La vera storia del Colonnello Domenico Rossotto, comandante del Gruppo Conegliano del 3° Reggimento Artiglieria da montagna della Divisione Alpina Julia.
Tratto da un articolo presente su "Corriere Torino" al link https://torino.corriere.it/notizie/cronaca/25_luglio_06/la-vera-storia-del-comandante-domenico-rossotto-colonnello-a-salo-salvato-dai-partigiani-e-protagonista-sotto-falso-nome-in-82d100b0-cd35-424a-9945-2fb74d0c0xlk.shtml?fbclid=IwY2xjawLflNVleHRuA2FlbQIxMABicmlkETAyQlU1cGd3T1pnb3h3aTFwAR5PSoeMqjX1Jwo8FjHlhmSrgkP5eEzdCdezgdleeQNFFlyGnf0uLTxM5AGy3g_aem_GLmFSWRzFdrT1pHxeYAMrA
Ricordate il colonnello Verdotti, uno dei protagonisti del libro Centomila gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi? Ebbene, il colonnello Verdotti non è mai esistito. O, meglio, aveva un altro nome e cognome. Si chiamava Domenico Rossotto (1894-1991), comandante del Gruppo Conegliano del 3° Reggimento Artiglieria da montagna della Divisione Julia, dal 1937 al 1943, prima sul fronte greco-albanese e poi in Russia; decorato dell’Ordine militare d’Italia e di quattro medaglie d’argento.
A svelare la storia di questo ufficiale dell’allora Regio Esercito è l’avvocato Riccardo Rossotto, appassionato di storia e nipote del colonnello, fratello del nonno Camillo. Rossotto junior, è stato, proprio lo scorso anno, l’autore di una riedizione del libro Ricordi di guerra (Editore Mattioli1885: collana Archivio Storia) scritto dal colonnello Rossotto nel 1973.
Un libro che narra la potente storia di questo ufficiale degli alpini che i suoi ragazzi chiamavano «papà Rossotto» e che li riportò a casa sani e salvi. «Decisi di rieditare il libro dello zio, in quanto mi sembrava che la sua vicenda potesse fornire alle nuove generazioni un esempio di una leadership autorevole, professionalmente adeguata a gestire migliaia di uomini nella tragica complessità di una ritirata, a meno 50 gradi di temperatura e con l’esercito russo alle calcagna».
Come nasce in lui l’idea di usare lo pseudonimo Verdotti?
«Lo zio, rientrato in Italia “con i suoi leoni”, l’8 settembre, nella confusione vergognosa post armistiziale, decise di aderire alla Repubblica di Salò. Mi disse, guardandomi negli occhi, che «I tedeschi ci avevano aiutato in modo decisivo sia in Grecia prima, sia in Russia poi. Se sono riuscito a riportare a casa i miei alpini, lo dovevo a loro e non potevo tradirli anch’io. Quella scelta gli costò un dopoguerra faticoso come per tutti i vinti. Quando il suo tenente in Russia, Giulio Bedeschi - ricorda il nipote - gli chiese negli anni ‘50, per motivi di opportunità, di non mettere il suo cognome vero ma di assumere uno pseudonimo, lo zio a malincuore accettò: i repubblichini in quell’Italia del dopoguerra non godevano di buona stampa. E così, “devo dire con una non grande creatività, nacque l’idea che a Rossotto si sostituisse Verdotti».
Sono tanti gli episodi della sua carriera militare legati soprattutto alla campagna di Russia e al suo amaro dopoguerra. Ioia, la figlia del colonnello, che lo accompagnò fino alla fine in tutti i raduni degli alpini fino alla sua dipartita, costituisce la memoria storica dello zio alla quale ha fatto riferimento il nipote cha deciso di raccontarcene due di quegli aneddoti che ci permettono di capire meglio la figura umana del colonnello.
