il suo mulo, lo aveva preso per la briglia ed era disceso per la maledetta mulattiera fangosa. Era tanto allegro che, in un punto pericoloso perché stretto e con uno spesso strato di fango nel quale lo scarpone affondava al completo, si era voltato verso il muro per osservare che non urtasse col carico contro la parete della montagna ed era scivolato giù, verso il burrone, rimanendo attaccato alla testa del mulo solo per mezzo della briglia che aveva stretto freneticamente fra le mani, mentre lo zaino e il fucile lo spingevano in basso. Il mulo aveva affondato le zampe anteriori nel fango, fino a trovare una base solida dove si era puntato e, malgrado il dolore lancinante che quasi cento chili di uomo e armi gli procuravano al morso, stretto fra i denti, tenne duro e retrocesse lentamente, alzando la testa e sollevando il povero conducente, fino a portarlo su, fuori dal burrone. Gli aveva salvato la vita e lo osservava, mentre quello tremava in tutte le membra per lo spavento. Scotto gli accarezzò il muso: "Grazie Palù!". Questo fece cenno di sì con la grande testa e ripresero insieme la discesa.
Fu in quel momento che Scotto rammento la sua scivolata verso il burrone e lo strappo che, tenendo stretta la briglia, aveva impresso alla testa dell'animale e, quindi, alla sua bocca che stringeva il morso di ferro. Palù non aveva mollato la presa, aveva stretto i denti e, sopportando il grande dolore di quella trazione, lo aveva salvato; ma il dente si era rotto e, a distanza di oltre un mese e mezzo, l'infezione causata da quella ferita aveva messo fuori uso definitivamente quel grosso molare. Mentre il mulo dormiva, sotto l'effetto dell'iniezione, il suo amico conducente continuava ad accarezzare la grande testa, con un senso di infinita tenerezza e di affetto. Ma il giorno seguente il mulo aveva superato la crisi, la sua bocca non sanguinava, la gengiva andava rimarginandosi e, per prudenza, il conducente non gli mise il morso ma usò solo la cavezza e le cinghie della testa per condurlo nella marcia che non poteva subire soste o rallentamenti.
Quel mattino del 28 aprile Scotto entrò in scuderia vestito a nuovo, dal cappello alle scarpe, ancora odoroso di naftalina. Il mulo lo squadrò da capo a piedi e lo rivide com'era il primo giorno del loro incontro, ma meno imbranato di allora. Pensò che forse quel suo caro compagno andava in congedo e lo avrebbe lasciato, come tanti altri conducenti prima di lui; ma Davide lo tranquillizzo, gli accarezzo la grossa testa, liscio il pelo della groppa e gli disse "Caro bestione! Io vado in licenza, a casa, ma torno fra 15 giorni, tu fai il bravo neh!". E il mulo rispose che aveva capito, facendo segno di sì con la testa, poi gli aveva leccato le mani e il conducente, come ultimo ricordo, gli aveva dato sei zollette di zucchero, che aveva preso allo spaccio, prima di andare a salutarlo. Poi l'alpino se n'era andato via e il suo mulo lo aveva osservato girando la testa verso la porta, alzando il muso verso la finestra per vederlo ancora ma non era riuscito nel suo intento perché la finestra dava sulla valle e non sul cortile della caserma.
La sera, quando la compagnia si accampa, il conducente stacca il mulo dal carro e, malgrado sia stanco e assetato, come prima cosa ripulisce il pelame di Palù dal grande strato di polvere che lo ricopre, poi lo fa bere e gli lega al collo il sacco col mangime che il muro divora. Poi pensa a sè stesso, toglie la polvere dalla camicia di flanella, immerge la testa nel fontanile vicino al quale si sono accampati e ritrova l'energia consumata sulla pista polverosa.
Ma Palù, come sta vivendo quella grande avventura? Abbiamo seguito da vicino le vicende dei conducenti, i loro incontri con la popolazione russa, e loro esperienze, ma qual è l'impressione che, da tutto quel trambusto, trae il povero mulo, attore e spettatore ignaro di tutti quegli avvenimenti? Nella sua testa è ancora presente, sebbene un po' confuso, il ricordo di quel lungo viaggio, chiuso nel carro ferroviario, nel gran caldo dell'estate, e discorsi di gente che parlava una diversa lingua, anzi diverse altre lingue; poi rivede le piste polverose che lo soffocavano, mentre tirava la carretta; le carogne di animali sul ciglio della strada, popolate di mosche ed emananti un odore tremendo di morte; le stesse piste in autunno, con la pioggia continua sul carico e il basto, lo faceva scivolare obbligandolo a prestare grande attenzione dove posava gli zoccoli per non finire nel fango. Rivede La notte dei grandi fuochi, quando le altre carrette bruciavano e gli uomini sparavano, e lui li sulla pista, immobile, con la paura che gli serpeggiava fra pelle e muscoli in attesa di qualche fuoco che lo avrebbe divorato, come gli altri muli colpiti dalle bottiglie incendiarie. La notte era illuminata da bagliori rossastri che davano risalto alle gocce di pioggia che cadeva senza intervalli, senza curarsi di quel combattimento, senza riguardo per gli uomini e per le povere bestie che con loro dividevano la sorte. Ha visto il suo amico conducente correre avanti imbracciando il fucile, con la baionetta che luccicava rossastra, come di sangue, e affrontare un altro uomo. E pensa a quello sterminato territorio, tutto piano, con boschi di betulle, campi di girasole dorati, senza montagne.
