Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".
Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. La cartina riportata è stata ricavata da Google Earth e dovrebbe (ne parlo al condizionale) riportare la linea Defrancisci, dopo le opportune verifiche rispetto ai testi da me consultati.
LA LINEA DEFRANCISCI.
All’alba del giorno 16 ci svegliò una nuova sorpresa: "Allarme!".
In mezz'ora il battaglione doveva mettersi in condizioni di marciare verso la linea del fronte "per dare una mano" ad un reggimento della Pasubio contro cui i russi stavano esercitando una forte pressione. La favola del gen. Troiano (ma era mai esistito costui?) in cerca di accantonamenti invernali si sgonfiava miserabilmente nel mugugno generale. Quanto si sarebbe tirato avanti ancora con questa catena di mistificazioni, di fantasie e di subitanee sempre più sofferte prese di coscienza di una realtà tragica? Tutti eravamo convinti, che il repentino reimpiego in linea del battaglione si sarebbe tradotto nella ripetizione di Ogolewka e avremmo avuto conferma che i comandi superiori, mosconi impazziti, prendevano decisioni folgoranti e contradditorie mancando in assoluto un piano tattico, nell’ignoranza del reale andamento delle operazioni sul fronte. Ancora tutti avvertivamo, sia pure confusamente, che qualcosa di importante, di decisivo ci era tenuto nascosto.
Gli uomini affardellarono gli zaini e, uscendo lentamente dal capannone, si misero in fila in silenzio. Tirava il solito vento gelido dell’alba. Il cannoneggiamento era molto vicino e continuo. "Zaino in spalla! ... Andiamo".
Ripassammo per Getreide Swiss e la trovammo più squallida di quando eravamo partiti per Ogolewka. I bunkers e le baracche si erano trasformati in depositi di neve, penetrata attraverso porte e finestre sgangherate. Non vedemmo anima viva, passammo in silenzio avanzando a fatica perché nella notte aveva nevicato molto. Sotto gli scarponi scricchiolava la neve fresca, sbatacchiava qualche gavetta ciondolante.
Ben oltre Getreide Swiss incontrammo i primi feriti della Pasubio. Erano feriti leggeri che andavano verso la retrovia alla cieca, in cerca di un posto di medicazione o di un ospedaletto da campo. Alcuni avevano già avuto una medicazione sommaria, altri no. Per lo più erano accompagnati da commilitoni o anche da superiori forse eccessivamente caritatevoli, date le circostanze. Apparivano tutti agitatissimi, raccontavano che i sovietici avevano attaccato di sorpresa con grandi forze lo schieramento del 79° reggimento, avevano spezzato ogni resistenza ed ora avanzavano contrastati soltanto da deboli forze superstiti dello stesso reggimento.
Come avevano fatto i feriti ad arrivare fin lì? In quel punto non si udiva nessuna sparatoria di mitragliatrice o di fucileria, il fronte, dunque, avrebbe dovuto situarsi ancora abbastanza lontano, invece il racconto dei feriti dava i russi a un paio di chilometri al massimo. Proseguimmo la nostra marcia. In un boschetto, che fiancheggiava l’incerta strada da noi percorsa, una batteria di gente fresca, pulita, equipaggiata di nuovo, piazzava i suoi pezzi sfruttando piccole radure. Ufficiali ed artiglieri apparivano tranquillissimi e manovravano ordinatamente come fossero in piazza d’armi. Un sottotenente venne sulla strada e ci chiese dove eravamo diretti.
"Di rinforzo alla Pasubio. I russi hanno sfondato". "Macché sfondato!" - disse l’ufficiale. - "Li hanno già fermati alla linea Defrancisci. Vedrete che vi faranno tornare indietro subito. Noi siamo venuti qui solo per maggior sicurezza".
La notizia era buona, ma chi poteva crederci? Intanto continuammo ad andare avanti.
Dopo qualche chilometro, quantunque procedessimo a testa bassa come i muli, scorgemmo scendere da lontano verso di noi un gruppo di uomini, un plotone forse, preceduto da una figura allampanata e gesticolante. Gli uomini erano militi della Tagliamento e fanti e bersaglieri, facce sfigurate dai segni della fatica, dalla fame, dal sonno, pastrani e scarponi inzaccherati e a brandelli. L'ufficiale alla loro testa, alto, magro, terreo, con la faccia ossuta, angolosa, i grandi occhi allucinati, vestito di un pastrano grigio-verde scuro lungo fino ai piedi, sembrava mosso da un’eccitazione incontrollabile. Parlava a scatti, a raffiche: stavano di presidio in un caposaldo bombardato per errore a due riprese dagli stukas tedeschi; gravi perdite tra gli uomini, un capitano impazzito; nella notte era giunto il cambio, ora andavano indietro, al Comando, chissà dove.
Lo ascoltammo sgomenti. Osservandolo attentamente mi sembrò di ravvisare una fisionomia già incontrata altrove.
Gli chiesi di dove era, due volte, tre volte. Non ci fu verso di aver risposta. Seguiva il suo racconto, lo ripeteva, come sotto un incubo ossessivo. Solo poco prima di riprendere la marcia col suo scardinatissimo plotone disse che i russi avevano attaccato il suo caposaldo con grandi forze fino al giorno precedente, non erano passati, e da 24 ore sembravano spariti. Dovevano aver spostato l’attacco nel settore della Pasubio. Poi sempre gesticolando con le lunghe braccia da mulino a vento, si avviò coi suoi uomini. "Vivi!" - mi gridò salutando con una mano.
Rimasi come interdetto per quello strano augurio. Si trattava proprio di un originale. Intanto erano giunti alcuni portaordini del Comando di Gruppo incaricati di farci da guida. L'ordine era di andare più in fretta.
Dopo un paio d'ore di marcia sulla neve fresca giungemmo alla sommità di una collina piatta, ove si aprivano, a distanza di un centinaio di metri l'una dall'altra, quattro-cinque enormi buche rettangolari, forse di metri 3 per 10, profondi 3-4 metri, completamente scoperte.
Ci dissero che eravamo arrivati. "Ma questa è la famosa linea Defrancisci?" "Sì, è questa. Tutto quel che c'è è qui!".
Vi trovammo qualche centinaio di uomini della Pasubio, i resti di alcuni battaglioni che, investiti in pieno dai russi sulla linea del Don, erano stati sbaragliati, nonostante un'accanita resistenza. Tra di loro si scorgevano parecchi militari in divisa di tela estiva e bustina, col solo pastrano, senza pelliccia. Erano i "vecchi" della Pasubio, quelli che avevano già conosciuto l’inverno russo e che dovevano rientrare in patria per avvicendamento. I comandi avevano ritenuto inutile distribuire i pellicciotti e l’equipaggiamento pesante.
Di fronte al piatto culmine della collinetta, a circa trecento metri, si apriva trasversalmente una larga e profonda balka. Al di là si avvicendavano ancora colline piatte e avvallamenti. Il Don con le sue sponde a sbalzo non doveva essere molto lontano. Ad occhio nudo di vedevano scendere degli uomini in ordine sparso. Superstiti della Pasubio? Osservammo col cannocchiale. No, erano i russi.
Il battaglione venne disposto sulla linea delle grandi buche e gli uomini scavarono nella neve alta quasi un metro camminamenti, postazioni e avamposti. Una semplice protezione dalla vista, peraltro assai necessaria.
La fucileria era lontana. Neppure l’artiglieria ci disturbava, ma i russi si andavano avvicinando visibilmente. Bisognava fermarli prima che si attestassero alla balka o che tentassero di aggirarci sulla destra, dove mancavamo ancora di qualsiasi collegamento. Furono portati in postazione quattro cannoncini anticarro coi quali avrebbe dovuto essere possibile fare un buon fuoco di sbarramento. Purtroppo c’erano gli anticarro 47/32 (inutili come anticarro, ma utilissimi per l'impiego che se ne poteva fare nella circostanza), ma mancavano le munizioni. Fuori, dunque, le pattuglie ... a tener lontani i russi.
Finalmente, dopo qualche ora, le munizioni arrivarono e alle nostre spalle si fece viva l'artiglieria. Forse era la batteria dell'ufficiale ottimista incontrato al mattino. In quell’occasione il tiro dei piccoli anticarro fu particolarmente efficace. Le pattuglie russe, sorprese dalla precisione dei tiri, si dispersero, si misero al riparo nelle ondulazioni del terreno e noi le perdemmo di vista. Presto non si notò più nessun segno di avanzata.
Ancora un salvataggio in extremis dovuto al caso, alla freddezza o all’iniziativa di un singolo reparto, un salvataggio che ci voleva perché sulla linea Defrancisci regnava il caos. Nessuno sapeva con precisione chi comandasse il settore. Lungo la linea, nelle postazioni, nei posti avanzati al margine della balka si aggirava un colonnello che sembrava aver perduto la testa. Correva qua e là a dare ordini, a dire bravo a uno, coglione a un altro che magari si comportava esattamente come il primo, creando nell’improvvisato schieramento una confusione indescrivibile. Gli teneva dietro, arrancando a fatica nella neve, un capitano a cui non era permesso di aprire bocca e che scuoteva malinconicamente il capo.
Tuttavia, poiché i russi sembravano davvero spariti dietro le alture prospicienti il Don, a poco a poco anche sulla linea Defrancisci si fece un certo ordine. Nelle postazioni erano reparti di formazione "spontanea", camicie nere e soldati della Pasubio, quasi tutti "vecchi" dello C.S.I.R. Di fatto le truppe del settore dipendevano dal Comandante del Montebello.
Il fronte affidato al 6° battaglione con gli aggregati della Pasubio era molto vasto e sarebbe stato impossibile tenerlo con la linea continua. Sbadilando nella neve e cercando, spesso senza esito, di rompere il terreno ghiacciato, si costituì tuttavia una serie di punti di resistenza, minuscoli caposaldi ciascuno dotato di un'arma pesante, collegati a vista durante il giorno e dal continuo circolare di piccole pattuglie durante la notte. Così all’addiaccio, riparati dal gelido vento da parapetti di neve, affrontammo la prima notte sulla "linea fortificata Defrancisci".
Era già buio quando giunse il primo "rancio caldo", tutt'altro che caldo in verità, ma non ancora ghiacciato. Nelle postazioni e nelle buche avanzate delle vedette sembrò molto buono e abbondante, accompagnato peraltro da un gavettino di cognac, di cui erano arrivati alcuni fusti assieme al rancio.
"Forza, ragazzi, le borracce! C’è cognac a volontà!". "Bene, meglio tardi che mai! Ma perché lo tirano fuori solo adesso? È un brutto segno!". "Prima", un paio di cucchiaiate di cognac venivano date agli uomini che si apprestavano ad uscire di pattuglia.
La prima notte passò abbastanza tranquilla. Qualche sparatoria qua e là, qualche raffica dei russi con proiettili traccianti. All’alba, però, vedemmo che gli avamposti russi si erano avvicinati ulteriormente alla balka, a cui il nostro schieramento stava affacciato, ed avevano portato avanti anche le armi pesanti. In concreto, non si poteva alzare la testa al di sopra dei parapetti di neve. Ancora una volta si doveva convenire che, se i sovietici avessero attaccato come avevano fatto giorni prima con la Pasubio, non avremmo potuto resistere a lungo.