«Il primo episodio risale al gennaio del 1943, quando il Corpo d’Armata Alpino è stato comandato a lasciare il fronte sul Don, presidiando la retroguardia di tutto il contingente italiano. Iniziò così quella tragica ritirata immortalata per sempre in quella fotografia che ci pone di fronte un serpentone umano di chilometri e chilometri composto da tutti gli sbandati dei vari reparti italiani coinvolti. Lo zio Domenico si ritrovò, nel giro di qualche settimana, pur avendo avuto perdite rilevanti in quei mesi di battaglia con oltre 6 mila soldati che, oltre ai suoi diretti dipendenti, circa mille, del Raggruppamento Conegliano, si erano aggregati a quella colonna in ritirata intuendo che quel comandante potesse avere le idee chiare, il coraggio e la professionalità per sperare di tornare a casa. Una notte quando, in mezzo alla steppa russa innevata, a meno 50 gradi di temperatura, nel buio più totale, con le divisioni corazzate russe che cannoneggiavano i nostri reparti cercando di chiuderli in una sacca e in cui quindi gli unici bagliori erano i cannoneggiamenti dell’artiglieria russa, il colonnello Rossotto si era fermato per dare una pausa di riposo “ai suoi leoni”. In quella terribile situazione bisognava decidere cosa fare e soprattutto dove andare. Lo zio mi disse: “Avevo 12 mila occhi che mi guardavano in attesa che io prendessi una decisione che poteva essere fatale per le loro esistenze. Mi aiutarono la bussola, l’esperienza ma anche il cosiddetto fattore K. Quella sera decisi che bisognava andare in una cerca direzione, che indicai alzando il braccio destro con l’indice della mano teso in avanti. Andò bene, evitammo l’accerchiamento e potemmo continuare quella ritirata verso Occidente”».
E il secondo episodio?
«Riguarda i giorni immediatamente successivi al 25 aprile 1945, la liberazione del Paese. Il colonnello Rossotto, diventato comandante della piazza di Alessandria, decise di tornare subito a casa nella sua Limone Piemonte dove l’attendeva la famiglia. Con una bicicletta, in abiti civili, si mise in cammino per Limone. Nei giorni della “resa dei conti” fu imprigionato da una brigata partigiana di GL comandata da Giorgio Bocca: l’imputazione era di aver aderito alla Repubblica Sociale e quindi di essere stato inserito nella “black list” dei responsabili delle nefandezze fasciste».
Poi cosa successe? Quale fu la sua sorte?
«Sottoposto ad un processo sommario di neanche 15 minuti, fu condannato a morte con esecuzione immediata della pena. Per sua fortuna, al momento della condanna, venne pronunciato a voce alta il nome e il cognome del condannato a morte. Uno dei due giovanissimi partigiani, comandati a trasferirlo sul vicino luogo della fucilazione, proprio perché aveva sentito quel cognome, gli chiese “Ma lei è il colonello Domenico Rossotto del Conegliano?”. All’annuire di mio zio il giovanissimo giellino gli sussurrò all’orecchio: “Vada colonnello, vada via di corsa perché se io ho un padre a casa, vivo, che mi aspetta, lo devo a lei che me lo ha riportato sano e salvo dalla Russia. Corra via, noi ci gireremo dall’altra parte. Lei non merita questa fine infame».
E così fu e il colonnello Rossotto si salvò. L’avvocato Rossotto ci tiene però a chiudere questo ricordo con un’incredibile sorpresa emersa dalle sue ultime ricerche storiche nel vicentino.
«Quel Giulio Bedeschi che aveva chiesto allo zio di cambiare nome per evitare che il libro potesse essere contaminato negativamente dal suo passato fascista, ho scoperto che dopo l’8 settembre aveva anch’egli aderito a Salò, rivestendo prima il ruolo di Federale di Forlì e poi diventando il comandante della Brigata Nera “Capanni”, una delle più efferate del Veneto. Bedeschi non raccontò mai quel periodo della sua storia. In fondo questa scoperta, superato lo choc iniziale mi ha fatto pensare allo zio e al suo sorriso indimenticabile… che in questo caso sarebbe stato connotato di scherno e di delusione».
Il suo profilo è presente sul sito dell'Associazione Nazionale Alpini - Sezione di Conegliano al link https://www.anaconegliano.it/storie/domenico-rossotto.html
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