giovedì 24 giugno 2021
Ricordi di viaggio
Ad ogni viaggio mi porto a casa emozioni diverse, a volte già provate, a volte nuove e uniche... l'incontro con una persona anziana che ha "visto" e ti racconta, il trovare l'esatto punto letto in precedenza su un libro e immaginare ad occhi aperti quello che loro hanno visto e vissuto. Altre volte invece mi porto a casa anche qualche cosa di materiale che mi possa sempre ricordare dove sono stato e cosa ho avuto la fortuna di vedere. E poi me li riguardo con il desiderio di tornare ancora.
mercoledì 23 giugno 2021
Rievocazione 2018 a Rossosch, parte 3
Pubblico la terza ed ultima serie di fotografie scattate il 14.01.2018 a Rossosch e dintorni, e segnalatemi dal Signor Pasquale Granata, relative alla rievocazione storico-militare dedicata al "75° anniversario della liberazione di Rossosh dagli invasori nazisti" con la partecipazione del "FORZA ITALIA! Italian reenactors group in Russia". Una manifestazione che ha visto protagonisti russi ed italiani insieme, ieri nemici e oggi amici, nel ricordo di tutti i caduti.
Il processo D'Onofrio, parte 10
Il processo D'Onofrio, decima parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.
LA SEDICESIMA UDIENZA.
15 giugno 1949 - Ancora una volta l'udienza è stata caratterizzata da un grosso incidente. Davvero non peccano di monotonia le udienze di questo processo, movimentate come sono, dai continui battibecchi, tra le parti e i loro difensori, accompagnati dal rumoreggiare in sordina del pubblico sempre numeroso.
Anche l'udienza di oggi non è passata senza che un altro vero e proprio alterco sorgesse fra gli avvocati con intervento dello stesso D'Onofrio e del teste che lo aveva provocato. S'è cominciato con Luigi Brunetti il quale ha raccontato al Tribunale come, ricoverato in un ospedale nella regione di Ivanovo, i russi gli fecero fare il bagno, gli fecero cambiare i vestiti e poi lo sistemarono in un padiglione con riscaldamento, materasso, coperte e lenzuola e ve lo fecero rimanere per sei mesi. La mortalità per il tifo petecchiale, malgrado le cure, superò in quel periodo il trenta per cento dei prigionieri.
Fatta la storia delle sue peregrinazioni nei vari campi, il teste ha voluto rendere grazie ai fuorusciti per l'opera che essi svolsero in favore dei prigionieri italiani. Il Sartori, ad esempio si interessò molto presso il comando sovietico del campo numero 185 perché agli italiani fossero dati quegli incarichi che potessero rendere meno dura la prigionia per tutti. I prigionieri potevano lavorare o no a loro scelta. Quelli che lavoravano, però, avevano un supplemento di viveri di 150 grammi di pane (oltre i normali 600) e altrettanto di zuppa (oltre le tre giornaliere di 600 grammi) e quelli che erano adibiti a lavori pesanti avevano diritto ad un chilo di pane, a tre zuppe di 750 grammi e al secondo piatto.
Il giorno che l'Italia dichiarò la guerra alla Germania fu distribuita anche una razione di pasta asciutta. L’emigrato Sartori diffondeva il settimanale 'L'Alba' attraverso la lettura del quale il teste apprese della mutata situazione in Italia e potè modificare le proprie idee e comprendere meglio la propria situazione.
Avv. Taddei: 'Allora lei si è accorto di essere prigioniero di guerra soltanto dopo aver letto 'L'Alba'...'.
Brunetti: 'Naturalmente frequentai con profitto la scuola di antifascismo nella quale si insegnava fra l'altro filosofia crociana e la storia dell'uomo...'.
Avv. Taddei: 'Sentì mai parlare il teste di Darwin?...'.
Brunetti: 'No, mai... Non conosco questo signore.... Alla fine del corso Sartori ci radunò per dirci che sperava d’aver fatto di noi dei veri antifascisti pronti a lottare per gli interessi del popolo italiano. Il giuramento che si prestava alla fine dei corsi di antifascismo non era affatto obbligatorio (però tutti lo prestavano...)'.
È la volta dì Fidia Gambetti, ex camicia nera, poeta e fascista convinto, ma non gerarca, segretario di redazione del fascista 'Popolo di Romagna', oggi redattore capo de 'L'Unità', edizione milanese.
Gambetti: 'Fui internato nel campo di Tamboff dove ebbi la fortuna di conoscere la signora Torre la quale mi sollevò fisicamente e spiritualmente. Le affidai anche delle cartoline perché le spedisse ai miei in Italia. Furono spedite, ma purtroppo non arrivarono mai a destinazione. La cattura provocò in me una vera crisi di coscienza. Fascista cosi convinto da arruolarmi volontario nei battaglioni di camicie nere allo scoppio della guerra, rinunciai perfino di partecipare ai corsi allievi ufficiali per avere la possibilità di essere inviato immediatamente a combattere in prima linea sul fronte occidentale e poi su quello orientale dove fui catturato. In complesso nei campi di concentramento si stava bene. Vi furono, sì, dei morti ma i prigionieri che arrivavano già malati, preferivano cambiare il pane che veniva loro distribuito con del tabacco e così si produceva un veicolo di infezione'.