Ma ancora una volta a ridarci speranza, a rinfrancarci, ad aiutarci a tener duro, almeno dentro noi stessi, fu fatta circolare la voce che una divisione corazzata tedesca stava per venire a darci il cambio. L'illusione è sempre l’ultima a morire, ma che illusione potevamo ancora nutrire quando, nel pomeriggio del 17 dicembre, vedemmo arrivare in linea un battaglione del Genio Ferrovieri? Era quella la favolosa divisione corazzata tedesca?
Erano tutti anziani che non avevano mai visto la prima linea, che non sapevano maneggiare le armi, che non avevano armi. Fino a pochi giorni prima avevano messo giù rotaie a ritmo contadino, riposando sovente presso la stufa dell’isba più vicina. All'improvviso erano stati buttati nell’occhio del ciclone col compito di sbarrare la strada ai russi, forse di fermare i carri armati con una vecchia mitragliatrice FIAT che ogni tanto necessitava di essere messa sul fuoco per sbloccarne i congegni raggelati. Erano consapevoli di rappresentare, loro malgrado, un particolare comico e tragico insieme, nel quadro della guerra, ma erano straordinariamente bravi, volenterosi, ubbidienti, direi quasi, mansueti. Ascoltavano gli ufficiali e anche gli "anziani" degli altri reparti con rispettosa attenzione. Volevano rendersi utili subito, ma che pena con quei loro occhi troppo fermi e spalancati, con quei cappottoni foderati nelle retrovie con pelo variopinto, con quelle mani tenacemente infilate nelle tasche sul petto, con quelle barbe disseminate di fili d’argento!
"Tenente, ora che sono arrivati i macchinisti, speriamo che arrivi anche il treno!" - era la battuta amara di un "vecchio" della Pasubio ancora in divisa estiva.
Così sulla linea Defrancisci passammo il 16, il 17, il 18 dicembre. Nemico veramente feroce il freddo, che il sonno ingigantiva. A turno gli uomini andavano a scaldarsi nelle grandi buche, dove erano state apprestate delle stufe e che in parte erano state coperte con travi e teli da tenda.
Ogni tanto una raffica, ogni tanto un colpo di mortaio. I russi ci tenevano svegli, in attesa sempre dell’arrivo della favolosa divisione corazzata tedesca.
Dal 2011 camminiamo in Russia e ci regaliamo emozioni
Trekking ed escursioni in Russia sui campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale
Danilo Dolcini - Phone 349.6472823 - Email danilo.dolcini@gmail.com - FB Un italiano in Russia
lunedì 2 novembre 2020
domenica 1 novembre 2020
Auguri Sergente!
Puoi conoscere il cuore di un uomo già dal modo in cui egli tratta gli animali.
Il 1 novembre 1921 nasceva MARIO RIGONI STERN, il sergente Mario Rigoni Stern... dopo aver letto il suo "Ritorno sul Don" tanti anni fa decisi che DOVEVO anche io andare in Russia.
Tanti auguri Sergente dovunque tu sia!!
Il 1 novembre 1921 nasceva MARIO RIGONI STERN, il sergente Mario Rigoni Stern... dopo aver letto il suo "Ritorno sul Don" tanti anni fa decisi che DOVEVO anche io andare in Russia.
Tanti auguri Sergente dovunque tu sia!!
sabato 31 ottobre 2020
L'aurora a occidente, parte 2
Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".
Riporto una parte dell'introduzione scritta da Mario Bellini nel suo "L'aurora a occidente", bellissimo libro che consiglio a tutti; grazie ai suoi racconti dettagliati di vita vissuta, ho potuto comprendere meglio le vicende belliche ed umane che si svolsero sul "cappello frigio" e nella "valle della morte" ad Arbusovka, ma soprattutto recatomi di persona in quei luoghi sia nel 2016 che nel 2019, ho potuto vivere quei momenti per me molto intensi con una "partecipazione" che ricorderò per tutta la vita... ero lì, ero esattamente in quei posti che lui descrisse così tanto bene e appassionatamente nel suo bel libro. Ma riporto in particolare questo brano per rendere giustizia alla verità, verità che io cerco sempre anche se a volte è dolorosa per qualcuno o fastidiosa per qualcun altro.
Nel quadro della gigantesca battaglia si svolsero le vicende personali che mi accingo a raccontare. Fui partecipe dell'accanita resistenza sul Don dall'11 al 19 dicembre e del successivo ripiegamento del cosiddetto "blocco nord", costituito dalle divisioni Pasubio e Torino e da parte della divisione Ravenna.
Mi trovai in due occasioni a operare con reparti germanici. Non intendo dimenticare gli episodi di arroganza e di brutalità dei quali si resero protagonisti i tedeschi a danno degli italiani, alleati che avevano compiuto il loro dovere e meritavano la loro gratitudine e il loro rispetto. In mancanza di una leale autocritica, della quale i tedeschi non sono stati capaci, la condanna per tali episodi non ha attenuanti. Ritengo doveroso, nel contempo, per un'esigenza di verità, rendere omaggio al valore degli ufficiali e dei soldati, alla capacità combattiva, alla genialità tattica dei reparti della 298a divisione di fanteria germanica. Questa divisione, a ranghi incompleti, fu protagonista di una manovra di ripiegamento semplicemente prodigiosa. Nell'arco di un mese portò in salvo la colonna del 'blocco nord", con il contributo di sangue dei combattenti italiani, dalle rive del Don fino a Belovodsk, attraversando un vasto territorio occupato dalle armate russe, superando accerchiamenti, sbarramenti, assedi, attacchi di ogni tipo sferrati da un nemico agguerritissimo; soprattutto impegnando e ritardando l'avanzata di numerose divisioni sovietiche. I soldati italiani del "blocco nord" non possono dimenticare che il merito dell'esito vittorioso del loro terribile ripiegamento è da attribuire, in massima parte, alla 298a divisione di fanteria germanica.
A titolo personale rendo onore agli ufficiali tedeschi che ho incontrato, dai quali ho ricevuto considerazione e rispetto. lntendo ricordare con gratitudine il sergente Cühy, furiere della 1a compagnia del 20 battaglione del 425° reggimento di fanteria, mio paterno amico nel caposaldo dello scalo merci della stazione ferroviaria di Certkovo. Al suo fermo e appassionato consiglio debbo la decisione di uscire dall'assedio, pur in condizioni di salute penosissime, e di gettarmi con una temperatura di oltre 40° sottozero sulla pista verso Belovodsk, in fondo alla quale, dopo aver attraversato quattro linee di sbarramento nemiche, trovai la salvezza.
Consapevole di aver militato in un'armata che ha combattuto fieramente, rendo omaggio al valore, alla capacità di sacrificio e al religioso amore per la patria del nostro implacabile nemico di allora. Nel contempo ricordo con commozione uomini e le donne russe che ho incontrato: la dolce Sonia, maestrina di Verch Grekovo; Nina e Gregorio, che mi ospitarono con geloso affetto nella loro casa; la donna del pozzo a Man'kovo nell'orrenda notte di Natale, che pianse temendo per la mia vita; la babuska di Belovodsk, che mi accolse con sollecitudine materna alla fine del mio calvario; e tanti, tanti altri. Tutti sono nel mio cuore, per l'amore che hanno avuto per me e che io ho ricambiato.
Al vertice dei miei pensieri, nel pubblicare questa mia testimonianza, ci sono coloro che caddero nella steppa gelata, con lo sguardo rivolto verso l'occidente immensamente lontano, senza veder l'aurora della salvezza. Il tempo non ha cancellato niente di quella tragedia.
Riporto una parte dell'introduzione scritta da Mario Bellini nel suo "L'aurora a occidente", bellissimo libro che consiglio a tutti; grazie ai suoi racconti dettagliati di vita vissuta, ho potuto comprendere meglio le vicende belliche ed umane che si svolsero sul "cappello frigio" e nella "valle della morte" ad Arbusovka, ma soprattutto recatomi di persona in quei luoghi sia nel 2016 che nel 2019, ho potuto vivere quei momenti per me molto intensi con una "partecipazione" che ricorderò per tutta la vita... ero lì, ero esattamente in quei posti che lui descrisse così tanto bene e appassionatamente nel suo bel libro. Ma riporto in particolare questo brano per rendere giustizia alla verità, verità che io cerco sempre anche se a volte è dolorosa per qualcuno o fastidiosa per qualcun altro.
Nel quadro della gigantesca battaglia si svolsero le vicende personali che mi accingo a raccontare. Fui partecipe dell'accanita resistenza sul Don dall'11 al 19 dicembre e del successivo ripiegamento del cosiddetto "blocco nord", costituito dalle divisioni Pasubio e Torino e da parte della divisione Ravenna.
Mi trovai in due occasioni a operare con reparti germanici. Non intendo dimenticare gli episodi di arroganza e di brutalità dei quali si resero protagonisti i tedeschi a danno degli italiani, alleati che avevano compiuto il loro dovere e meritavano la loro gratitudine e il loro rispetto. In mancanza di una leale autocritica, della quale i tedeschi non sono stati capaci, la condanna per tali episodi non ha attenuanti. Ritengo doveroso, nel contempo, per un'esigenza di verità, rendere omaggio al valore degli ufficiali e dei soldati, alla capacità combattiva, alla genialità tattica dei reparti della 298a divisione di fanteria germanica. Questa divisione, a ranghi incompleti, fu protagonista di una manovra di ripiegamento semplicemente prodigiosa. Nell'arco di un mese portò in salvo la colonna del 'blocco nord", con il contributo di sangue dei combattenti italiani, dalle rive del Don fino a Belovodsk, attraversando un vasto territorio occupato dalle armate russe, superando accerchiamenti, sbarramenti, assedi, attacchi di ogni tipo sferrati da un nemico agguerritissimo; soprattutto impegnando e ritardando l'avanzata di numerose divisioni sovietiche. I soldati italiani del "blocco nord" non possono dimenticare che il merito dell'esito vittorioso del loro terribile ripiegamento è da attribuire, in massima parte, alla 298a divisione di fanteria germanica.
A titolo personale rendo onore agli ufficiali tedeschi che ho incontrato, dai quali ho ricevuto considerazione e rispetto. lntendo ricordare con gratitudine il sergente Cühy, furiere della 1a compagnia del 20 battaglione del 425° reggimento di fanteria, mio paterno amico nel caposaldo dello scalo merci della stazione ferroviaria di Certkovo. Al suo fermo e appassionato consiglio debbo la decisione di uscire dall'assedio, pur in condizioni di salute penosissime, e di gettarmi con una temperatura di oltre 40° sottozero sulla pista verso Belovodsk, in fondo alla quale, dopo aver attraversato quattro linee di sbarramento nemiche, trovai la salvezza.
