giovedì 25 novembre 2021

Rapporto sui prigionieri, parte 6

Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

LE MARCE DEL DAVAI.

Si è detto che i prigionieri, normalmente venivano incolonnati a gruppi di mille. La disciplina di una colonna cosi numerosa, scortata da non più di una ventina di giovanissimi soldati o da anziani territoriali, era ottenuta con il terrore. Le guardie sparavano incessantemente, in aria, sui fianchi della colonna, ad una spanna dai piedi dei prigionieri. Non era ammesso uscire dai ranghi per nessun motivo, anche lo scarto di un metro costava all'imprudente una sventagliata di mitra. La marcia era accompagnata dalle grida incessanti, ossessive dei russi che incitavano a camminare più in fretta. Con una monotonia ed un'apatia tutte orientali, urlavano: "Davaj... Davaj... Davaj bistriej!" (avanti, avanti in fretta) per ore e ore, dalla partenza all'arrivo. Ogni prigioniero ricorda come un incubo quella parola ed essa, ancor oggi, è adoperata per indicare quelle tragiche marce di trasferimento.

Le colonne percorrevano tappe di quindici, venti chilometri giornalieri con il bello e con il cattivo tempo. Al termine della tappa, i villaggi offrivano come ricovero capannoni o stalle, edifici diroccati che non erano mai sufficienti per ospitare tutti, sempre superaffollati non permettevano certo agli uomini di coricarsi. Quando non vi erano locali sufficienti o adatti, i prigionieri venivano ammassati sulla piazza del paese e fatti pernottare all'aperto con il risultato che all'indomani la colonna ripartiva con dieci o tienta uomini in meno, rimasti assiderati sul terreno e con tanti nuovi congelati, candidati, nei giorni seguenti alla esecuzione sommaria per il delitto di non camminare abbastanza svelti. Succedeva infatti questo: nella massa dei prigionieri, man mano che passavano i giorni, aumentavano coloro che non riuscivano a mantenere l'andatura degli altri; non solo i congelati ai piedi. C'erano ufficiali superiori molto anziani, c'era gente che non aveva mai camminato a piedi, come gli autisti, i medici, la gente dei Comandi, e c'era gente che aveva combattuto e camminato per due settimane percorrendo cinquanta, settanta, chi cento chilometri di ritirata che ora dovevano fare a ritroso per ritornare al Don; ne avrebbe dovuti fare un altro centinaio prima di arrivare al capolinea ferroviario di Kalac.

Tutti costoro, in fondo alla colonna, arrancavano come potevano, qualche volta con la forza della disperazione, in altri casi rinunciando alla lotta. Il soldato russo che chiudeva la colonna non aveva scrupoli: chi non ce la faceva, veniva "eliminato". Nessun prigioniero doveva rimanere vivo ai bordi della strada. I più feroci erano i giovanissimi soldati, ragazzi di 17 forse 15 anni, che conducevano la loro guerra privata contro gli invasori, uccidendo senza rischio quelli che avevano a portata di mano.

Quando le colonne incrociavano soldati ed automezzi diretti al fronte, non mancavano le angherie, gli sputi, le percosse, quando non erano sventagliate di mitra nel mucchio. Il prigioniero era alla mercé del singolo soldato e mai nessun ufficiale è intervenuto ad impedire simili barbarie. Le marce durarono dai quindici ai venticinque giorni a seconda del luogo della cattura. Durante questo periodo fu distribuito da mangiare solo discontinuamente e la sola cosa data era pane nero in ragione di un paio d'etti a testa. Praticamente, quegli uomini dovettero marciare per centinaia di chilometri e durante tre settimane, mangiando - e non tutti i giorni - solo un boccone di pane, mai un pasto o una bevanda calda. Questo in pieno inverno russo, con temperature micidiali, senza poter dormire o riposarsi al caldo alla fine di ogni tappa. Non c'è da meravigliarsi se i loro itinerari erano seminati di cadaveri.

Nella fotografia la stazione di Kalac fotografata nell'estate del 2019.

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