Avv. Taddei: 'Già, i nostri soldati preferivano fumare e morire piuttosto che mangiare e vivere...'.
Gambetti: 'Fui contagiato e venni trasferito all'ospedale di Slavgorod dove mi trovai molto bene. Vissi anche nel Campo 58 e li scrissi alcune commedie che furono recitate dagli stessi prigionieri, durante alcuni trattenimenti artistici'.
Avv. Taddei: 'È vero che il teste nel 1936 vinse il premio letterario 'Poeti del tempo di Mussolini'?'.
Gambetti: 'Sì è vero. Scrissi un'ode...'.
Avv. Taddei: 'È vero anche che il teste fu capo dell'ufficio Stampa della federazione fascista di Forlì?'.
Gambetti: 'È falso. Fui soltanto segretario di redazione del 'Popolo di Romagna'.
Le domande della difesa si fanno incalzanti, pressanti, e mano a mano l'atmosfera nell'aula si va riscaldando. Un certo nervosismo serpeggia e si capisce bene che basta un nulla per far scoppiare l'incidente.
Avv. Taddei: 'È vero che il teste, durante la prigionia, pubblicò a puntate, sul settimanale 'L'Alba' il 'Diario di una generazione sbagliata'?'.
Gambetti: 'Questo è vero...'.
Avv. Sotgiu: 'Ma cosa c'entrano queste domande con il processo?'.
Avv. Taddei: 'È interessante, invece, tutto ciò. Ci permette di misurare le oscillazioni del pendolo politico del teste il quale, se non sbaglio, oggi è redattore capo de 'L'Unità' di Milano'.
Gambetti: 'Infatti, lo sono'.
Avv. Taddei: 'Basta così...'.
Avv. Sotgiu: 'No. Non basta affatto. La difesa vuole speculare su questo argomento e il teste deve ora spiegare perché prima era fascista e diventò in seguito comunista'.
Gambetti: 'Ero convinto che il fascismo instaurasse in Italia una nuova giustizia sociale, che il fascismo portasse ad un accorciamento delle distanze, ad un trattamento migliore dei lavoratori, alla fine delle speculazioni. Per questo ero fascista. M'accorsi poi che il fascismo non aveva mantenuto le promesse fatte e allora...'.
P.M.: 'Non ci interessa la sua biografia...'.
Presidente: 'Si limiti ad accennare...'.
Gambetti: 'Ma come posso accennare soltanto se i primi dubbi sboccarono in crisi di coscienza proprio per le angherie che i soldati subivano, tanto più che avevo modo di osservare da vicino quale fosse l'organizzazione sovietica?... Eravamo addirittura obbligati ad indossare la camicia nera durante i combattimenti e il capomanipolo Taddei lo sa perfettamente'.
Avv. Taddei: 'Se il teste torna a chiamarmi capomanipolo io lascio l'aula. Io ho combattuto in grigio verde, buffone!'.
È stato il fulmine che ha fatto scoppiare il temporale.
Gambetti: 'Canaglia!'.
Avv. Taddei: 'Buffone!'.
Avv. Sotgiu: 'È ora di finirla. Qui non si fa che insultare i nostri testimoni. Abbiamo sopportato fino ad ora, ma adesso...'.
Avv. Taddei: 'Sopportate ancora...'.
Il Sen. D'Onofrio che ha seguito, attentissimo, le fasi del violento battibecco, non resiste più e, rosso in viso, scatta in piedi come se volesse slanciarsi contro l'avv. Taddei.
D'Onofrio: 'Lei è un buffone. Buffone!!'.
Avv. Taddei: 'Lei se ne vada e si vergogni...'.
Avv. Paone: '...organizzatore di false testimonianze...'.
Avv. Taddei: 'Caro Paone, quando avrai finito di urlare, se ci riesci, mi farai il piacere di ritirare quello che hai detto'.
Frasi grosse, invettive, accuse personali volano da una parte all'altra dell'aula. Tutti sono in piedi: avvocati, presidente, pubblico ministero, imputati, tutti gridano, tutti sono paonazzi in volto. Vediamo il capitano dei carabinieri, che regola il servizio d'ordine, dare brevi ordini ai suoi uomini i quali si preparano ad intervenire nel caso deprecato che le cose si mettessero al peggio. Ma finalmente un più energico intervento del Presidente pone, fine all'alterco e piano piano tutto ritorna calmo mentre il mormorio del pubblico si va smorzando lentamente, come il rumore del temporale che s’allontana.
P.M.: 'Il Tribunale non ha sentito l’ultima accusa lanciata dall'avv. Paone all'avv. Taddei'.
Avv. Taddei: 'Meglio cosi. Tanto la verità non ha bisogno di essere organizzata'.
Placati gli animi l'udienza riprende con le deposizioni degli ex sottotenenti Luigi Sandirocco e Mario Gonnelli i quali naturalmente riferiscono su circostanze già note, elogiano il comportamento dei fuorusciti, assicurano che il giuramento, nelle scuole antifasciste, che entrambi frequentarono, non era obbligatorio e impegnava soltanto alla fedeltà alla causa del popolo italiano.
LA DICIASSETTESIMA UDIENZA.