Consapevole di aver militato in un'armata che ha combattuto fieramente, rendo omaggio al valore, alla capacità di sacrificio e al religioso amore per la patria del nostro implacabile nemico di allora. Nel contempo ricordo con commozione uomini e le donne russe che ho incontrato: la dolce Sonia, maestrina di Verch Grekovo; Nina e Gregorio, che mi ospitarono con geloso affetto nella loro casa; la donna del pozzo a Man'kovo nell'orrenda notte di Natale, che pianse temendo per la mia vita; la babuska di Belovodsk, che mi accolse con sollecitudine materna alla fine del mio calvario; e tanti, tanti altri. Tutti sono nel mio cuore, per l'amore che hanno avuto per me e che io ho ricambiato.
Al vertice dei miei pensieri, nel pubblicare questa mia testimonianza, ci sono coloro che caddero nella steppa gelata, con lo sguardo rivolto verso l'occidente immensamente lontano, senza veder l'aurora della salvezza. Il tempo non ha cancellato niente di quella tragedia.
Nuova programmazione
A malincuore, davvero a malincuore il "cammino della memoria" che avremmo voluto organizzare per Gennaio 2021 non potrà essere effettuato a causa della situazione internazionale, venutasi a creare con i contagi causati dal Covid, e dalle conseguenti restrizioni. Tantissime richieste anche per questa edizione... Se non sarà il 2021, allora sarà il 2022. Intanto e nella speranza che tutto possa cambiare per il meglio, stiamo lavorando ad un viaggio estivo (agosto/settembre) alla portata di tutti quanti che ci permetterà di andare a visitare tante località del fronte e non solo: le zone tenute dagli Alpini e quelle tenute dalla Fanteria, i paesi ed i villaggi più famosi delle ritirate, i campi di prigionia, la navigazione del Don per una giornata in modo da vedere parte del fronte direttamente dal fiume...
Se interessati scrivetemi in privato e senza alcun impegno al momento opportuno fornirò tutte le informazioni necessarie per un'attenta valutazione.
Se interessati scrivetemi in privato e senza alcun impegno al momento opportuno fornirò tutte le informazioni necessarie per un'attenta valutazione.
venerdì 30 ottobre 2020
I giorni e gli anni, parte 3
Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".
Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. La cartina riportata è stata ricavata da Google Earth dopo le opportune verifiche sul campo e riporta la posizione del Raccordino rispetto agli altri punti di riferimento citati nel libro.
IL RACCORDINO.
La notte del Raccordino fu la notte del freddo, del sonno, della rassegnazione. Ci accanivamo a battere i piedi a terra o contro le pareti del trincerone, dove si era raccolto tutto il gelo di Russia, o ci picchiavamo sulle braccia incrociando le mani guantate. Fermarsi per la stanchezza significava sentire subito le ossa scricchiolare come legna secca. A turno ci buttavamo sui tavolacci umidi e sporchi dell’unico rifugio. Il fumo della stufa rendeva l’aria irrespirabile. Appena entrati gli occhi lacrimavano e la tosse prendeva alla gola, poi ci si abituava al fumo e all’aria pestilenziale. Si era al caldo, dopo tutto, e si aveva l’impressione di sentirsi quasi al sicuro.
Percorrevo il camminamento-trincea e ad ogni piazzola trovavo la solita domanda: "Non è ancora venuto il nostro turno di andare a scaldarci?". "No, c'è tempo. Battere i piedi e tenere gli occhi aperti". Non avevamo un compito da poco. La nostra posizione, che doveva fungere da raccordo fra due capisaldi, in realtà era una trincea isolata, piazzata non su una "gobba" del terreno, ma in una zona piuttosto piatta. A destra, il caposaldo X rimaneva a più di mezzo chilometro e il collegamento era tenuto da una pattuglia di 8 uomini che tra l’altro aveva il compito di sorvegliare la balka boscosa che scendeva fino a Ogolewka, perché di lì i pattuglioni russi avrebbero potuto infiltrarsi alle spalle del nostro schieramento. A sinistra, a circa due chilometri, il caposaldo Z, con cui "si sarebbe dovuto" mantenere il collegamento per mezzo di una pattuglia di tre uomini, che "avrebbe dovuto" incontrare a metà strada un'altra pattuglia di eguale forza proveniente dal caposaldo Z. C'era tutto per stare insicuri e rassegnati.
I russi non davano tregua con le mitragliere, coi mortai, coi proiettili traccianti che sembravano partire a volte da postazioni oltre il fiume, a volte da armi piazzate a poche decine di metri da noi allo scopo di mantenere il nostro improvvisato schieramento in una costante tensione. I loro razzi colorati illuminavano a giorno tutta la riva destra del Don.
Da noi le Breda ogni tanto si inceppavano, il moschetto 91 era poco più che un bastone ingombrante, le due mitragliatrici pesanti in nostro possesso erano tenute in esercizio, sparando raffiche a casaccio, per non trovarle bloccate dal gelo. Le sentivamo così preziose che, quantunque il trincerone non fosse lungo più di 200 metri, le cambiavamo sovente di postazione per cercare di renderle più difficilmente individuabili dai precisi mortai russi.
Così aspettammo le prime luci dell'alba, l'ora ufficiale delle sorprese, degli attacchi improvvisi. Ancora nelle viscere la sensazione che solo il caso poteva proteggerci.
Il caso (o l'imperscrutabile piano operativo dei russi?) per quella notte fu dalla nostra parte. Estrema tensione degli animi per quanto avrebbero potuto fare gli altri, ma niente di più. Così ancora nelle prime ore del mattino. Il fronte era come caduto in un improvviso letargo, non si udiva nessuno sparo, la calma era assoluta. Il freddo, il sonno, la tensione avevano accasciato anche i più resistenti; poi trascorse qualche ora tranquilla, si vide chiaro, arrivò il caffè caldo e un po' di cognac. Alla tensione subentrò la rassegnazione di fronte alla prospettiva, ritenuta certa, di passare nel trincerone del Raccordino, russi permettendo, ancora giorni e notti. Invece, verso mezzogiorno, una compagnia di guastatori, ravvolti in bianche casacche, venne a darci il cambio. Un quarto d'ora per passare le consegne, per dare alcune indicazioni sommarie all'ufficiale genovese che comandava i guastatori, poi una stretta di mano, "Ciao, Poggi, ti lascio il Raccordino. Buona fortuna!". "Buona fortuna anche a te. Arrivederci".
Nei pressi dell'Olimpo si ricongiungemmo con quanto rimaneva del 6° battaglione e ci mettemmo in marcia nella direzione di Getreide Swiss, rifacendo a piedi la strada percorsa in camion la mattina del 12. Cominciava a scendere la sera quando ci fermammo presso un immenso capannone dai muri di mattone e dal tetto di paglia, forse la stalla o il magazzino di un colcos. Ci buttammo sulla paglia, soddisfatti di quanto avevamo trovato. I combattimenti dovevano aver ripreso ad infuriare a pochi chilometri di distanza, perché ne giungeva l’eco chiarissima; ma a noi pareva già di essere lontanissimi, fuori tiro.
Restammo nel capannone il 14 e il 15 dicembre. Dormimmo e riorganizzammo alla meglio i reparti, equilibrando i vuoti. Da casa era giunta molta posta; a me anche un pacco con l’uva augurale per il primo dell’anno. Occupai varie ore a rispondere ai miei. Mi piaceva scrivere singolarmente a mia moglie, ai miei genitori, a mia nonna, anche se sapevo che le lettere differenziate sarebbero state lette collegialmente, riuniti tutti alla sera attorno al tavolo su cui troneggiava Laura addormentata o sgambettante nella piccola culla. Del resto, lo schema degli scritti era unico: assicuravo che il battaglione era a riposo nelle retrovie, perciò i miei dovevano stare tranquilli; l'inverno, poi, e tutta la neve che sarebbe caduta, avrebbe impedito le operazioni di guerra, nessuno si sarebbe mosso; il freddo secco e sano si sopportava bene. La mistificazione "pietosa" era conforme alla propaganda del regime.
Noi, forse, cercavamo di esorcizzare la realtà di cui eravamo prigionieri, inseguendo ingenuamente anche l'obiettivo di "ricaricarci", ma sui giornali giunti dall'Italia col solito mese di ritardo leggemmo un discorso di Mussolini che ci parve rivelare, forse per la prima volta in maniera tanto scoperta, che la retorica non poteva più nascondere le difficoltà e le debolezze del regime all’interno e sui fronti di guerra. Ci fu chi disse che ormai la campana dava un suono fesso.
Tuttavia quel po’ di riposo, come sempre accadeva, ridiede confidenza con la vita e riaprì l'animo alla speranza. Speranza di vivere, non di vincere. Elemento determinante per quella generale ritonificazione fu la notizia, fatta circolare la sera del 14, che il generale Troiano, che aveva sostituito nel comando del raggruppamento il gen. Diamanti, tornando in Italia ai primi freddi, era partito in macchina per andare a cercare nelle retrovie gli accantonamenti, dove avremmo trascorso tranquillamente e al caldo tutto l'inverno.
Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. La cartina riportata è stata ricavata da Google Earth dopo le opportune verifiche sul campo e riporta la posizione del Raccordino rispetto agli altri punti di riferimento citati nel libro.
IL RACCORDINO.
La notte del Raccordino fu la notte del freddo, del sonno, della rassegnazione. Ci accanivamo a battere i piedi a terra o contro le pareti del trincerone, dove si era raccolto tutto il gelo di Russia, o ci picchiavamo sulle braccia incrociando le mani guantate. Fermarsi per la stanchezza significava sentire subito le ossa scricchiolare come legna secca. A turno ci buttavamo sui tavolacci umidi e sporchi dell’unico rifugio. Il fumo della stufa rendeva l’aria irrespirabile. Appena entrati gli occhi lacrimavano e la tosse prendeva alla gola, poi ci si abituava al fumo e all’aria pestilenziale. Si era al caldo, dopo tutto, e si aveva l’impressione di sentirsi quasi al sicuro.
Percorrevo il camminamento-trincea e ad ogni piazzola trovavo la solita domanda: "Non è ancora venuto il nostro turno di andare a scaldarci?". "No, c'è tempo. Battere i piedi e tenere gli occhi aperti". Non avevamo un compito da poco. La nostra posizione, che doveva fungere da raccordo fra due capisaldi, in realtà era una trincea isolata, piazzata non su una "gobba" del terreno, ma in una zona piuttosto piatta. A destra, il caposaldo X rimaneva a più di mezzo chilometro e il collegamento era tenuto da una pattuglia di 8 uomini che tra l’altro aveva il compito di sorvegliare la balka boscosa che scendeva fino a Ogolewka, perché di lì i pattuglioni russi avrebbero potuto infiltrarsi alle spalle del nostro schieramento. A sinistra, a circa due chilometri, il caposaldo Z, con cui "si sarebbe dovuto" mantenere il collegamento per mezzo di una pattuglia di tre uomini, che "avrebbe dovuto" incontrare a metà strada un'altra pattuglia di eguale forza proveniente dal caposaldo Z. C'era tutto per stare insicuri e rassegnati.
I russi non davano tregua con le mitragliere, coi mortai, coi proiettili traccianti che sembravano partire a volte da postazioni oltre il fiume, a volte da armi piazzate a poche decine di metri da noi allo scopo di mantenere il nostro improvvisato schieramento in una costante tensione. I loro razzi colorati illuminavano a giorno tutta la riva destra del Don.
Da noi le Breda ogni tanto si inceppavano, il moschetto 91 era poco più che un bastone ingombrante, le due mitragliatrici pesanti in nostro possesso erano tenute in esercizio, sparando raffiche a casaccio, per non trovarle bloccate dal gelo. Le sentivamo così preziose che, quantunque il trincerone non fosse lungo più di 200 metri, le cambiavamo sovente di postazione per cercare di renderle più difficilmente individuabili dai precisi mortai russi.
Così aspettammo le prime luci dell'alba, l'ora ufficiale delle sorprese, degli attacchi improvvisi. Ancora nelle viscere la sensazione che solo il caso poteva proteggerci.
Il caso (o l'imperscrutabile piano operativo dei russi?) per quella notte fu dalla nostra parte. Estrema tensione degli animi per quanto avrebbero potuto fare gli altri, ma niente di più. Così ancora nelle prime ore del mattino. Il fronte era come caduto in un improvviso letargo, non si udiva nessuno sparo, la calma era assoluta. Il freddo, il sonno, la tensione avevano accasciato anche i più resistenti; poi trascorse qualche ora tranquilla, si vide chiaro, arrivò il caffè caldo e un po' di cognac. Alla tensione subentrò la rassegnazione di fronte alla prospettiva, ritenuta certa, di passare nel trincerone del Raccordino, russi permettendo, ancora giorni e notti. Invece, verso mezzogiorno, una compagnia di guastatori, ravvolti in bianche casacche, venne a darci il cambio. Un quarto d'ora per passare le consegne, per dare alcune indicazioni sommarie all'ufficiale genovese che comandava i guastatori, poi una stretta di mano, "Ciao, Poggi, ti lascio il Raccordino. Buona fortuna!". "Buona fortuna anche a te. Arrivederci".
Nei pressi dell'Olimpo si ricongiungemmo con quanto rimaneva del 6° battaglione e ci mettemmo in marcia nella direzione di Getreide Swiss, rifacendo a piedi la strada percorsa in camion la mattina del 12. Cominciava a scendere la sera quando ci fermammo presso un immenso capannone dai muri di mattone e dal tetto di paglia, forse la stalla o il magazzino di un colcos. Ci buttammo sulla paglia, soddisfatti di quanto avevamo trovato. I combattimenti dovevano aver ripreso ad infuriare a pochi chilometri di distanza, perché ne giungeva l’eco chiarissima; ma a noi pareva già di essere lontanissimi, fuori tiro.
Restammo nel capannone il 14 e il 15 dicembre. Dormimmo e riorganizzammo alla meglio i reparti, equilibrando i vuoti. Da casa era giunta molta posta; a me anche un pacco con l’uva augurale per il primo dell’anno. Occupai varie ore a rispondere ai miei. Mi piaceva scrivere singolarmente a mia moglie, ai miei genitori, a mia nonna, anche se sapevo che le lettere differenziate sarebbero state lette collegialmente, riuniti tutti alla sera attorno al tavolo su cui troneggiava Laura addormentata o sgambettante nella piccola culla. Del resto, lo schema degli scritti era unico: assicuravo che il battaglione era a riposo nelle retrovie, perciò i miei dovevano stare tranquilli; l'inverno, poi, e tutta la neve che sarebbe caduta, avrebbe impedito le operazioni di guerra, nessuno si sarebbe mosso; il freddo secco e sano si sopportava bene. La mistificazione "pietosa" era conforme alla propaganda del regime.
Noi, forse, cercavamo di esorcizzare la realtà di cui eravamo prigionieri, inseguendo ingenuamente anche l'obiettivo di "ricaricarci", ma sui giornali giunti dall'Italia col solito mese di ritardo leggemmo un discorso di Mussolini che ci parve rivelare, forse per la prima volta in maniera tanto scoperta, che la retorica non poteva più nascondere le difficoltà e le debolezze del regime all’interno e sui fronti di guerra. Ci fu chi disse che ormai la campana dava un suono fesso.
Tuttavia quel po’ di riposo, come sempre accadeva, ridiede confidenza con la vita e riaprì l'animo alla speranza. Speranza di vivere, non di vincere. Elemento determinante per quella generale ritonificazione fu la notizia, fatta circolare la sera del 14, che il generale Troiano, che aveva sostituito nel comando del raggruppamento il gen. Diamanti, tornando in Italia ai primi freddi, era partito in macchina per andare a cercare nelle retrovie gli accantonamenti, dove avremmo trascorso tranquillamente e al caldo tutto l'inverno.
martedì 27 ottobre 2020
I giorni e gli anni, parte 2
Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".
Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. Danilo Ferretti fu fatto prigioniero nel Dicembre 1943 e scrisse questo libro solo nel 1979. L'immagine è stata scattata dal sottoscritto nell'estate del 2019 dalle postazioni italiane sopra Ogolewka, di cui si vedono ormai solo i poveri resti.
OGOLEWKA.
Il 10 dicembre era andato all'attacco il 30°. La sera prima, a mensa, un ufficiale di grossa mole aveva detto: "Non siamo siamo fortunati, noi del 6°. Siamo il miglior battaglione di tutto il raggruppamento e per un’azione facile che darà molta gloria e trascurabili perdite viene scelto il 30°. È un vero peccato! Forse dovevamo farci avanti".
La sera del 10, ancora a mensa, fummo messi al corrente dell’azione compiuta dal 30°. Nel vano tentativo di occupare Ogolewka il battaglione era stato completamente distrutto. L'ufficiale grasso, per tutto il tempo che durò la cena, rifletté in silenzio sul piatto. Il 12 toccò a noi.
Che cosa era Ogolewka? Un villaggio, un pugno di povere case quasi tutte in legno, sulla riva destra del Don, annidato in una piccola insenatura, una cucchiaiata di terra sovrastata da una gobba pelata di terreno alta una cinquantina di metri, su cui passavano le prime linee "fortificate" dell’ARMIR. Oltre il Don, sulla riva sinistra, si stendevano terreni piatti, paludosi e fitti di vegetazione.
Per tutta l’estate Ogolewka era stata presidiata da piccoli reparti dell’ARMIR senza il minimo segno di disturbo da parte dei russi, le cui posizioni, al di là del fiume, neppure si vedevano. A metà novembre, alla prima neve, le cose cambiarono. Le tranquille, sbilenche casette di Ogolewka cominciarono ad essere fatte segno sistematicamente, metro, da precisi colpi di mortaio pesante e da intense raffiche di mitragliatrice: un tiro a bersaglio fisso. Ogolewka non poteva essere più tenuta; ciò nonostante fu riconfermato l'ordine di non abbandonarla. Centinaia di vite furono sacrificate, finché Ogolewka si evacuò da sola e fu tenuta solo dai morti.
Allora i comandi mutarono parere. Il possesso materiale del villaggio non aveva alcun significato; le nostre posizioni, tutte saldamente ancorate sulle alture della riva destra del Don, dominavano come volevano la piccola piana col suo gruppo di case. Ogolewka, anche senza essere presidiata rimaneva virtualmente nelle nostre mani.
Con sbalorditiva coerenza, il giorno 8 dicembre dal Comando di settore venne ordinato di rioccupare Ogolewka e nel corso di una settimana furono sacrificati interi battaglioni per un obiettivo inutile e Impossibile. "Perché?" - chiedemmo.
"A giorni verrà a darci il cambio una divisione corazzata tedesca. Ogolewka deve essere nelle nostre mani. Dobbiamo essere noi a consegnarla ai tedeschi". Questa fu la giustificazione che giunse ai reparti. Il giorno 12, dunque, toccò al 6°.
Avevamo passato una nottata insonne, parte all’addiaccio, parte in disgraziate baracchette di legno a Getreide Swiss, fino a poco prima occupata da alcune compagnie della Pasubio, dove il fuoco e il fumo delle stufette di ferro inutilmente lottavano col gelo che penetrava da mille fessure. Alle 4 del mattino partimmo in camion per il caposaldo Olimpo.
Mulinava nell'aria un sottile nevischio ghiacciato che tagliava la faccia. Il nostro camion, che si era messo in moto per ultimo, viaggiava in coda alla colonna. Aveva appena superato arrancando la discesa e la risalita di un profondo avvallamento, quando il motore si arrestò. Una tragedia date le circostanze, tanto più che lì imbarcati c'erano portaordini, esploratori, segnalatori e alcuni militi dalle facce magre e pallide giunti pochi giorni prima dall’Italia. L'autista sollevò il cofano bestemmiando e cominciò a smanettare dentro il motore. Ogni tanto sollevava la testa, mi rivolgeva uno sguardo desolato, allargava le braccia e, mostrandomi le grosse mani nere di morchia, ripeteva macchinalmente: "Qui ci vuole un meccanico, qui ci vuole un meccanico...".
Io mi agitavo con l’animo di chi, in fondo, si sente la coscienza sporca. Non credevo più a nulla di quella guerra, ma ero - mio malgrado - ancora così imbevuto di retorica che non volevo tenermi fuori da una prova che chiaramente si prospettava difficilissima e forse fatale.
Passò una buona mezz'ora. Ormai non si poteva sperare di raggiungere la colonna. Che fare? Andare avanti a piedi? E dove? Tornare indietro a piedi? E dove? "Provo ancora una volta a mettere in moto?" - chiese l'autista. "Prova" - gli dissi. Si mise davanti al radiatore e, spingendo con tutte le forze, cominciò a far girare la dura manovella. Uno scoppio, due scoppi, poi il motore riprese a funzionare.
"Ce l'ho fatta!" - esclamò l’autista e respirò profondamente. Ce l’aveva messa tutta. Ci rimettemmo in movimento seguendo quella che ci sembrava una pista sulla neve ghiacciata. Dopo un tragitto di poche centinaia di metri raggiungemmo la colonna, pure ferma per guasti ai camion di testa. Se non fosse stato che si moriva sul serio, e, anche senza morire, si abbaiava di freddo, si sarebbe potuto cogliere il lato comico di quella guerra. Ma non ci fu tempo per lunghe riflessioni.
Riprendemmo presto la marcia e verso le 10 arrivammo all’Olimpo. Lasciammo i camion e, ricomposti in fretta i reparti, ci avviammo a piedi verso il caposaldo X. Secondo quanto ci avevano assicurato certi ufficiali dell'Olimpo, Ogolewka non era più un problema, essendo stata occupata fin dalle prime ore del mattino da un battaglione della Divisione Pasubio, quindi, molto probabilmente, non ci sarebbe stato più bisogno di noi e forse saremmo potuti tornare subito indietro. Intanto proseguimmo in fila indiana verso il caposaldo X. La marcia era frequentemente interrotta da fermate. Quanto rimaneva del plotone esploratori era in coda alla lunga fila e veniva ripetutamente fatto segno a colpi di mortaio. I russi sembravano vedere solo noi. Alcuni feriti tornarono a Getreide Swiss, dove doveva esserci un posto di medicazione, con lo stesso automezzo che ci aveva portato all’Olimpo.