17 giugno 1949.
Pugliese: 'Una commissione della Croce Rossa Internazionale venuta a visitare il Campo di Oranki nell’aprile del 1943, fuggì inorridita per le condizioni in cui versavano i prigionieri. Nel lazzaretto di Oranki, 400 ufficiali, erano gettati su letti di legno a due posti (i cosiddetti 'castelli'), senza pagliericcio, senza lenzuola, quasi completamente nudi. C'erano nel gruppo 15 medici italiani, ma date le loro disperate condizioni fisiche non erano in grado di prestare la loro opera di sanitari. Tutti i malati erano assistiti da un solo medico italiano, aiutate da Don Franzoni in qualità di infermiere. Non vi erano reparti separati per le diverse malattie epidemiche cosicché affetti di tifo petecchiale e di difterite, di dissenteria e di tifo esantematico giacevano gli uni accanto agli altri.
E per tutti c'era una sola medicina: una soluzione di permanganato di potassio che veniva spalmata con batuffoli di ovatta sui corpi di coloro che avevano la scabbia e bevuta, invece, da chi aveva la dissenteria o il tifo o un’altra infezione qualunque. La maggior parte dei degenti, poi, soffriva anche per delle piaghe che il continuo e lungo contatto del legno dei tavolacci con la loro magrezza aveva prodotto sulla schiena e specialmente nella regione sacrale. Le condizioni sanitarie e igieniche non migliorarono neppure quando scoppiò l'epidemia di tifo esantematico e l'altra più grave di 'distrofia' (cosi i russi chiamavano una malattia che altra origine non aveva che la fame). La mortalità raggiunse in quel periodo una percentuale spaventosa che toccò punte dell’80 e del 90 per cento.
Conobbi il commissario Fiammenghi dopo la guarigione. Egli usava invitare i prigionieri a manifestare liberamente le loro idee, ma se queste non collimavano con le sue andava su tutte le furie, bestemmiava e minacciava'.
Pugliese: 'Quanto alla corrispondenza, vennero sì distribuite delle cartoline in franchigia per scrivere alla famiglia ma non arrivarono mai a destinazione perché le trovammo strappate in mezzo all'immondizia'.
Circa l'attività del D’Onofrio il Pugliese non ha fatto che riconfermare le deposizioni dei colleghi che lo avevano preceduto nella testimonianza. Prima che il teste venga congedato l'avv. Taddei esibisce la copia del 'Risorgimento Liberale' del 1 aprile 1948 in cui è pubblicata una lettera di D'Onofrio in risposta ad un articolo scritto dal Pugliese. Il teste allora spiega al Tribunale che a sua volta rispose al sen. D'Onofrio per dimostrare quanto false fossero le cose che egli aveva scritto nei suoi riguardi e come nella polemica si inserirono successivamente altri reduci.
All'inizio dell’udienza erano stati sentiti ancora due testi d’accusa: Franco Daniello, ex marinaio, e Cadorna Gardini, geniere. Il Daniello ebbe 'la fortuna' di conoscere il commissario Fiammenghi 'un vero padre', alla scuola di antifascismo. Terminato questo primo corso, il teste fu inviato ad una scuola di perfezionamento nei pressi di Mosca dove conobbe il fuoruscito Bobotti 'un vero amico' il quale lo sgridava perché lui voleva studiare anche la domenica e ciò poteva nuocere alla sua salute.
Il teste ha detto anche di essere stato in un primo tempo prigioniero dei tedeschi che lo catturarono a Lero insieme a tutto il presidio, dopo l'8 settembre 1943, e di esser stato, successivamente, liberato dai russi nel luglio del 1944 a Barissoff.
Avv. Sotgiu: 'Poiché il teste fu prigioniero e dei tedeschi e dei russi può dire da chi ricevette trattamento migliore?'.
Daniello: 'Posso solo dichiarare che, allorché caddi in mano russa, mi sembrò di essere tornato alla vita. Quando dovemmo lasciare i campi per fare ritorno in Patria, molti di noi piangevano'.
Più o meno le stesse cose ha ripetuto il Gardini, chiamato subito dopo. Conobbe il querelante alla scuola di antifascismo e ancora oggi darebbe la vita per D'Onofrio e per tutti gli altri fuorusciti italiani. Prima di rinviare a domani il seguito dell’esame testimoniale con gli ultimi quattro testi a discarico, è stato sentito ancora una volta il cappellano Don Franzoni il quale vuole fare una precisazione circa una cena che ebbe luogo, dopo il rientro dalla prigionia, a casa sua in San Giovanni in Persiceto, e alla quale intervenne anche il commissario Rizzoli.
La circostanza, così come è stata riferita da uno dei testi della l'arte Civile, risulta deformata.
Don Franzoni: 'Non mi consta che il Rizzoli, pur esplicando in Russia mansioni di commissario politico, abbia tramato ai miei danni. Questa mia stessa impressione la ebbero gli ufficiali che parteciparono alla cena, da me offerta. Non fui io, però, ad invitare il Rizzoli, bensì gli ufficiali miei amici. Ed io consentii di buon grado ad averlo con noi. A tavola, mentre si mangiava, invitammo il Rizzoli ad esprimere liberamente il suo pensiero sul trattamento che i russi e i commissari italiani avevano fatto ai nostri prigionieri e gli chiedemmo pure come spiegava l’ecatombe dei nostri compagni e la crudeltà con cui eravamo stati trattati. Il Rizzoli rispose vagamente che i russi a quei tempi avevano da pensare a ben altre cose, che la guerra incalzava, che i medicinali non bastavano neppure ai russi e quindi non potevano davvero darli ai prigionieri.