Finalmente giungemmo al famoso caposaldo X. Sembrava una postazione abbandonata fin dall’estate e riattivata alla bell'e meglio in via del tutto provvisoria. Non c'erano camminamenti; qua e là nel terreno solchi profondi non più di mezzo metro, appena rilevabili per la neve che li copriva. Contro una collinetta, "la gobba" che sovrastava Ogolewka, tre grossi bunker rinforzati da palizzate costituivano il nucleo centrale del caposaldo; dentro c'erano i comandi della Pasubio e della 3 Gennaio, i centralini telefonici, i portaordini e tanti ufficiali che passavano correndo curvi da un bunker all’altro chissà per quali misteriosi compiti. Noi, appena arrivati, con le mani vuotammo della neve i cosiddetti camminamenti e cercammo di ripararci quanto più possibile dai mortai russi che di tanto in tanto scaricavano una bordata. Dalla parte del Don si udiva un’intensa fucileria.
Non tardammo a vedere venir su da Ogolewka i primi feriti e, coi feriti, altra gente che sembrava aver perduto la testa. Ufficiali e soldati venivano "scaricati" davanti ad un bunker, in cui avrebbe dovuto esserci un medico o almeno un posto di medicazione. Non c’era niente. Ufficiali usciti dai ricoveri si raccoglievano attorno ai feriti e sembravano presi anche loro da una ventata di follia. Gesticolavano come si e gridavano: "Un medico, un medico! Dov'è un medico? Vigliacchi tutti!". I feriti, intanto, sacramentando, si tamponavano alla meglio le ferite con i pacchetti di medicazione. Finalmente, dopo tanto sbraitare e gesticolare, si scovò un medico. Arrivò dall’Olimpo, senza ferri chirurgici, senza disinfettante, senza bende. Ordinò di portare tutti i feriti all’Olimpo e fortunatamente si poterono approntare subito alcune carrette per il trasporto. La confusione nei tre bunker era immensa. Intanto non si entrava tanta era la ressa e nessuno sapeva che cosa si doveva fare.
Un capitano venuto su da Ogolewka, ferito ad una spalla e ad una mano, ma ancora in grado di ragionare, si ostinava a sostenere di fronte ad altri ufficiali dei comandi, che gli si erano fatti attorno, che non era difficile arrivare al villaggio stando al coperto di una balka boscosa, ma era assolutamente impossibile mantenervisi. Le mitragliatrici, gli anticarro e i mortai russi, piazzati nell'altra sponda in postazioni da tempo preparate e mascherate, nascosti dalla boscaglia, potevano arare e falciare letteralmente il terreno. Tutti erano così convinti che l'azione di "riconquista" di Ogolewka era pazzesca, che un Maggiore, comandante del caposaldo X, decise di telefonare al Comandante della Pasubio chiedendo di sospendere l'azione del nostro battaglione. Venne sul posto il Capo di S.M. della Pasubio, Col. Cangini. Una breve discussione all'interno di uno dei bunker, poi l'ordine: "Costi quel che costi, quando i tedeschi ci daranno il cambio, Ogolewka dovrà essere italiana".
Alle 12 precise si partì all'attacco di un nemico invisibile, perché a Ogolewka non c'erano russi, forse c'era solo qualche cecchino appostato convenientemente, ma il fuoco invalicabile proveniva dall'altra riva del fiume.
Due compagnie avanzate, una di rincalzo coi resti del plotone esploratori. Sulla "gobba" del caposaldo X scese un grande silenzio. Solo lontano sulla destra del fronte si udiva un cupo cannoneggiamento. Le due compagnie in ordine sparso si buttarono giù per il pendio scoperto, vedendo Ogolewka a non più di 300/400 metri di distanza. Pochi alberi e cespugli sul lato sinistro; per il resto terreno nudo, ripido, come predisposto per un'esercitazione di tiro per i russi annidati chissà dove.
I primi cento metri furono percorsi senza che dalle due parti si udisse uno sparo. Anche la compagnia di rincalzo cominciò a scendere. Ancora silenzio, un incredibile silenzio, poi ad un tratto l’aria esplose, si aprirono le cateratte, fuoco di anticarri, mortai, mitragliatrici davanti agli uomini, sugli uomini, una barriera di morte. Soltanto questo ricordo di quell’inferno. Dinnanzi a me, forse a cento metri, un ragazzo di Cremona, Farina, ex-allievo scuola mistica fascista, tenente dei mitraglieri. Con le lunghe gambe avanza a sbalzi brevi, veloci. È nella zona di fuoco. Mi pare che si trascini verso un uomo accosciato a terra con l’arma pesante ribaltata e che lo scuota. Lo vedo alzarsi, scorgo la sua barbetta rossastra, mi pare che gridi, è altissimo, cade giù di schianto, colpito in fronte. Ma qualcuno riesce a passare dallo sbarramento delle armi pesanti russe e si butta al riparo delle prime isbe di Ogolewka. Ci sono morti che stanno in piedi, stecchiti dal gelo.
Alle prime ore della sera i superstiti rientrano all’X. Nei comandi la confusione era aumentata. I reparti si erano dispersi nei vari ricoveri e gruppi di militari di propria iniziativa cercavano di preparare un minimo di riparo per la notte nei luoghi ritenuti più defilati. Dov’era il nemico? Se i russi avessero voluto, avrebbero potuto prenderci tutti senza colpo ferire. Era già buio quando mi mandò a chiamare il Comandante di battaglione affidandomi l'incarico di radunare i superstiti del mio plotone, del plotone comando e delle due compagnie decimate poche ore prima, e di recarmi a dare il cambio ad una compagnia della Tagliamento che da vari giorni teneva una posizione detta "Raccordino", tra il caposaldo X e il caposaldo Z. Uscirono dai bunker e dai camminamenti una trentina di uomini stanchi, malandati. Muovendoci come automi ci avviammo verso il Raccordino. Aveva ripreso a soffiare il vento tagliente che già all’alba di quel giorno ci aveva tormentati.
Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. Danilo Ferretti fu fatto prigioniero nel Dicembre 1943 e scrisse questo libro solo nel 1979. L'immagine è stata scattata dal sottoscritto nell'estate del 2019 dalle postazioni italiane sopra Ogolewka, di cui si vedono ormai solo i poveri resti.
OGOLEWKA.
Il 10 dicembre era andato all'attacco il 30°. La sera prima, a mensa, un ufficiale di grossa mole aveva detto: "Non siamo siamo fortunati, noi del 6°. Siamo il miglior battaglione di tutto il raggruppamento e per un’azione facile che darà molta gloria e trascurabili perdite viene scelto il 30°. È un vero peccato! Forse dovevamo farci avanti".
La sera del 10, ancora a mensa, fummo messi al corrente dell’azione compiuta dal 30°. Nel vano tentativo di occupare Ogolewka il battaglione era stato completamente distrutto. L'ufficiale grasso, per tutto il tempo che durò la cena, rifletté in silenzio sul piatto. Il 12 toccò a noi.
Che cosa era Ogolewka? Un villaggio, un pugno di povere case quasi tutte in legno, sulla riva destra del Don, annidato in una piccola insenatura, una cucchiaiata di terra sovrastata da una gobba pelata di terreno alta una cinquantina di metri, su cui passavano le prime linee "fortificate" dell’ARMIR. Oltre il Don, sulla riva sinistra, si stendevano terreni piatti, paludosi e fitti di vegetazione.
Per tutta l’estate Ogolewka era stata presidiata da piccoli reparti dell’ARMIR senza il minimo segno di disturbo da parte dei russi, le cui posizioni, al di là del fiume, neppure si vedevano. A metà novembre, alla prima neve, le cose cambiarono. Le tranquille, sbilenche casette di Ogolewka cominciarono ad essere fatte segno sistematicamente, metro, da precisi colpi di mortaio pesante e da intense raffiche di mitragliatrice: un tiro a bersaglio fisso. Ogolewka non poteva essere più tenuta; ciò nonostante fu riconfermato l'ordine di non abbandonarla. Centinaia di vite furono sacrificate, finché Ogolewka si evacuò da sola e fu tenuta solo dai morti.
Allora i comandi mutarono parere. Il possesso materiale del villaggio non aveva alcun significato; le nostre posizioni, tutte saldamente ancorate sulle alture della riva destra del Don, dominavano come volevano la piccola piana col suo gruppo di case. Ogolewka, anche senza essere presidiata rimaneva virtualmente nelle nostre mani.
Con sbalorditiva coerenza, il giorno 8 dicembre dal Comando di settore venne ordinato di rioccupare Ogolewka e nel corso di una settimana furono sacrificati interi battaglioni per un obiettivo inutile e Impossibile. "Perché?" - chiedemmo.
"A giorni verrà a darci il cambio una divisione corazzata tedesca. Ogolewka deve essere nelle nostre mani. Dobbiamo essere noi a consegnarla ai tedeschi". Questa fu la giustificazione che giunse ai reparti. Il giorno 12, dunque, toccò al 6°.
Avevamo passato una nottata insonne, parte all’addiaccio, parte in disgraziate baracchette di legno a Getreide Swiss, fino a poco prima occupata da alcune compagnie della Pasubio, dove il fuoco e il fumo delle stufette di ferro inutilmente lottavano col gelo che penetrava da mille fessure. Alle 4 del mattino partimmo in camion per il caposaldo Olimpo.
Mulinava nell'aria un sottile nevischio ghiacciato che tagliava la faccia. Il nostro camion, che si era messo in moto per ultimo, viaggiava in coda alla colonna. Aveva appena superato arrancando la discesa e la risalita di un profondo avvallamento, quando il motore si arrestò. Una tragedia date le circostanze, tanto più che lì imbarcati c'erano portaordini, esploratori, segnalatori e alcuni militi dalle facce magre e pallide giunti pochi giorni prima dall’Italia. L'autista sollevò il cofano bestemmiando e cominciò a smanettare dentro il motore. Ogni tanto sollevava la testa, mi rivolgeva uno sguardo desolato, allargava le braccia e, mostrandomi le grosse mani nere di morchia, ripeteva macchinalmente: "Qui ci vuole un meccanico, qui ci vuole un meccanico...".
Io mi agitavo con l’animo di chi, in fondo, si sente la coscienza sporca. Non credevo più a nulla di quella guerra, ma ero - mio malgrado - ancora così imbevuto di retorica che non volevo tenermi fuori da una prova che chiaramente si prospettava difficilissima e forse fatale.
Passò una buona mezz'ora. Ormai non si poteva sperare di raggiungere la colonna. Che fare? Andare avanti a piedi? E dove? Tornare indietro a piedi? E dove? "Provo ancora una volta a mettere in moto?" - chiese l'autista. "Prova" - gli dissi. Si mise davanti al radiatore e, spingendo con tutte le forze, cominciò a far girare la dura manovella. Uno scoppio, due scoppi, poi il motore riprese a funzionare.