Qualcuno chiese al Rizzoli un parere personale nei confronti di D'Onofrio, e, lui, dopo un attimo di perplessità, rispose che lo riteneva un uomo intelligente, senza specificare di più. Gli chiedemmo ancora cosa pensasse di Roncato, e Rizzoli rispose che quello era un disgraziato e un delinquente'.
LA SEDICESIMA UDIENZA.
15 giugno 1949 - Ancora una volta l'udienza è stata caratterizzata da un grosso incidente. Davvero non peccano di monotonia le udienze di questo processo, movimentate come sono, dai continui battibecchi, tra le parti e i loro difensori, accompagnati dal rumoreggiare in sordina del pubblico sempre numeroso.
Anche l'udienza di oggi non è passata senza che un altro vero e proprio alterco sorgesse fra gli avvocati con intervento dello stesso D'Onofrio e del teste che lo aveva provocato. S'è cominciato con Luigi Brunetti il quale ha raccontato al Tribunale come, ricoverato in un ospedale nella regione di Ivanovo, i russi gli fecero fare il bagno, gli fecero cambiare i vestiti e poi lo sistemarono in un padiglione con riscaldamento, materasso, coperte e lenzuola e ve lo fecero rimanere per sei mesi. La mortalità per il tifo petecchiale, malgrado le cure, superò in quel periodo il trenta per cento dei prigionieri.
Fatta la storia delle sue peregrinazioni nei vari campi, il teste ha voluto rendere grazie ai fuorusciti per l'opera che essi svolsero in favore dei prigionieri italiani. Il Sartori, ad esempio si interessò molto presso il comando sovietico del campo numero 185 perché agli italiani fossero dati quegli incarichi che potessero rendere meno dura la prigionia per tutti. I prigionieri potevano lavorare o no a loro scelta. Quelli che lavoravano, però, avevano un supplemento di viveri di 150 grammi di pane (oltre i normali 600) e altrettanto di zuppa (oltre le tre giornaliere di 600 grammi) e quelli che erano adibiti a lavori pesanti avevano diritto ad un chilo di pane, a tre zuppe di 750 grammi e al secondo piatto.
Il giorno che l'Italia dichiarò la guerra alla Germania fu distribuita anche una razione di pasta asciutta. L’emigrato Sartori diffondeva il settimanale 'L'Alba' attraverso la lettura del quale il teste apprese della mutata situazione in Italia e potè modificare le proprie idee e comprendere meglio la propria situazione.
Avv. Taddei: 'Allora lei si è accorto di essere prigioniero di guerra soltanto dopo aver letto 'L'Alba'...'.
Brunetti: 'Naturalmente frequentai con profitto la scuola di antifascismo nella quale si insegnava fra l'altro filosofia crociana e la storia dell'uomo...'.
Avv. Taddei: 'Sentì mai parlare il teste di Darwin?...'.
Brunetti: 'No, mai... Non conosco questo signore.... Alla fine del corso Sartori ci radunò per dirci che sperava d’aver fatto di noi dei veri antifascisti pronti a lottare per gli interessi del popolo italiano. Il giuramento che si prestava alla fine dei corsi di antifascismo non era affatto obbligatorio (però tutti lo prestavano...)'.
È la volta dì Fidia Gambetti, ex camicia nera, poeta e fascista convinto, ma non gerarca, segretario di redazione del fascista 'Popolo di Romagna', oggi redattore capo de 'L'Unità', edizione milanese.
Gambetti: 'Fui internato nel campo di Tamboff dove ebbi la fortuna di conoscere la signora Torre la quale mi sollevò fisicamente e spiritualmente. Le affidai anche delle cartoline perché le spedisse ai miei in Italia. Furono spedite, ma purtroppo non arrivarono mai a destinazione. La cattura provocò in me una vera crisi di coscienza. Fascista cosi convinto da arruolarmi volontario nei battaglioni di camicie nere allo scoppio della guerra, rinunciai perfino di partecipare ai corsi allievi ufficiali per avere la possibilità di essere inviato immediatamente a combattere in prima linea sul fronte occidentale e poi su quello orientale dove fui catturato. In complesso nei campi di concentramento si stava bene. Vi furono, sì, dei morti ma i prigionieri che arrivavano già malati, preferivano cambiare il pane che veniva loro distribuito con del tabacco e così si produceva un veicolo di infezione'.
Avv. Taddei: 'Già, i nostri soldati preferivano fumare e morire piuttosto che mangiare e vivere...'.
Gambetti: 'Fui contagiato e venni trasferito all'ospedale di Slavgorod dove mi trovai molto bene. Vissi anche nel Campo 58 e li scrissi alcune commedie che furono recitate dagli stessi prigionieri, durante alcuni trattenimenti artistici'.
Avv. Taddei: 'È vero che il teste nel 1936 vinse il premio letterario 'Poeti del tempo di Mussolini'?'.
Gambetti: 'Sì è vero. Scrissi un'ode...'.
Avv. Taddei: 'È vero anche che il teste fu capo dell'ufficio Stampa della federazione fascista di Forlì?'.
Gambetti: 'È falso. Fui soltanto segretario di redazione del 'Popolo di Romagna'.
Le domande della difesa si fanno incalzanti, pressanti, e mano a mano l'atmosfera nell'aula si va riscaldando. Un certo nervosismo serpeggia e si capisce bene che basta un nulla per far scoppiare l'incidente.
Avv. Taddei: 'È vero che il teste, durante la prigionia, pubblicò a puntate, sul settimanale 'L'Alba' il 'Diario di una generazione sbagliata'?'.
Gambetti: 'Questo è vero...'.
Avv. Sotgiu: 'Ma cosa c'entrano queste domande con il processo?'.
Avv. Taddei: 'È interessante, invece, tutto ciò. Ci permette di misurare le oscillazioni del pendolo politico del teste il quale, se non sbaglio, oggi è redattore capo de 'L'Unità' di Milano'.
Gambetti: 'Infatti, lo sono'.
Avv. Taddei: 'Basta così...'.
Avv. Sotgiu: 'No. Non basta affatto. La difesa vuole speculare su questo argomento e il teste deve ora spiegare perché prima era fascista e diventò in seguito comunista'.
Gambetti: 'Ero convinto che il fascismo instaurasse in Italia una nuova giustizia sociale, che il fascismo portasse ad un accorciamento delle distanze, ad un trattamento migliore dei lavoratori, alla fine delle speculazioni. Per questo ero fascista. M'accorsi poi che il fascismo non aveva mantenuto le promesse fatte e allora...'.
P.M.: 'Non ci interessa la sua biografia...'.
Presidente: 'Si limiti ad accennare...'.
Gambetti: 'Ma come posso accennare soltanto se i primi dubbi sboccarono in crisi di coscienza proprio per le angherie che i soldati subivano, tanto più che avevo modo di osservare da vicino quale fosse l'organizzazione sovietica?... Eravamo addirittura obbligati ad indossare la camicia nera durante i combattimenti e il capomanipolo Taddei lo sa perfettamente'.
Avv. Taddei: 'Se il teste torna a chiamarmi capomanipolo io lascio l'aula. Io ho combattuto in grigio verde, buffone!'.
È stato il fulmine che ha fatto scoppiare il temporale.
Gambetti: 'Canaglia!'.
Avv. Taddei: 'Buffone!'.
Avv. Sotgiu: 'È ora di finirla. Qui non si fa che insultare i nostri testimoni. Abbiamo sopportato fino ad ora, ma adesso...'.
Avv. Taddei: 'Sopportate ancora...'.
Il Sen. D'Onofrio che ha seguito, attentissimo, le fasi del violento battibecco, non resiste più e, rosso in viso, scatta in piedi come se volesse slanciarsi contro l'avv. Taddei.
D'Onofrio: 'Lei è un buffone. Buffone!!'.
Avv. Taddei: 'Lei se ne vada e si vergogni...'.
Avv. Paone: '...organizzatore di false testimonianze...'.
Avv. Taddei: 'Caro Paone, quando avrai finito di urlare, se ci riesci, mi farai il piacere di ritirare quello che hai detto'.
Frasi grosse, invettive, accuse personali volano da una parte all'altra dell'aula. Tutti sono in piedi: avvocati, presidente, pubblico ministero, imputati, tutti gridano, tutti sono paonazzi in volto. Vediamo il capitano dei carabinieri, che regola il servizio d'ordine, dare brevi ordini ai suoi uomini i quali si preparano ad intervenire nel caso deprecato che le cose si mettessero al peggio. Ma finalmente un più energico intervento del Presidente pone, fine all'alterco e piano piano tutto ritorna calmo mentre il mormorio del pubblico si va smorzando lentamente, come il rumore del temporale che s’allontana.
P.M.: 'Il Tribunale non ha sentito l’ultima accusa lanciata dall'avv. Paone all'avv. Taddei'.
Avv. Taddei: 'Meglio cosi. Tanto la verità non ha bisogno di essere organizzata'.
Placati gli animi l'udienza riprende con le deposizioni degli ex sottotenenti Luigi Sandirocco e Mario Gonnelli i quali naturalmente riferiscono su circostanze già note, elogiano il comportamento dei fuorusciti, assicurano che il giuramento, nelle scuole antifasciste, che entrambi frequentarono, non era obbligatorio e impegnava soltanto alla fedeltà alla causa del popolo italiano.
LA DICIASSETTESIMA UDIENZA.
17 giugno 1949.
Pugliese: 'Una commissione della Croce Rossa Internazionale venuta a visitare il Campo di Oranki nell’aprile del 1943, fuggì inorridita per le condizioni in cui versavano i prigionieri. Nel lazzaretto di Oranki, 400 ufficiali, erano gettati su letti di legno a due posti (i cosiddetti 'castelli'), senza pagliericcio, senza lenzuola, quasi completamente nudi. C'erano nel gruppo 15 medici italiani, ma date le loro disperate condizioni fisiche non erano in grado di prestare la loro opera di sanitari. Tutti i malati erano assistiti da un solo medico italiano, aiutate da Don Franzoni in qualità di infermiere. Non vi erano reparti separati per le diverse malattie epidemiche cosicché affetti di tifo petecchiale e di difterite, di dissenteria e di tifo esantematico giacevano gli uni accanto agli altri.