"Ce l'ho fatta!" - esclamò l’autista e respirò profondamente. Ce l’aveva messa tutta. Ci rimettemmo in movimento seguendo quella che ci sembrava una pista sulla neve ghiacciata. Dopo un tragitto di poche centinaia di metri raggiungemmo la colonna, pure ferma per guasti ai camion di testa. Se non fosse stato che si moriva sul serio, e, anche senza morire, si abbaiava di freddo, si sarebbe potuto cogliere il lato comico di quella guerra. Ma non ci fu tempo per lunghe riflessioni.
Riprendemmo presto la marcia e verso le 10 arrivammo all’Olimpo. Lasciammo i camion e, ricomposti in fretta i reparti, ci avviammo a piedi verso il caposaldo X. Secondo quanto ci avevano assicurato certi ufficiali dell'Olimpo, Ogolewka non era più un problema, essendo stata occupata fin dalle prime ore del mattino da un battaglione della Divisione Pasubio, quindi, molto probabilmente, non ci sarebbe stato più bisogno di noi e forse saremmo potuti tornare subito indietro. Intanto proseguimmo in fila indiana verso il caposaldo X. La marcia era frequentemente interrotta da fermate. Quanto rimaneva del plotone esploratori era in coda alla lunga fila e veniva ripetutamente fatto segno a colpi di mortaio. I russi sembravano vedere solo noi. Alcuni feriti tornarono a Getreide Swiss, dove doveva esserci un posto di medicazione, con lo stesso automezzo che ci aveva portato all’Olimpo.
Finalmente giungemmo al famoso caposaldo X. Sembrava una postazione abbandonata fin dall’estate e riattivata alla bell'e meglio in via del tutto provvisoria. Non c'erano camminamenti; qua e là nel terreno solchi profondi non più di mezzo metro, appena rilevabili per la neve che li copriva. Contro una collinetta, "la gobba" che sovrastava Ogolewka, tre grossi bunker rinforzati da palizzate costituivano il nucleo centrale del caposaldo; dentro c'erano i comandi della Pasubio e della 3 Gennaio, i centralini telefonici, i portaordini e tanti ufficiali che passavano correndo curvi da un bunker all’altro chissà per quali misteriosi compiti. Noi, appena arrivati, con le mani vuotammo della neve i cosiddetti camminamenti e cercammo di ripararci quanto più possibile dai mortai russi che di tanto in tanto scaricavano una bordata. Dalla parte del Don si udiva un’intensa fucileria.
Non tardammo a vedere venir su da Ogolewka i primi feriti e, coi feriti, altra gente che sembrava aver perduto la testa. Ufficiali e soldati venivano "scaricati" davanti ad un bunker, in cui avrebbe dovuto esserci un medico o almeno un posto di medicazione. Non c’era niente. Ufficiali usciti dai ricoveri si raccoglievano attorno ai feriti e sembravano presi anche loro da una ventata di follia. Gesticolavano come si e gridavano: "Un medico, un medico! Dov'è un medico? Vigliacchi tutti!". I feriti, intanto, sacramentando, si tamponavano alla meglio le ferite con i pacchetti di medicazione. Finalmente, dopo tanto sbraitare e gesticolare, si scovò un medico. Arrivò dall’Olimpo, senza ferri chirurgici, senza disinfettante, senza bende. Ordinò di portare tutti i feriti all’Olimpo e fortunatamente si poterono approntare subito alcune carrette per il trasporto. La confusione nei tre bunker era immensa. Intanto non si entrava tanta era la ressa e nessuno sapeva che cosa si doveva fare.
Un capitano venuto su da Ogolewka, ferito ad una spalla e ad una mano, ma ancora in grado di ragionare, si ostinava a sostenere di fronte ad altri ufficiali dei comandi, che gli si erano fatti attorno, che non era difficile arrivare al villaggio stando al coperto di una balka boscosa, ma era assolutamente impossibile mantenervisi. Le mitragliatrici, gli anticarro e i mortai russi, piazzati nell'altra sponda in postazioni da tempo preparate e mascherate, nascosti dalla boscaglia, potevano arare e falciare letteralmente il terreno. Tutti erano così convinti che l'azione di "riconquista" di Ogolewka era pazzesca, che un Maggiore, comandante del caposaldo X, decise di telefonare al Comandante della Pasubio chiedendo di sospendere l'azione del nostro battaglione. Venne sul posto il Capo di S.M. della Pasubio, Col. Cangini. Una breve discussione all'interno di uno dei bunker, poi l'ordine: "Costi quel che costi, quando i tedeschi ci daranno il cambio, Ogolewka dovrà essere italiana".
Alle 12 precise si partì all'attacco di un nemico invisibile, perché a Ogolewka non c'erano russi, forse c'era solo qualche cecchino appostato convenientemente, ma il fuoco invalicabile proveniva dall'altra riva del fiume.
Due compagnie avanzate, una di rincalzo coi resti del plotone esploratori. Sulla "gobba" del caposaldo X scese un grande silenzio. Solo lontano sulla destra del fronte si udiva un cupo cannoneggiamento. Le due compagnie in ordine sparso si buttarono giù per il pendio scoperto, vedendo Ogolewka a non più di 300/400 metri di distanza. Pochi alberi e cespugli sul lato sinistro; per il resto terreno nudo, ripido, come predisposto per un'esercitazione di tiro per i russi annidati chissà dove.
I primi cento metri furono percorsi senza che dalle due parti si udisse uno sparo. Anche la compagnia di rincalzo cominciò a scendere. Ancora silenzio, un incredibile silenzio, poi ad un tratto l’aria esplose, si aprirono le cateratte, fuoco di anticarri, mortai, mitragliatrici davanti agli uomini, sugli uomini, una barriera di morte. Soltanto questo ricordo di quell’inferno. Dinnanzi a me, forse a cento metri, un ragazzo di Cremona, Farina, ex-allievo scuola mistica fascista, tenente dei mitraglieri. Con le lunghe gambe avanza a sbalzi brevi, veloci. È nella zona di fuoco. Mi pare che si trascini verso un uomo accosciato a terra con l’arma pesante ribaltata e che lo scuota. Lo vedo alzarsi, scorgo la sua barbetta rossastra, mi pare che gridi, è altissimo, cade giù di schianto, colpito in fronte. Ma qualcuno riesce a passare dallo sbarramento delle armi pesanti russe e si butta al riparo delle prime isbe di Ogolewka. Ci sono morti che stanno in piedi, stecchiti dal gelo.
Alle prime ore della sera i superstiti rientrano all’X. Nei comandi la confusione era aumentata. I reparti si erano dispersi nei vari ricoveri e gruppi di militari di propria iniziativa cercavano di preparare un minimo di riparo per la notte nei luoghi ritenuti più defilati. Dov’era il nemico? Se i russi avessero voluto, avrebbero potuto prenderci tutti senza colpo ferire. Era già buio quando mi mandò a chiamare il Comandante di battaglione affidandomi l'incarico di radunare i superstiti del mio plotone, del plotone comando e delle due compagnie decimate poche ore prima, e di recarmi a dare il cambio ad una compagnia della Tagliamento che da vari giorni teneva una posizione detta "Raccordino", tra il caposaldo X e il caposaldo Z. Uscirono dai bunker e dai camminamenti una trentina di uomini stanchi, malandati. Muovendoci come automi ci avviammo verso il Raccordino. Aveva ripreso a soffiare il vento tagliente che già all’alba di quel giorno ci aveva tormentati.
lunedì 26 ottobre 2020
Noi e loro 3
Altre volte sempre camminando su una strada innevata, pensavamo a come doveva essere stato per loro. Camion, slitte, urla, ordini, scoppi... o solo il silenzio della disperazione e della solitudine. E passo dopo passo ce li immaginavamo, ci immaginavamo di essere in mezzo a loro.
P.S. la fotografia non ha alcun fine nel tentare di accostare la nostra esperienza ai dolori ed alle privazioni che provarono quei ragazzi; è solo un altro modo per sentirli vicino e ricordarli; non ne abbia male nessuno.
P.S. la fotografia non ha alcun fine nel tentare di accostare la nostra esperienza ai dolori ed alle privazioni che provarono quei ragazzi; è solo un altro modo per sentirli vicino e ricordarli; non ne abbia male nessuno.
Noi e loro 2
Altre volte in mezzo ad una piccola foresta, mentre ci prendevamo una pausa, i rumori del bosco, vicini e lontani, ci davano la fortissima sensazione di non essere soli. Più volte ci siamo bloccati per guardare fra i rami se le nostre fosse solo sensazioni. Te li immaginavi, fermi al freddo anche loro, magari nello stesso identico posto dove noi casualmente ci eravamo fermati.
P.S. la fotografia non ha alcun fine nel tentare di accostare la nostra esperienza ai dolori ed alle privazioni che provarono quei ragazzi; è solo un altro modo per sentirli vicino e ricordarli; non ne abbia male nessuno.
P.S. la fotografia non ha alcun fine nel tentare di accostare la nostra esperienza ai dolori ed alle privazioni che provarono quei ragazzi; è solo un altro modo per sentirli vicino e ricordarli; non ne abbia male nessuno.
Noi e loro 1
A volte durante il trekking, camminando nella neve o nella tempesta, ci sembrava di avere intorno a noi delle presenze silenziose; certo, era frutto della nostra immaginazione, ma la sensazione in molti di noi era fortissima. Ne abbiamo parlato spesso. E ci piaceva crederlo; ci piaceva pensare che loro silenziosamente ci stessero osservando.
P.S. la fotografia non ha alcun fine nel tentare di accostare la nostra esperienza ai dolori ed alle privazioni che provarono quei ragazzi; è solo un altro modo per sentirli vicino e ricordarli; non ne abbia male nessuno.
P.S. la fotografia non ha alcun fine nel tentare di accostare la nostra esperienza ai dolori ed alle privazioni che provarono quei ragazzi; è solo un altro modo per sentirli vicino e ricordarli; non ne abbia male nessuno.
sabato 24 ottobre 2020
I giorni e gli anni, parte 1
Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".
Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. Il libro non è facilmente reperibile, ma ne consiglio la lettura.
VERSO IL FRONTE DEL DON.
Il convoglio, partito il 22 agosto dalla stazione Tiburtina di Roma aveva attraversato abbastanza velocemente il territorio italiano, recando sulle fiancate dei vagoni grandi scritte spavalde. A San Ruffillo, una stazioncina secondaria di Bologna, avevo appena avuto il tempo di abbracciare mia moglie e mia madre. Nonostante il facile, spesso gratuito, rifornimento di vino, non c’era allegria negli uomini. All’alba del 23 agosto ci svegliammo a Bronzolo, dove la tradotta era stata messa in sosta dalla mezzanotte in poi. E poi anche il vetro dei fiaschi fu buttato a terra.