E per tutti c'era una sola medicina: una soluzione di permanganato di potassio che veniva spalmata con batuffoli di ovatta sui corpi di coloro che avevano la scabbia e bevuta, invece, da chi aveva la dissenteria o il tifo o un’altra infezione qualunque. La maggior parte dei degenti, poi, soffriva anche per delle piaghe che il continuo e lungo contatto del legno dei tavolacci con la loro magrezza aveva prodotto sulla schiena e specialmente nella regione sacrale. Le condizioni sanitarie e igieniche non migliorarono neppure quando scoppiò l'epidemia di tifo esantematico e l'altra più grave di 'distrofia' (cosi i russi chiamavano una malattia che altra origine non aveva che la fame). La mortalità raggiunse in quel periodo una percentuale spaventosa che toccò punte dell’80 e del 90 per cento.
Conobbi il commissario Fiammenghi dopo la guarigione. Egli usava invitare i prigionieri a manifestare liberamente le loro idee, ma se queste non collimavano con le sue andava su tutte le furie, bestemmiava e minacciava'.
Pugliese: 'Quanto alla corrispondenza, vennero sì distribuite delle cartoline in franchigia per scrivere alla famiglia ma non arrivarono mai a destinazione perché le trovammo strappate in mezzo all'immondizia'.
Circa l'attività del D’Onofrio il Pugliese non ha fatto che riconfermare le deposizioni dei colleghi che lo avevano preceduto nella testimonianza. Prima che il teste venga congedato l'avv. Taddei esibisce la copia del 'Risorgimento Liberale' del 1 aprile 1948 in cui è pubblicata una lettera di D'Onofrio in risposta ad un articolo scritto dal Pugliese. Il teste allora spiega al Tribunale che a sua volta rispose al sen. D'Onofrio per dimostrare quanto false fossero le cose che egli aveva scritto nei suoi riguardi e come nella polemica si inserirono successivamente altri reduci.
All'inizio dell’udienza erano stati sentiti ancora due testi d’accusa: Franco Daniello, ex marinaio, e Cadorna Gardini, geniere. Il Daniello ebbe 'la fortuna' di conoscere il commissario Fiammenghi 'un vero padre', alla scuola di antifascismo. Terminato questo primo corso, il teste fu inviato ad una scuola di perfezionamento nei pressi di Mosca dove conobbe il fuoruscito Bobotti 'un vero amico' il quale lo sgridava perché lui voleva studiare anche la domenica e ciò poteva nuocere alla sua salute.
Il teste ha detto anche di essere stato in un primo tempo prigioniero dei tedeschi che lo catturarono a Lero insieme a tutto il presidio, dopo l'8 settembre 1943, e di esser stato, successivamente, liberato dai russi nel luglio del 1944 a Barissoff.
Avv. Sotgiu: 'Poiché il teste fu prigioniero e dei tedeschi e dei russi può dire da chi ricevette trattamento migliore?'.
Daniello: 'Posso solo dichiarare che, allorché caddi in mano russa, mi sembrò di essere tornato alla vita. Quando dovemmo lasciare i campi per fare ritorno in Patria, molti di noi piangevano'.
Più o meno le stesse cose ha ripetuto il Gardini, chiamato subito dopo. Conobbe il querelante alla scuola di antifascismo e ancora oggi darebbe la vita per D'Onofrio e per tutti gli altri fuorusciti italiani. Prima di rinviare a domani il seguito dell’esame testimoniale con gli ultimi quattro testi a discarico, è stato sentito ancora una volta il cappellano Don Franzoni il quale vuole fare una precisazione circa una cena che ebbe luogo, dopo il rientro dalla prigionia, a casa sua in San Giovanni in Persiceto, e alla quale intervenne anche il commissario Rizzoli.
La circostanza, così come è stata riferita da uno dei testi della l'arte Civile, risulta deformata.
Don Franzoni: 'Non mi consta che il Rizzoli, pur esplicando in Russia mansioni di commissario politico, abbia tramato ai miei danni. Questa mia stessa impressione la ebbero gli ufficiali che parteciparono alla cena, da me offerta. Non fui io, però, ad invitare il Rizzoli, bensì gli ufficiali miei amici. Ed io consentii di buon grado ad averlo con noi. A tavola, mentre si mangiava, invitammo il Rizzoli ad esprimere liberamente il suo pensiero sul trattamento che i russi e i commissari italiani avevano fatto ai nostri prigionieri e gli chiedemmo pure come spiegava l’ecatombe dei nostri compagni e la crudeltà con cui eravamo stati trattati. Il Rizzoli rispose vagamente che i russi a quei tempi avevano da pensare a ben altre cose, che la guerra incalzava, che i medicinali non bastavano neppure ai russi e quindi non potevano davvero darli ai prigionieri.
Qualcuno chiese al Rizzoli un parere personale nei confronti di D'Onofrio, e, lui, dopo un attimo di perplessità, rispose che lo riteneva un uomo intelligente, senza specificare di più. Gli chiedemmo ancora cosa pensasse di Roncato, e Rizzoli rispose che quello era un disgraziato e un delinquente'.
lunedì 14 giugno 2021
MOVM - Bocchetti Federico
Le Medaglie d'Oro al Valor Militare della Campagna di Russia, Colonnello Medico BOCCHETTI Federico - Corpo Sanitario.