Dopo il Brennero niente più cordiali gesti di saluto o sguardi affettuosi, anche se preoccupati. I civili tedeschi ci osservavano in silenzio con gelida indifferenza; i militari, terribilmente composti e seri, qualche volta rispondevano al nostro saluto, ma nei loro sguardi si leggeva ironia, forse disprezzo. A Innsbruck sostammo mezza giornata nella stazione, sempre guardati così. Impossibile non sentirsi a disagio. A partire di lì la tradotta del Montebello diventò una tradotta di consegnati, atmosfera punitiva.
Il treno, instradato su una linea secondaria a binario unico, passava attraverso vaste campagne. Era il pomeriggio avanzato e il convoglio procedeva lentissimo. Nei campi si vedevano gruppi di uomini e di donne al lavoro. Erano lavoratori italiani. Come si accorsero che il treno trasportava dei connazionali, interruppero il lavoro, gettarono a terra gli attrezzi e ci salutarono con alte grida. Alcuni, corsero a fianco dei vagoni, gridando "Italia! Italia!", quasi disperatamente e buttandosi a terra sfiniti quando il treno prese velocità. Quei lavoratori, quei braccianti, quegli italiani non sembravano degli uomini liberi, ma dei prigionieri. Discutemmo nei vagoni, con sofferenza, ma si finì per concludere che i tedeschi facevano la guerra sul serio e che le condizioni della guerra imponevano ferree regole di vita, con le quali dovevano fare i conti quanti già soffrivano per la lontananza dal proprio paese. Cresceva così nell’animo la pena dell’esiliato.
Il giorno seguente, all’alba, guardando fuori dal finestrino, sentii pesare ancora di più su di me una soffocante aria di caserma, anzi di luogo di pena. Certo non fui il solo a provare quella sensazione. La tradotta correva lungo le altissime mura di una fabbrica, per chilometri e chilometri, mura grigie e tetre proprio come quelle di un immenso carcere. Ogni tanto una ciminiera tra volute di fumo nerastro: eravamo ad Halle (Saale). Di qui piegammo verso est.
In Polonia subentrarono altre emozioni. Nella grigia, deserta pianura polacca, così povera di case e di uomini, così piena di tristezza, sotto un cielo basso che colava umidità, sembrava che lo sferragliare del treno rompesse e riempisse un pesante silenzio. Poi il silenzio prevaleva e la tradotta si fermava su un binario morto, non in una stazione, ma in aperta campagna. Passavano convogli pieni di soldati, scivolavano sui binari lucidi di pioggia coi loro carichi silenziosi, spettrali. Muti gli uomini, vestiti di acciaio come i cannoni, come le tanks. Lunghe soste inspiegabili. Dai vagoni, che i nostri lasciavano solo per estremo bisogno, soltanto una canzone trovava voce corale: "ta-pum, ta-pum, ta-pum...". Poi, improvvisamente, senza un segnale di preavviso, nulla... magari solo poche centinaia di metri e si ritornava indietro nello stesso posto di prima... senza indizio di ragione. Infine si ripartiva davvero, ma non era finita l'angoscia.
La Polonia cambiava aspetto, non più l'aperta, vuota campagna, ma villaggi, paesi, città e la visione della terribile condizione di miseria della popolazione polacca. Migliaia di bimbi, migliaia di donne ebree, mandrie affamate e perseguitate da guardiani senza ombra di pietà. Nella sosta di alcune ore alla periferia di Varsavia, benché i binari fossero presidiati metro per metro da orrende guardie tedesche dalle vecchie facce pietrificate e dai fucili con baionetta spianati, nugoli di bambini si precipitarono verso la nostra tradotta gridando "Italiano, gaglieta! Prego, italiano, gaglieta!".
Quel grido, quell’invocazione moltiplicò la nostra generosità, ma ferì profondamente i nostri sentimenti. Magra soddisfazione vedere che i bimbi polacchi non avevano paura di noi italiani, mentre i tedeschi erano visibilmente oggetto del loro odio. Che causa servivamo? Si affossarono i nostri residui, incerti, confusi, ideali.
In altre stazioni, negli immensi intrichi di smistamento di strade ferrate, donne ebree con la gialla stella di Davide sul petto lavoravano come schiave a ripulire i binari degli escrementi lasciati da innumerevoli convogli di militari, di prigionieri di guerra, di deportati, di bestie. Erano per lo più ragazze giovani, smunte, denutrite, dai vestiti laceri. Nessuna di loro, però, ci rivolgeva la parola o faceva un gesto per chiederci qualcosa da mangiare. I guardiani tedeschi non l'avrebbero tollerato ed erano pronti a sparare. Esse, al massimo, osavano lanciare uno sguardo furtivo, ed erano occhi di agnello ferito a morte quelli che si posavano per un attimo su di noi.
In una grande stazione, poco prima di entrare nella Russia Bianca, il nostro convoglio si era appena fermato quando un ufficiale del locale comando italiano ci informò che era assolutamente proibito dare cibi o qualsiasi altra cosa alle donne ebree e che la Kommandatur aveva protestato per il comportamento degli alpini, i cui convogli erano transitati alcune settimane prima ed avevano quasi fraternizzato con le donne ebree. La raccomandazione del nostro imbarazzatissimo compatriota, naturalmente, sortì l'effetto contrario, perché subito facemmo a gara nel porgere pane, scatolette, tabacco e quanto altro possedevamo, cercando di eludere la vigilanza dei guardiani tedeschi. Le ragazze ebree erano sveltissime ad afferrare quanto porgevamo o lanciavamo; subito si ricomponevano nel lavoro.
Purtroppo, però, una fu sorpresa dalla guardia appostata dietro un vagone. Era un vecchio dalla faccia di cane che si precipitò contro di noi urlando frasi incomprensibili, schiumando di rabbia, poi a pedate e a colpi di calcio di fucile cacciò davanti a sé, verso la stazione, come fosse una bestia immonda, la povera ragazza, che non tentava neppure di sottrarsi ai colpi, né emetteva un lamento. Le altre ragazze, a testa bassa, in silenzio, continuavano a raccogliere gli escrementi.
"Merci, monsieur!" - aveva mormorato la ragazza, cercando di nascondere in seno il pacchetto di gallette, prima che la guardia l’aggredisse. "Merci, monsieur!". Poco più tardi, mentre stavamo per partire, l'addetto al comando italiano di stazione ci informava che la poveretta era stata fucilata nel fossato che scorreva nei pressi. Questa è la Polonia del mio ricordo.
Poi attraversammo la Bielorussia o Russia Bianca. Non vedemmo più né bambini né ragazze ebree. Sembrava di passare per regioni abbandonate dall'uomo in seguito ad uno spaventoso cataclisma. In tutte le stazioni anche le più piccole e quasi sperdute nel bosco, resti di incendi e distruzioni, vagoni sventrati, treni blindati, che a noi ricordavano immagini della prima guerra mondiale, rovesciati ai lati della strada ferrata, ammassi di lamiere contorte.
Regione di Gomel, zona di partigiani, Nel convoglio correva voce che ancora pochi giorni prima una tradotta di alpini era stata attaccata e gli alpini avevano subito molte perdite. Su ogni vagone piazzammo le mitragliatrici pesanti e appostammo le Breda. In silenzio passammo per una foresta che sembrava non finire mai; l'ombra degli alberi portava nei vagoni folate di fresco che davano i brividi.
Dopo la regione di Gomel, l'Ukraina. Campi immensi di grano e di miglio non ancora mietuti. Non si vedeva un civile né nelle stazioni né nei campi. Dove si era cacciata, o dove era stata cacciata la gente? Chi avrebbe raccolto tutta quella ricchezza?
La nostra tradotta sembrava trovare da sola la strada attraverso la sterminata pianura, quasi scegliesse il passaggio là dove non c'era gente, e lento era il procedere del convoglio, ovattato il fragore ritmico delle ruote sui giunti. Se in Polonia ci avevano irritato le lunghe inspiegabili soste sui binari morti tanto che sembravamo impazienti di giungere, ora, invece, nessuno di noi si spazientiva. Ci si era adattati a dormire sulle tavole nude e rannicchiati in poco spazio. Su tutti passava una strana sonnolenza, un torpore che era stato certamente prodotto dal movimento del treno. Era come se fossimo stati dolcemente, a lungo cullati.
Poi, inaspettatamente, dissero che eravamo arrivati.
Una stazione più desolata delle altre, ovunque rottami di ferro contorti, ovunque ruggine, anche la terra color ruggine. A fianco dei binari i muri devastati e sbrecciati di una grossa fabbrica, recente bersaglio di massicci bombardamenti, che sembravano aver lasciato intatta, assurdamente, solo l'altissima ciminiera. Una strada disselciata si allungava verso una collinetta piatta su cui si intravedevano edifici apparentemente ancora in efficienza, ma gli edifici, come la strada, erano color polvere di carbone.
Dove eravamo finiti? Dov'era la stazione?
Finalmente, portati avanti e indietro dal treno che non smetteva di manovrare, vedemmo la stazione, o meglio, quello che rimaneva: quattro muri barcollanti e sui resti di una tettoia una grande insegna: "JSIUM".
Si dovette scendere dal treno. Gli uomini si muovevano di malavoglia, cercavano di sgranchirsi. Bene o male dentro quei vagoni si era vissuto. Dove si sarebbe andati ora? Fuori ruggine e carbone, poi anche pioggia, una pioggia plumbea da novembre avanzato, in Italia.
Sotto una tettoia sforacchiata dalle schegge cataste di zaini e di altro materiale militare italiano. Sul mucchio, avvolti nelle coperte da campo, stavano dormendo gli ultimi alpini del C.d’A. arrivato in Russia poco prima di noi. Ci fecero l'impressione di gente "anziana", già da molti mesi dentro il meccanismo di quella guerra. Ma già noi eravamo stanchi come loro, quantunque avessimo appena messo piede in Jsium, opprimente e plumbea.
Scendemmo, dunque, a terra e ci avviammo verso il teatro del paese sulla collinetta piatta, dove il battaglione avrebbe trovato sistemazione per qualche giorno, in attesa degli autocarri che ci trasporterebbero al fronte.
Finalmente vedemmo gente: donne e vecchi in fila sotto l’acqua in attesa della distribuzione del pane. Pane nerissimo intonato al colore di tutte le cose, anche dei vestiti e dei volti della piccola folla. Una scena penosa, tuttavia solo dieci giorni prima saremmo stati segnati da un’impressione ben altrimenti graffiante. Avveniva in noi qualcosa di paradossalmente contraddittorio. La realtà con cui venivamo a contatto allargava i dubbi e smascherava falsi valori e falsi ideali; nello stesso tempo, ognuno di noi, quasi animalescamente, si conformava a vivere la quotidianità dei disastri e degli orrori della guerra.
Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. Il libro non è facilmente reperibile, ma ne consiglio la lettura.
VERSO IL FRONTE DEL DON.
Il convoglio, partito il 22 agosto dalla stazione Tiburtina di Roma aveva attraversato abbastanza velocemente il territorio italiano, recando sulle fiancate dei vagoni grandi scritte spavalde. A San Ruffillo, una stazioncina secondaria di Bologna, avevo appena avuto il tempo di abbracciare mia moglie e mia madre. Nonostante il facile, spesso gratuito, rifornimento di vino, non c’era allegria negli uomini. All’alba del 23 agosto ci svegliammo a Bronzolo, dove la tradotta era stata messa in sosta dalla mezzanotte in poi. E poi anche il vetro dei fiaschi fu buttato a terra.
Dopo il Brennero niente più cordiali gesti di saluto o sguardi affettuosi, anche se preoccupati. I civili tedeschi ci osservavano in silenzio con gelida indifferenza; i militari, terribilmente composti e seri, qualche volta rispondevano al nostro saluto, ma nei loro sguardi si leggeva ironia, forse disprezzo. A Innsbruck sostammo mezza giornata nella stazione, sempre guardati così. Impossibile non sentirsi a disagio. A partire di lì la tradotta del Montebello diventò una tradotta di consegnati, atmosfera punitiva.
Il treno, instradato su una linea secondaria a binario unico, passava attraverso vaste campagne. Era il pomeriggio avanzato e il convoglio procedeva lentissimo. Nei campi si vedevano gruppi di uomini e di donne al lavoro. Erano lavoratori italiani. Come si accorsero che il treno trasportava dei connazionali, interruppero il lavoro, gettarono a terra gli attrezzi e ci salutarono con alte grida. Alcuni, corsero a fianco dei vagoni, gridando "Italia! Italia!", quasi disperatamente e buttandosi a terra sfiniti quando il treno prese velocità. Quei lavoratori, quei braccianti, quegli italiani non sembravano degli uomini liberi, ma dei prigionieri. Discutemmo nei vagoni, con sofferenza, ma si finì per concludere che i tedeschi facevano la guerra sul serio e che le condizioni della guerra imponevano ferree regole di vita, con le quali dovevano fare i conti quanti già soffrivano per la lontananza dal proprio paese. Cresceva così nell’animo la pena dell’esiliato.
Il giorno seguente, all’alba, guardando fuori dal finestrino, sentii pesare ancora di più su di me una soffocante aria di caserma, anzi di luogo di pena. Certo non fui il solo a provare quella sensazione. La tradotta correva lungo le altissime mura di una fabbrica, per chilometri e chilometri, mura grigie e tetre proprio come quelle di un immenso carcere. Ogni tanto una ciminiera tra volute di fumo nerastro: eravamo ad Halle (Saale). Di qui piegammo verso est.
In Polonia subentrarono altre emozioni. Nella grigia, deserta pianura polacca, così povera di case e di uomini, così piena di tristezza, sotto un cielo basso che colava umidità, sembrava che lo sferragliare del treno rompesse e riempisse un pesante silenzio. Poi il silenzio prevaleva e la tradotta si fermava su un binario morto, non in una stazione, ma in aperta campagna. Passavano convogli pieni di soldati, scivolavano sui binari lucidi di pioggia coi loro carichi silenziosi, spettrali. Muti gli uomini, vestiti di acciaio come i cannoni, come le tanks. Lunghe soste inspiegabili. Dai vagoni, che i nostri lasciavano solo per estremo bisogno, soltanto una canzone trovava voce corale: "ta-pum, ta-pum, ta-pum...". Poi, improvvisamente, senza un segnale di preavviso, nulla... magari solo poche centinaia di metri e si ritornava indietro nello stesso posto di prima... senza indizio di ragione. Infine si ripartiva davvero, ma non era finita l'angoscia.
La Polonia cambiava aspetto, non più l'aperta, vuota campagna, ma villaggi, paesi, città e la visione della terribile condizione di miseria della popolazione polacca. Migliaia di bimbi, migliaia di donne ebree, mandrie affamate e perseguitate da guardiani senza ombra di pietà. Nella sosta di alcune ore alla periferia di Varsavia, benché i binari fossero presidiati metro per metro da orrende guardie tedesche dalle vecchie facce pietrificate e dai fucili con baionetta spianati, nugoli di bambini si precipitarono verso la nostra tradotta gridando "Italiano, gaglieta! Prego, italiano, gaglieta!".
Quel grido, quell’invocazione moltiplicò la nostra generosità, ma ferì profondamente i nostri sentimenti. Magra soddisfazione vedere che i bimbi polacchi non avevano paura di noi italiani, mentre i tedeschi erano visibilmente oggetto del loro odio. Che causa servivamo? Si affossarono i nostri residui, incerti, confusi, ideali.
In altre stazioni, negli immensi intrichi di smistamento di strade ferrate, donne ebree con la gialla stella di Davide sul petto lavoravano come schiave a ripulire i binari degli escrementi lasciati da innumerevoli convogli di militari, di prigionieri di guerra, di deportati, di bestie. Erano per lo più ragazze giovani, smunte, denutrite, dai vestiti laceri. Nessuna di loro, però, ci rivolgeva la parola o faceva un gesto per chiederci qualcosa da mangiare. I guardiani tedeschi non l'avrebbero tollerato ed erano pronti a sparare. Esse, al massimo, osavano lanciare uno sguardo furtivo, ed erano occhi di agnello ferito a morte quelli che si posavano per un attimo su di noi.
In una grande stazione, poco prima di entrare nella Russia Bianca, il nostro convoglio si era appena fermato quando un ufficiale del locale comando italiano ci informò che era assolutamente proibito dare cibi o qualsiasi altra cosa alle donne ebree e che la Kommandatur aveva protestato per il comportamento degli alpini, i cui convogli erano transitati alcune settimane prima ed avevano quasi fraternizzato con le donne ebree. La raccomandazione del nostro imbarazzatissimo compatriota, naturalmente, sortì l'effetto contrario, perché subito facemmo a gara nel porgere pane, scatolette, tabacco e quanto altro possedevamo, cercando di eludere la vigilanza dei guardiani tedeschi. Le ragazze ebree erano sveltissime ad afferrare quanto porgevamo o lanciavamo; subito si ricomponevano nel lavoro.
Purtroppo, però, una fu sorpresa dalla guardia appostata dietro un vagone. Era un vecchio dalla faccia di cane che si precipitò contro di noi urlando frasi incomprensibili, schiumando di rabbia, poi a pedate e a colpi di calcio di fucile cacciò davanti a sé, verso la stazione, come fosse una bestia immonda, la povera ragazza, che non tentava neppure di sottrarsi ai colpi, né emetteva un lamento. Le altre ragazze, a testa bassa, in silenzio, continuavano a raccogliere gli escrementi.
"Merci, monsieur!" - aveva mormorato la ragazza, cercando di nascondere in seno il pacchetto di gallette, prima che la guardia l’aggredisse. "Merci, monsieur!". Poco più tardi, mentre stavamo per partire, l'addetto al comando italiano di stazione ci informava che la poveretta era stata fucilata nel fossato che scorreva nei pressi. Questa è la Polonia del mio ricordo.
Poi attraversammo la Bielorussia o Russia Bianca. Non vedemmo più né bambini né ragazze ebree. Sembrava di passare per regioni abbandonate dall'uomo in seguito ad uno spaventoso cataclisma. In tutte le stazioni anche le più piccole e quasi sperdute nel bosco, resti di incendi e distruzioni, vagoni sventrati, treni blindati, che a noi ricordavano immagini della prima guerra mondiale, rovesciati ai lati della strada ferrata, ammassi di lamiere contorte.
Regione di Gomel, zona di partigiani, Nel convoglio correva voce che ancora pochi giorni prima una tradotta di alpini era stata attaccata e gli alpini avevano subito molte perdite. Su ogni vagone piazzammo le mitragliatrici pesanti e appostammo le Breda. In silenzio passammo per una foresta che sembrava non finire mai; l'ombra degli alberi portava nei vagoni folate di fresco che davano i brividi.
Dopo la regione di Gomel, l'Ukraina. Campi immensi di grano e di miglio non ancora mietuti. Non si vedeva un civile né nelle stazioni né nei campi. Dove si era cacciata, o dove era stata cacciata la gente? Chi avrebbe raccolto tutta quella ricchezza?
La nostra tradotta sembrava trovare da sola la strada attraverso la sterminata pianura, quasi scegliesse il passaggio là dove non c'era gente, e lento era il procedere del convoglio, ovattato il fragore ritmico delle ruote sui giunti. Se in Polonia ci avevano irritato le lunghe inspiegabili soste sui binari morti tanto che sembravamo impazienti di giungere, ora, invece, nessuno di noi si spazientiva. Ci si era adattati a dormire sulle tavole nude e rannicchiati in poco spazio. Su tutti passava una strana sonnolenza, un torpore che era stato certamente prodotto dal movimento del treno. Era come se fossimo stati dolcemente, a lungo cullati.
Poi, inaspettatamente, dissero che eravamo arrivati.
Una stazione più desolata delle altre, ovunque rottami di ferro contorti, ovunque ruggine, anche la terra color ruggine. A fianco dei binari i muri devastati e sbrecciati di una grossa fabbrica, recente bersaglio di massicci bombardamenti, che sembravano aver lasciato intatta, assurdamente, solo l'altissima ciminiera. Una strada disselciata si allungava verso una collinetta piatta su cui si intravedevano edifici apparentemente ancora in efficienza, ma gli edifici, come la strada, erano color polvere di carbone.
Dove eravamo finiti? Dov'era la stazione?
Finalmente, portati avanti e indietro dal treno che non smetteva di manovrare, vedemmo la stazione, o meglio, quello che rimaneva: quattro muri barcollanti e sui resti di una tettoia una grande insegna: "JSIUM".
Si dovette scendere dal treno. Gli uomini si muovevano di malavoglia, cercavano di sgranchirsi. Bene o male dentro quei vagoni si era vissuto. Dove si sarebbe andati ora? Fuori ruggine e carbone, poi anche pioggia, una pioggia plumbea da novembre avanzato, in Italia.
Sotto una tettoia sforacchiata dalle schegge cataste di zaini e di altro materiale militare italiano. Sul mucchio, avvolti nelle coperte da campo, stavano dormendo gli ultimi alpini del C.d’A. arrivato in Russia poco prima di noi. Ci fecero l'impressione di gente "anziana", già da molti mesi dentro il meccanismo di quella guerra. Ma già noi eravamo stanchi come loro, quantunque avessimo appena messo piede in Jsium, opprimente e plumbea.
Scendemmo, dunque, a terra e ci avviammo verso il teatro del paese sulla collinetta piatta, dove il battaglione avrebbe trovato sistemazione per qualche giorno, in attesa degli autocarri che ci trasporterebbero al fronte.
Finalmente vedemmo gente: donne e vecchi in fila sotto l’acqua in attesa della distribuzione del pane. Pane nerissimo intonato al colore di tutte le cose, anche dei vestiti e dei volti della piccola folla. Una scena penosa, tuttavia solo dieci giorni prima saremmo stati segnati da un’impressione ben altrimenti graffiante. Avveniva in noi qualcosa di paradossalmente contraddittorio. La realtà con cui venivamo a contatto allargava i dubbi e smascherava falsi valori e falsi ideali; nello stesso tempo, ognuno di noi, quasi animalescamente, si conformava a vivere la quotidianità dei disastri e degli orrori della guerra.
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