Motivazione: "Volontario di ogni guerra, tempra geniale di organizzatore, suscitatore di entusiasmi, sempre pervaso dalla sublime missione di medico e di soldato ebbe ovunque cara la suprema gioia del dovere. Informato che in una zona totalmente accerchiata dal nemico giacevano centinaia di feriti, animato dal più ardente desiderio di recare lenimento alle sofferenze, sagacia di consiglio alla organizzazione di assistenza e - ove possibile - di sgombero, spontaneamente volle raggiungere per le contese e quasi vietate vie dell’aria la zona assediata, portandovi il soffio benefico del suo spirito e della sua opera. Ma nel volo di ritorno scompariva nel cielo della lotta, eternando nella perennità luminosa del simbolo la figura di chi sopravanza i termini dell’io nella più generosa dedizione alla Patria e alla Umanità. - Fronte russo, Cielo di Cercowo, 29 dicembre 1942".
Motivazione: "Volontario di ogni guerra, tempra geniale di organizzatore, suscitatore di entusiasmi, sempre pervaso dalla sublime missione di medico e di soldato ebbe ovunque cara la suprema gioia del dovere. Informato che in una zona totalmente accerchiata dal nemico giacevano centinaia di feriti, animato dal più ardente desiderio di recare lenimento alle sofferenze, sagacia di consiglio alla organizzazione di assistenza e - ove possibile - di sgombero, spontaneamente volle raggiungere per le contese e quasi vietate vie dell’aria la zona assediata, portandovi il soffio benefico del suo spirito e della sua opera. Ma nel volo di ritorno scompariva nel cielo della lotta, eternando nella perennità luminosa del simbolo la figura di chi sopravanza i termini dell’io nella più generosa dedizione alla Patria e alla Umanità. - Fronte russo, Cielo di Cercowo, 29 dicembre 1942".
Ricompense - 8a Armata - Servizio Sanitario
Ricompense al Valor Militare attribuite per le operazioni sul Fronte Russo, a cura di Carlo Vicentini, fonte UNIRR.
MOVM - Medaglia d'Oro al Valor Militare, MAVM - Medaglia d'Argento al Valor Militare, MBVM - Medaglia di Bronzo al Valor Militare, MOVM - Medaglia d'Oro al Valor Militare, CGVM - Croce di Guerra al Valor Militare.
8a ARMATA - SERVIZIO SANITARIO.
MOVM Colonnello medico BOCCHETTI Federico, alla memoria
MAVM Colonnello MAUGERI Nicola
MAVM Capitano BARCHI Luigi
MAVM sergente maggiore DI PALMA Teodoro
MAVM caporal maggiore MARNA Dino
MBVM Tenente Colonnello SPAGNOLO VIGORITA Nic.
MBVM Capitano ROMANO Gino
MBVM Tenente FORTUNATI Italo, alla memoria
MBVM Tenente FROSIO Mario Camillo
MBVM Tenente MALASPINA Manlio
MBVM Sottotenente BINGINI Oreste
MBVM Sottotenente PANCANTI Giovanni
CGVM Maggiore ELISEI Carlo
CGVM Tenente MARINO Mario
CGVM sergente maggiore COLUCCI Renato
CGVM sergente maggiore D'OTTAVIO Teodoro
CGVM sergente MAGRETTI Ugo
CGVM caporal maggiore RIZZI Giulio
CGVM soldato ASCHIAROLI Bernardino
CGVM soldato D'ANGELO Giuseppe
CGVM soldato DINI Giuseppe
CGVM soldato MADDALONI Angelo
CGVM soldato MANGANARO Basilio
MOVM - Medaglia d'Oro al Valor Militare, MAVM - Medaglia d'Argento al Valor Militare, MBVM - Medaglia di Bronzo al Valor Militare, MOVM - Medaglia d'Oro al Valor Militare, CGVM - Croce di Guerra al Valor Militare.
8a ARMATA - SERVIZIO SANITARIO.
MOVM Colonnello medico BOCCHETTI Federico, alla memoria
MAVM Colonnello MAUGERI Nicola
MAVM Capitano BARCHI Luigi
MAVM sergente maggiore DI PALMA Teodoro
MAVM caporal maggiore MARNA Dino
MBVM Tenente Colonnello SPAGNOLO VIGORITA Nic.
MBVM Capitano ROMANO Gino
MBVM Tenente FORTUNATI Italo, alla memoria
MBVM Tenente FROSIO Mario Camillo
MBVM Tenente MALASPINA Manlio
MBVM Sottotenente BINGINI Oreste
MBVM Sottotenente PANCANTI Giovanni
CGVM Maggiore ELISEI Carlo
CGVM Tenente MARINO Mario
CGVM sergente maggiore COLUCCI Renato
CGVM sergente maggiore D'OTTAVIO Teodoro
CGVM sergente MAGRETTI Ugo
CGVM caporal maggiore RIZZI Giulio
CGVM soldato ASCHIAROLI Bernardino
CGVM soldato D'ANGELO Giuseppe
CGVM soldato DINI Giuseppe
CGVM soldato MADDALONI Angelo
CGVM soldato MANGANARO Basilio
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